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francese mariodi Giorgio Bongiovanni
La fiction andata in onda ieri su Canale 5, dedicata alla figura di Mario Francese, “rappresenta una ricostruzione dei fatti che non esitiamo a definire grossolanamente falsa, strumentalmente artefatta e platealmente incongruente nella tempistica, nella logica e nei contenuti. E siccome non crediamo nell’ignoranza di chi l’ha concepita, non ci rimane che optare per una chiara e strumentale malafede, al solo scopo di denigrare l’immagine di questo giornale e dei suoi editori. E di questo gli autori saranno chiamati a rispondere nelle sedi opportune”. Con queste parole il presidente e direttore del Giornale di Sicilia Antonio Ardizzone ha chiesto in una missiva inviata alla società produttrice  (la Tao due di Pietro Valsecchi) e a Mediaset di rimuovere le immagini e i riferimenti diretti alla testata che aveva precedentemente fornito autorizzazione in quanto il film, a suo dire, "contiene frasi, immagini, commenti e affermazioni gravemente lesive dell’onore e della reputazione della nostra società e della testata giornalistica da essa edita". Contestualmente, come scritto nel primo comunicato, si diffidava la messa in onda della fiction, “così come mostrata in anteprima”. Ovviamente nella missiva si sottolineava l’appartenenza di Francese, ucciso dalla mafia il 26 gennaio 1979, al giornale, evidenziando che “Francese ha pagato con la vita per le cose che ha liberamente scritto sul Giornale di Sicilia. Nessuno glielo ha impedito, nessuno lo ha isolato” e che “fino a prova contraria gli editori del Giornale di Sicilia non sono mai, mai, stati sottoposti a indagini giudiziarie in sede penale, tanto meno quindi per fatti riguardanti presunte collusioni e connivenze con la criminalità organizzata”.
Di fronte alla notizia di diffida alla messa in onda della fiction, pubblicata su La Repubblica, immediatamente sono intervenute la Federazione nazionale della stampa e l’Assostampa siciliana (“Siamo certi che i dirigenti di Canale 5 respingeranno la richiesta di censura preventiva consentendo a milioni di italiani di conoscere la storia di un valoroso giornalista del Giornale di Sicilia. Dopo, ciascuno avrà modo di puntualizzare o correggere eventuali errori o imprecisioni”), così come l’Unci Sicilia (“Chiunque si senta leso da ricostruzioni ritenute imprecise o fuorvianti avrà sicuramente modo di far valere le proprie ragioni nelle sedi opportune, successivamente alla messa in onda del film”) e Articolo 21. Anche Pietro Valsecchi e Claudio Fava, sceneggiatori della fiction, hanno difeso la messa in onda, con il già vicepresidente della Commissione antimafia che sottolineava come “pretendere il diritto al silenzio, all’oblio, alla reticenza e alla menzogna sulla storia di un loro cronista ammazzato dalla mafia è assai triste”.
Un dato, però, contestato, dal Comitato di redazione del Giornale di Sicilia che si è compattato attorno al proprio editore, sottolineando che non c'è alcuna volontà di oscurare la valorosa figura di Mario Francese e ha chiarito di essere contro ogni forma di censura.  “Ciò che contesta il nostro editore alla produzione della fiction su Mario Francese - è scritto in una nota - e le sue intenzioni di procedere legalmente, sono fatti che riguardano lui soltanto e le sue ragioni”.
Di fronte a questo fiume di polemiche, a pochi giorni dalle commemorazioni, è grande l’amarezza che si prova. E’ vero che “Il Giornale di Sicilia” ha, ed ha avuto, cronisti che si sono impegnati, e che si adoperano nel raccontare i fatti ed i temi legati alla mafia e in generale alla criminalità. Non mancano i servizi sulle operazioni di polizia, i commenti e gli editoriali che plaudono proprio ai successi dello Stato nella lotta contro il malaffare. Non sempre, però, è stato così. Non si può dimenticare, ad esempio, che ai tempi del maxiprocesso, proprio il “Giornale di Sicilia” pubblicò una vignetta contro lo sforzo economico compiuto dallo Stato per realizzare l’aula del maxiprocesso chiedendosi a quanti palermitani si sarebbe potuto dare un lavoro con quei soldi.
