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di Giorgio Bongiovanni - Video integrale!
Trascrizione integrale del pm Di Matteo alla manifestazione “Questioni e visoni di giustizia: prospettive di riforma"

A 25 anni di distanza dalle stragi di Capaci e via d’Amelio sono davvero tanti gli interrogativi che restano aperti. Di seguito pubblichiamo integralmente l’intervento del pm di Palermo Antonino Di Matteo, intervenuto al convegno “Questioni e visioni di giustizia: prospettive di riforma”, in quanto riteniamo che sia inserito tra quei, purtroppo, pochi magistrati che continuano a cercare la verità su questi fatti. Verità che, come abbiamo già sostenuto in più occasioni, potrebbe portare ad un vero rinnovamento. Smascherando quegli uomini dal volto coperto, che quelle stragi hanno ordinato e sostenuto e che si annidano all’interno dello Stato e di determinati gangli dell’economia e del potere, si libererebbe il nostro Paese da quei condizionamenti criminali e mafiosi che lo attanagliano.




La trascrizione dell'intervento di Nino Di Matteo
“Buona sera a tutti. Innanzitutto voglio ringraziare gli onorevoli Di Maio e Bonafede che mi hanno invitato e mi hanno consentito di partecipare a questo convegno così interessante in una sede così prestigiosa. Io esprimerò il punto di vista di un magistrato che da ormai 25 anni si occupa di inchieste e processi su Cosa Nostra. Mi sono occupato di processi di ordinaria criminalità mafiosa, estorsioni, traffici di stupefacenti, omicidi, guerre di mafia. Mi sono occupato anche di stragi ed omicidi eccellenti ed anche soprattutto di processi che hanno riguardato ipotesi di accusa di collusioni tra esponenti politici, esponenti del mondo del potere ed organizzazione mafiosa. Mi sono occupato di processi che hanno riguardato ipotesi di riciclaggio del denaro mafioso ma credetemi, mi approccio a questa discussione con sincera umiltà, senza nessuna pretesa di esaustività, però con una consapevolezza maturata in questi 25 anni che è, consentitemi di dire, molto precisa e netta. La questione mafiosa, la diffusione di metodi mafiosi anche al di fuori delle compagini criminali tradizionali perfino all’interno delle istituzioni o comunque del potere, la sempre più evidente connessione ed interazione tra il sistema mafioso e quello corruttivo, costituiscono oggi un gravissimo fattore di condizionamento e compromissione della democrazia reale nel nostro paese. Una intollerabile e sistematica violazione di fondamentali diritti costituzionali. Ecco perché sono convinto, e questa convinzione, credetemi, è sincera, che nell’ottica della finalmente auspicabile effettiva applicazione dei principi della nostra Costituzione, la lotta alla mafia, alla corruzione e alla illegalità, e soprattutto, all’illegalità dei cosiddetti colletti bianchi e del potere, dovrebbe essere ciò che finora non è stato, ovvero il primo obiettivo di ogni governo di qualunque orientamento o colore politico.
Storicamente Cosa Nostra è stata l’organizzazione criminale di stampo mafioso che più di ogni altra ha alzato e concretamente esercitato a livelli altissimi la sua pretesa di partecipare attivamente alla gestione reale del potere nel nostro paese. È stata protagonista, lo sapete tutti, dei più efferati delitti, omicidi eccellenti e stragi, che hanno pesantemente condizionato e continuano in parte a condizionare la nostra democrazia. E questo non è una novità. Non credete a coloro i quali vi dicono che oggi la mafia è cambiata rispetto a ieri. Da sempre Cosa Nostra ha nel suo D.N.A. la capacità di instaurare, coltivare e mantenere nel tempo uno stretto rapporto di convivenza e sinergia con il potere ufficiale: politico, economico, finanziario, istituzionale.
Questa tremenda e peculiare capacità di Cosa Nostra è dimostrata ed esemplificata da tante vicende sfociate in procedimenti giudiziari, che non sarebbe concettualmente onesto relegare al rango di ordinarie od occasionali collusioni criminali. Esse rappresentano qualcosa di più significativo. Sono storie delle quali non si parla più, dopo che in passato se n’è parlato poco e male, spesso con consapevole travisamento della verità perfino quando è stata consacrata in sentenze definitive della magistratura. Mi riferisco, tra le altre, alla vicenda sfociata nella sentenza definitiva a carico del sette volte Presidente del Consiglio Andreotti ed alla sentenza sfociata nel procedimento a carico di uno dei maggiori esponenti di livello, prima della polizia di Stato e poi dei servizi di sicurezza, come il Dottor Contrada. Mi riferisco inoltre alla sentenza Dell’Utri, alle vicende giudiziarie più recenti che hanno riguardato due degli ultimi Presidenti della Regione Sicilia, il Senatore Salvatore Cuffaro e l’Onorevole Lombardo.
