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di Giorgio Bongiovanni
Con la requisitoria dei pm di Palermo e le conseguenti richieste di pena per gli imputati si è chiuso un importante capitolo del processo trattativa Stato-mafia che si celebra a Palermo. Dopo aver ultimato le proprie discussioni i sostituti procuratori nazionali antimafia, Antonino Di Matteo e Francesco Del Bene si sono di fatto “congedati” di fronte alla Corte d’assise formata dal presidente Alfredo Montalto, dal giudice a latere Stefania Brambille e dai giudici popolari.  
Non possiamo non sottolineare alcuni dati che proprio Di Matteo ha evidenziato nel suo ultimo intervento in aula. “Man mano che andavo avanti - ha ricordato il magistrato - già nella fase delle investigazioni, iniziavo ad avere contezza del costo che avrei pagato con questo processo e credo di non essermi sbagliato. Hanno più volte affermato che l’azione di noi Pubblici ministeri è stata caratterizzata perfino da finalità eversiva, nessuno ci ha difeso da accuse così gravi. Ma noi l’avevamo messo nel conto, perché così avviene in quei casi, sempre meno frequenti, in cui l’accertamento giudiziario non si limita alla ricostruzione minimalista degli aspetti criminali più ordinari, ma si rivolge all’individuazione di profili più alti e di causali più complesse. Quelle che, come in questo processo, corrono parallele non per un singolo fatto criminoso, ma ad una vera e propria strategia. Nel nostro caso quella strategia stragista con la quale Cosa Nostra ricattò lo Stato con la complicità di uomini di quello Stato”.
E’ così che si è concluso il periodo di applicazione al processo per i due sostituti procuratori nazionali che torneranno a Roma, dove continueranno la lotta contro le organizzazioni criminali e contro le collusioni che le stesse mantengono con settori deviati delle istituzioni, della politica, dell’imprenditoria e della finanza.
Nella storia dei pm che si sono impegnati in questo processo (oltre a Di Matteo e Del Bene vanno ricordati Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi e prima ancora Antonio Ingroia) è assolutamente lodevole lo sforzo per la ricerca della verità, senza “calcoli di convenienze o opportunità”. E l’isolamento continuo, istituzionale e mediatico, che si è percepito nell’arco di oltre 210 udienze, dimostra il fastidio che il potere provava ad ogni passo avanti compiuto.
La requisitoria dei pm rappresenta una sintesi perfetta di quanto avvenuto nei primi anni Novanta, in quel momento storico che ha segnato, a colpi di bombe, il passaggio dalla Prima alla Seconda Repubblica.
Un atto che dovrebbe essere letto da tutti gli studenti d’Italia, per capire e conoscere ciò che è stato in passato e ciò che è il nostro presente.
A nostro giudizio le prove riportate di fronte ai giudici sono chiare, precise e non ambigue. Ci sono documenti, testimonianze di collaboratori di giustizia, di investigatori, di rappresentanti delle istituzioni, intercettazioni che offrono informazioni preziose per ricostruire i fatti del tempo.
Alle dichiarazioni attendibili di collaboratori di giustizia come Gaspare Spatuzza o Giovanni Brusca (quest’ultimo anche imputato) si aggiungono quelle di Massimo Ciancimino, figura complessa e in parte contraddittoria, ma che ha offerto importanti documenti a riscontro delle sue parole ed ha anche contribuito a far riaffiorare i ricordi di fior fior di smemorati di Stato. Da Claudio Martelli a Luciano Violante, passando per la dottoressa Liliana Ferraro (per citarne alcuni) è lunga la lista di testimoni eccellenti che tra “non ricordo” e mezze verità hanno comunque fornito dei piccoli tasselli del puzzle. Proprio Martelli per la prima volta in aula ha accusato la massoneria e la mafia di essere stati i complottisti della sua defenestrazione al ministero della Giustizia.
Poi ci sono state anche deposizioni clamorose come quella del Capo dello Stato Giorgio Napolitano che contrariamente a quanto aveva inizialmente asserito (aveva scritto una lettera alla Corte in cui diceva: “Non ho da riferire alcuna conoscenza utile al processo, come sarei ben lieto di potere fare se davvero ne avessi da riferire”) ha dichiarato che le bombe del ’92 e ’93 furono un “aut-aut” allo Stato, un “ricatto a scopo destabilizzante di tutto il sistema” quando già ci si aspettava un suo cedimento. Altrettanto importante la testimonianza dell’ambasciatore Francesco Paolo Fulci, ex capo del Cesis, che ha parlato delle indagini compiute assieme ad un suo analista sulle continue rivendicazioni della “Falange Armata”, strana sigla usata ad intermittenza per rivendicare stragi ed omicidi eccellenti. Dalle indagini, sovrapponendo due cartine, emergeva come i luoghi da dove partivano le telefonate erano le medesime delle sedi periferiche del Sismi.
