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di Giorgio Bongiovanni
Richieste di scarcerazione, di sospensione della pena, di revoca della sentenza. Tramite i suoi legali l’ex senatore, Marcello Dell’Utri, in questi anni ci ha provato più volte. Stavolta però, dopo la decisione del Tribunale di Sorveglianza che ha detto “No!” all’ennesima istanza di scarcerazione per motivi di salute presentata dai legali del fondatore di Forza Italia, alla voce di familiari, avvocati e politici, ha voluto affiancare le sue stesse parole. Nella missiva scritta dal carcere di Rebibbia, dove sta scontando una condanna a 7 anni di reclusione per concorso esterno in associazione mafiosa parla di “amarezza”, di “sorpresa” per “l’ennesimo atto di crudeltà compiuto” nei suoi confronti. Ritiene le motivazioni dei giudici come “fantasiose” e ci racconta che il suo tentativo di latitanza in Libano “è una leggenda”, addirittura chiedendo ai propri difensori di “far acclarare una volta per tutte la verità dei fatti”.
E’ sicuramente legittimo richiedere per i detenuti la giusta assistenza e, soprattutto per chi è credente, è anche un insegnamento evangelico. Tuttavia non si può non prendere atto dei criteri della giustizia italiana che, con le autorità preposte, valuta i singoli casi di detenzione e lo stato di salute tramite l’utilizzo di periti e medici legali super partes. Ebbene negli ultimi due casi il Tribunale di Sorveglianza ha riconosciuto che Dell’Utri, allo stato attuale, nonostante le malattie di cui è affetto, può essere tranquillamente assistito e curato in carcere, in conformità con il regime detentivo.
Ciò che sconcerta è leggere i commenti di tanti soggetti vicini all’ex senatore che usano la malattia esclusivamente per motivi politici e, soprattutto, per proclamare l’innocenza di un criminale mafioso che è stato riconosciuto “Colpevole” in via definitiva. Secondo le motivazioni della sentenza di secondo grado, sostanzialmente confermate dalla Suprema Corte, Marcello Dell'Utri è stato il "mediatore contrattuale" di un patto tra Cosa Nostra e Silvio Berlusconi, e in questo contesto tra il 1974 e il 1992 "non si è mai sottratto al ruolo di intermediario tra gli interessi dei protagonisti", e "ha mantenuto sempre vivi i rapporti con i mafiosi di riferimento".
Il pregiudicato Marcello Dell’Utri, di fatto, nella sua lettera arriva ad accusare lo Stato. Con quelle parole, provocatorie ed arroganti, l’ex politico di Forza Italia offende decine e decine di familiari di vittime di mafia.
Familiari che vengono calpestati ogni qual volta, a livello politico e non solo, si invocano proposte assurde come l’abrogazione del 41 bis o dell’ergastolo.
Così si va ben oltre il reclamare i “diritti dei detenuti”. Che diritti hanno avuto tutti coloro che hanno avuto parenti uccisi, che sono stati fatti saltare in aria o che sono stati sciolti nell’acido? Non è forse questa una crudeltà più grave? E’ per questo che monta la rabbia da parte di chi in tanti anni non ha ancora avuto giustizia.
L’abbiamo già scritto altre volte. Marcello Dell’Utri può fare una scelta se davvero volesse uscire dal carcere prima del tempo: parlare con i magistrati ed iniziare a collaborare con la giustizia. Che dica tutto quello che sa di quella “mediazione” che ha condotto tra Cosa nostra ed il suo “amico” Silvio Berlusconi. Nelle motivazioni della sentenza della Cassazione si parla della “decisività dell’opera di Dell’Utri nel dare vita all’accordo fonte di reciproci vantaggi dei contraenti”. Spieghi Dell’Utri agli inquirenti quei “reciproci vantaggi”.
Faccia i nomi dei boss con i quali è entrato in contatto, con cui ha fatto affari e business, dai quali ha ricevuto i voti. Ci dica cosa si dissero i capi mafia, allora capitanati da Stefano Bontade, con l'allora imprenditore Silvio Berlusconi durante gli incontri accertati negli anni Settanta. Ci dica quello che sa sui fatti del 1992, del 1993 e del 1994. Secondo quanto riferito dal collaboratore di giustizia Gaspare Spatuzza, in quel periodo ha avuto più incontri con il boss di Brancaccio, Giuseppe Graviano. Ci dica cosa eventualmente si sono detti e se è stato tra quelli che ha trattato con i boss ai tempi della trattativa. Solo così potrebbe veramente diventare un eroe della patria e ripulire quelle enormi macchie che si sono diffuse nell’arco della sua carriera. E’ questa la “conditio sine qua non”, l’unica via per tornare ad essere libero, con la garanzia di tutti quei benefici riconosciuti ai collaboratori di giustizia.

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