Ardizzone scrive che “a un certo punto della fiction viene mostrata una foto di un mafioso, Michele Greco, insieme all’editore. Immagine che, se mai esistesse, risalirebbe a decenni prima, quando a Palermo sedevano allo stesso tavolo e si ritrovavano negli stessi circoli (quello del tiro a volo dell’Addaura, per esempio) politici, amministratori, prefetti, rappresentanti delle forze dell’ordine, insieme con personaggi che solo diverso tempo dopo sarebbero stati identificati dalle inchieste giudiziarie come mafiosi“.
Di fronte ad una tale affermazione condividiamo le parole di Fava che ha ricordato come “tutti sapevano, alla fine degli anni Settanta, che Michele Greco a Palermo era il capo della mafia come Nitto Santapaola lo era a Catania: e se con loro si incontravano prelati, editori, ministri e prefetti lo facevano nella piena consapevolezza che quei loro compagni incensurati di merende rappresentavano il potere utile ed indiscutibile di Cosa nostra”.
Oggi in un nuovo editoriale Ardizzone e Romano tornano a chiedere dove siano “le sentenze che certificano in maniera ineludibile le ‘responsabilità’” del giornale e quanta gente “dal suo editore all’ultimo dei cronisti, è stata condannata per responsabilità connesse alla tragica morte di Mario Francese, cronista assassinato per il coraggio delle sue inchieste giornalistiche pubblicate da questo quotidiano?”.
Il nodo della questione, però, non riguarda eventuali reati commessi.
Il processo sul delitto Francese ha ricostruito il clima in cui lo stesso giornalista lavorava alla fine degli anni Settanta. Nelle motivazioni della sentenza della corte d’Assise d’Appello, presieduta dal giudice Giuseppe Oliveri, che nel 2002 ha condannato Totò Riina, Michele Greco e gli altri boss della Cupola come mandanti dell’omicidio, si parla di “rapporti provati che legavano gli Ardizzone, proprietari ed editori del Giornale di Sicilia, a parecchi esponenti mafiosi, tra cui Michele Greco e Tommaso Spadaro”.
Nelle motivazioni della sentenza della corte d’Assise d’Appello si parla anche della “fuga di notizie che avveniva dall’interno del Giornale di Sicilia in favore di alcuni esponenti di Cosa nostra”.
E’ notorio che Francese aveva realizzato un dossier in cui si forniva una lettura “innovativa” dell’organizzazione criminale evidenziando il ruolo di quei corleonesi che solo qualche anno dopo arriveranno al vertice di Cosa nostra. E si ipotizza che proprio quel dossier sarebbe stato una delle cause dell’omicidio. L’inchiesta che verrà pubblicata soltanto dopo la morte del giornalista, in più puntate e in maniera parziale. Come faceva Cosa nostra a sapere del dossier? Una domanda che non ha mai trovato una risposta.
Certamente – si legge sempre nelle motivazioni della sentenza d’Appello – con l’omicidio Francese, l’organizzazione mafiosa raggiunge molteplici importanti obiettivi ad essa favorevoli: l’eliminazione dell’unico – in quel momento – cronista particolarmente scomodo per le sue capacità di analisi sugli interessi ed equilibri dell’organizzazione medesima, non diversamente paralizzabile. E il rinvio della pubblicazione del cosiddetto dossier”.
Scrivono sempre i giudici che “costituisce, ormai, un dato storico che, da quel momento, la linea editoriale del Giornale di Sicilia muta radicalmente, sino a divenire, negli anni dei pentimenti di Buscetta e Contorno e del primo maxi-processo, uno dei più feroci oppositori e critici dell’attività dei giudici componenti del cosiddetto pool-antimafia, definiti sceriffi e professionisti dell’antimafia ed attaccati quotidianamente con incisivi e dotti corsivi”. Sicuramente da allora la linea editoriale sarà ulteriormente cambiata ma negare la storia e far finta che certi episodi non siano mai esistiti è un insulto all’intelligenza dei siciliani in primis e di tutti gli italiani.

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