Abbiamo letto e addirittura sentito in aula le intercettazioni di boss come Totò Riina e Giuseppe Graviano che rilasciano dichiarazioni precise su alcuni degli imputati. Non possiamo dimenticare le parole del Capo dei capi, Riina, che dal carcere ha inviato oscuri messaggi di condanna a morte ad uno dei pm del processo, Nino Di Matteo. Minacce che, dopo molte difficoltà, hanno indotto lo Stato italiano a concedergli una scorta di primo livello.
Tutti questi elementi dimostrano l’importanza di questo dibattimento. Per la prima volta, in oltre 150 anni di storia ci sono uomini di Stato onesti che hanno avuto il coraggio di portare a processo uomini di Stato i cui contorni sono quantomeno oscuri. Toccherà ora alla Corte valutare le prove e le eventuali responsabilità dei singoli imputati e nel suo editoriale (“88 anni e non sentirli”) Marco Travaglio ha sintetizzato quelli che sono i possibili scenari. Noi riteniamo che i riscontri per giungere a delle condanne siano diversi. Poi non possiamo sottovalutare che a rafforzare il quadro descritto nel processo di Palermo è attualmente in corso un altro a Reggio Calabria, ‘Ndrangheta stragista, condotto dal procuratore aggiunto Giuseppe Lombardo, dove gli imputati sono Rocco Santo Filippone, ritenuto vicino alla cosca Piromalli e l'ergastolano boss di Brancaccio Giuseppe Graviano. Un processo sugli attentati ai carabinieri in Calabria, tra il ‘93 e il ‘94, con gli omicidi, il 18 gennaio 1994, degli appuntati scelti Vincenzo Garofalo ed Antonino Fava. Secondo l’accusa quegli attentati rientravano pienamente nel disegno stragista di Cosa nostra a cui anche le potenti famiglie di ‘Ndrangheta, seppur non nella loro totalità, avevano preso parte.
Per anni si è detto che l’organizzazione criminale calabrese era stata contraria alle stragi ma grazie alle indagini ed alle dichiarazioni di diversi pentiti è emersa una nuova verità.
Il processo calabrese è iniziato da pochi mesi ma già ci sono state testimonianze importanti come quelle del collaboratore di giustizia Consolato Villani oppure quella dell’agente della Dia, Michelangelo Di Stefano, che nelle ultime udienze ha evidenziato i rapporti tra la ‘Ndrangheta ed il potere ripercorrendo le indagini compiute sull’eversione nera, movimenti separatisti meridionali, P2 e stragi. Segmenti investigativi in cui si ravvisano le presenze delle criminalità organizzate siciliane e calabresi, ma anche le evoluzioni della ‘Ndrangheta con la trasformazione ne “la Santa”, struttura in strettissimi legami con la massoneria.
In questi contesti si inserisce la partecipazione della ‘Ndrangheta alle stragi, con i Graviano che chiesero alle famiglie calabresi di prendere parte a quel progetto con gli attentati ai carabinieri. E ciò avviene nel medesimo periodo in cui Cosa nostra si apprestava a compiere l’attentato più sanguinario della sua storia, quella dello Stadio Olimpico, se non fosse che un malfunzionamento del telecomando evitò la carneficina con cui sarebbero morti almeno un centinaio tra militari e cittadini.
Un attentato che, secondo quanto riferito da Graviano a Spatuzza, era “necessario” (“Dissi a Graviano che ci stavamo portando un po' di morti che non ci appartenevano, ma lui mi disse che era bene che ci portassimo dietro questi morti, così 'chi si deve muovere si dà una mossa”) per sancire il patto definitivo con i nuovi referenti politici.
Quindi l’asse Reggio Calabria-Palermo, che lavora in pool nonostante la distanza materiale tra le Procure, sta portando alla luce quel che è veramente accaduto in quegli anni bui, dimostrando che dietro le stragi non vi erano solo le mafie, ma anche pezzi “deviati” dello Stato. Non solo. Sullo sfondo appare sempre più evidente il sospetto che a Cosa nostra, e quindi anche alla ‘Ndrangheta, quei delitti furono chiesti da poteri criminali, alcuni dei  quali, ancora oggi, potrebbero sedere al vertice delle Istituzioni. Quel che è certo è che al di là delle sentenze che verranno emesse, i fatti sono sotto gli occhi di tutti.

Foto © Giannini/Bitti

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