Questo soltanto per ricordarvi e ricordarci tutti un dato che una volta Salvatore Cancemi, un collaboratore di giustizia appartenente alla cupola di Cosa Nostra, mi raccontò con particolare enfasi, affermando: “Guardi, Riina ci diceva sempre: ‘se noi non avessimo avuto il rapporto con la politica, il rapporto con il potere, saremmo stati una banda di sciacalli e quindi una banda di criminali ordinari’”. Ed io aggiungo una banda facilmente debellabile con un’azione ordinaria di repressione criminale. Le teste pensanti dell’organizzazione, anche il Riina, hanno la consapevolezza precisa della decisività del rapporto esterno con il potere per la loro stessa esistenza in vita. Ciò che continua, e che mi ha molto amareggiato e preoccupato in questo periodo, è l’assenza di una speculare e contraria consapevolezza istituzionale e politica circa la necessità, per operare un salto di qualità: recidere una volta per tutte ogni possibilità di rapporto tra la mafia e la politica. Loro hanno la consapevolezza della decisività di questi rapporti. Noi, Stato dobbiamo maturare questa consapevolezza e tradurla in fatti. Per vincere la guerra è necessario creare le condizioni per recidere questi rapporti. Il percorso non può prescindere dal recupero dell’autonomia e primazia del ruolo della politica.
Per troppo tempo la politica ha preferito delegare esclusivamente alla magistratura il compito di contrastare il crimine. Per troppo tempo ha abdicato ad un suo ruolo primario ed irrinunciabile in democrazia. Ha preferito fingere di non capire che certe condotte, a prescindere dalla loro rilevanza penale, devono necessariamente essere considerate eticamente e politicamente censurabili.
Per troppo tempo il potere in tutte le sue declinazioni ha volutamente sovrapposto, fino a farli coincidere, due tipi di responsabilità profondamente ed ontologicamente diversi: la responsabilità penale e quella politica., fingendo di rispettare il principio costituzionale della presunzione d’innocenza di ogni imputato fino alla condanna definitiva, che è altro ed attiene al processo penale.
A mio parere è proprio grazie a questo meccanismo perverso che si è verificata, ad esempio, la santificazione di Andreotti, dopo la sentenza che ha dichiarato la prescrizione del reato, almeno fino al 1980. È per questo perverso meccanismo che, ad esempio, Cuffaro e Dell’Utri sono stati nuovamente candidati ed eletti nel 2008, nonostante la notorietà oggettiva, già all’epoca, dei loro rapporti con i mafiosi. E’ per lo stesso meccanismo che, nonostante quanto consacrato nella sentenza definitiva a carico del senatore Dell’Utri e le condanne definitive per gravi reati a sua volta personalmente riportate, l’onorevole Berlusconi è ancora oggi in grado di ricoprire un ruolo importante e decisivo nel contesto politico nazionale. Da cittadino, prima ancora che da magistrato, ciò sembra ancora più paradossale in un contesto nel quale recentemente il Parlamento, che non ha votato la decadenza di un suo membro condannato definitivamente, negli stessi giorni sembrava preoccuparsi solo di porre delle regole stringenti per evitare che i magistrati potessero candidarsi alle elezioni politiche. Mi sembra un mondo al contrario!
Ecco perché, essendo necessario richiamare la doverosità di meccanismi di responsabilità politica che prescindano dall’eventuale responsabilità penale, credo che costituisca un importante segnale positivo e di svolta l’approvazione del codice etico del Movimento Cinque Stelle. Quest’ultimo muove dalla distinzione di due concetti di responsabilità differenti e, finalmente, anche in applicazione dell’articolo 54 della Costituzione, consente ed in alcuni casi impone, l’attivazione di meccanismi di responsabilità che muovono dal basilare rispetto del principio costituzionale. Principio che impone, ad ogni cittadino cui sono affidate le funzione pubbliche, di adempierle con disciplina ed onore.
Sempre su questo tema si è parlato molto, ed ormai se ne parla ininterrottamente da quasi 30 anni, di guerra tra politica e magistratura. Io sono convinto che questa sia una rappresentazione falsata della realtà. Sono convinto che abbiamo assistito ad un’azione unilaterale, costante, sistematicamente ben organizzata, di un’ampia parte della politica trasversale ai vari schieramenti contro quella parte della magistratura, in molti momenti minoritaria, che ancora si ostina a voler esercitare il controllo di legalità anche nei confronti del potere. Un’azione contro quei magistrati che non si conformano ai desiderata dei governanti di turno.
Siamo abituati, ogni qualvolta abbiamo notizie di un’indagine relativa all’emersione di un possibile rapporto collusivo tra mafia e politica, a due tipi di reazione. Da una parte si grida al complotto giudiziario, dall’altra parte si afferma che è necessario attendere il lavoro della magistratura e le sue sentenze definitive. Personalmente mi inquieta di più questo secondo atteggiamento perché nasconde la consapevole rinuncia ad esercitare un controllo politico di certe condotte, anche ove non sia possibile configurare o provare l’illecito penale. La politica si è vigliaccamente tirata indietro addossando quindi solo sulle spalle della magistratura il compito di combattere la mafia. Altro che invasione di campo da parte della magistratura!
Ogni tanto mi fa quasi impressione ascoltare uno degli ultimi interventi di Paolo Borsellino poche settimane prima di essere trucidato insieme agli agenti della sua scorta in Via D’Amelio. Intervenendo in un dibattito pubblico che riguardava il già allora annoso problema dei rapporti tra mafia e politica, Paolo Borsellino sottolineava come fosse grave l’atteggiamento della politica di non censurare condotte di comprovato rapporto con la mafia quando queste condotte non potessero essere consacrate come penalmente rilevanti in sentenze definitive.
Ebbene, io mi trovo a riflettere amaramente, credetemi, senza nessuna polemica, sul fatto che probabilmente dal ’92 ad oggi la situazione è anche peggiorata perché oggi non bastano neppure le statuizioni contenute in sentenze definitive per fare scattare certi meccanismi di responsabilità.
Mi fece una certa impressione che proprio nel giorno in cui la Cassazione decretava la definitività della sentenza di condanna nei confronti del Senatore Dell’Utri e stigmatizzava la conclusione dei Giudici di merito di Palermo della Corte D’Appello, confermata dalla Cassazione, affermando con sentenza definitiva che dal 1974 al 1992 fu prima stipulato poi mantenuto reciprocamente ed alimentato un patto di reciproca protezione tra le famiglie mafiose palermitane principali e l’allora imprenditore Silvio Berlusconi, proprio in quei giorni, l’allora Presidente del Consiglio Renzi discuteva con l’Onorevole Berlusconi di come riformare la nostra Carta Costituzionale.
Oggi molte cose sono state dette. Cercherò anche di non ripetere quanto, condivisibilmente a mio parere, rappresentato da chi è intervenuto prima di me sull’interazione tra mafia e corruzione. Ormai nel perseguire il loro intento di profitto, gruppi imprenditoriali di diversa consistenza ed estrazione, sempre più spesso ricorrono, alternandoli o integrandoli gli uni agli altri, a metodi corruttivi e a metodi tipicamente mafiosi. A loro volta le mafie, per riciclare il loro denaro ed investirlo in attività apparentemente lecite, ricorrono direttamente al metodo corruttivo o sfruttano l’esercizio di quel metodo da parte dell’imprenditore colluso in grado di oliare meglio e a dovere, i meccanismi dell’amministrazione della Cosa Pubblica.
Per questo oggi mafia e corruzione si evidenziano come due facce della stessa medaglia, segmenti di un sistema criminale integrato. Allora noi dobbiamo trovare la capacità di individuare e reprimere in maniera omogenea queste due facce della stessa medaglia. Ed invece, ad oggi, così non è. La situazione dei numeri dei detenuti nelle nostre carceri lo dimostra: le statistiche sono state poc’anzi ricordate. Un numero irrilevante di detenuti, veramente irrilevante, sta scontando una pena definitiva per reati di corruzione, concussione, turbativa d’asta o scambio politico elettorale mafioso.
Dobbiamo dire la verità e dobbiamo avere il coraggio di chiamare le cose con il loro nome e cognome. Versiamo in una situazione di sostanziale e totale impunità di condotte gravissime e ciò pesa ormai in maniera insopportabile non solo per i danni economici, di cui no mi appassiona la stima dei danni economici, ma ancor prima per la mortificazione delle legittime e sacrosante aspettative dei cittadini onesti e per un effetto generalizzato di induzione al delitto che la certezza della sostanziale impunità produce nella nostra società.
E allora, dobbiamo cercare anche di prospettare dei rimedi. Come operare un salto di qualità nell’azione di contrasto alla mafia e al sistema criminale integrato mafioso-corruttivo. Parto dalla base. Sono stati fatti dal ’92 ad oggi dei passi in avanti notevoli nella repressione della cosiddetta mafia militare però dobbiamo mantenere i capisaldi di quegli strumenti giuridici che hanno consentito questo progredire nella lotta alla mafia militare.
Mi preoccupa sentire ancora oggi parlare ripetutamente dell’opportunità di abolire l’ergastolo cosiddetto ostativo anche per i mafiosi. Mi preoccupa sentire parlare della possibilità di allargare l’applicabilità di benefici penitenziari di varia natura, anche ai detenuti per reati di mafia. Mi preoccupo perché so bene, con l’esperienza che ho maturato in tanti anni di processi, che l’ergastolo e il 41 bis da sempre sono state le principali spine nel fianco per Cosa Nostra, tanto che l’abolizione dell’ergastolo e l’abolizione del 41 bis erano certamente tra gli oggetti principali delle richieste che i capi della mafia facevano allo Stato nella vicenda del cosiddetto Papello per smettere di fare stragi, per cessare la strategia stragista inaugurata con l’omicidio Lima e poi proseguita fino al fallito attentato all’Olimpico di Roma nel Gennaio del 1994.
E allora facciamo attenzione perché credo, e lo credo anche ovviamente sulla base dell’esperienza quotidiana di investigazione, che ancora oggi molti dei capi della mafia che potrebbero pensare di iniziare a collaborare con la Giustizia, e magari sarebbero anche in grado di farci fare un salto di qualità nell’indagine, trovano una controspinta a questa scelta per loro così difficile, nella speranza alimentata da queste discussioni e progetti di Legge che lo stato possa rivedere la disciplina e la normativa sull’ergastolo e il 41 bis.
Ma come fare il salto di qualità? Bisogna mantenere quindi gli strumenti che sono stati via via adottati. Dobbiamo superare un pericolosissimo pregiudizio ideologico, quello che ancora oggi fa ritenere le fattispecie di concorso esterno come meno gravi in rispetto ad ogni situazione di appartenenza formale. Dobbiamo superare quel pregiudizio che non tenendo conto della enorme gravità di certe condotte, ancora porta la previsione di pene molto più basse per il reato di voto in scambio politico elettorale mafioso (416 ter), rispetto all’ipotesi prevista dal 416 bis dell’appartenenza anche soltanto formale o residuale di un uomo d’onore all’organizzazione mafiosa. 
Dobbiamo capire bene come affrontare da un punto di vista legislativo la tematica del voto dello scambio politico elettorale mafioso ed evitare il ripetersi di certi errori, come un errore a mio parere si è rivelata l’approvazione della legge sul 416 ter in questa legislatura, che di fatto per come è stata concepita e scritta, ha segnato addirittura un passo indietro rispetto alla precedente, tanto che alcuni processi per 416 ter che si erano conclusi precedentemente con la condanna, a seguito della introduzione del nuovo testo, sono stati poi oggetto di riforma in Cassazione e di assoluzione definitiva dell’imputato.
Ma il vero salto di qualità non può prescindere dalla consapevolezza che mafia e corruzione sono ormai segmenti dello stesso sistema criminale. È intollerabile che si protragga allora la sostanziale impunità di cui vi parlavo per i reati dei colletti bianchi ovvero i reati dei pubblici ufficiali contro l’amministrazione. Io credo e spero che chi governerà il paese nei prossimi anni deve, con i fatti e non con la solo politica degli annunci come si è fatto fino ad oggi, cambiare strategia. Deve dare una svolta alla legislazione e alla politica criminale per contrastare la corruzione e tutti i delitti dei colletti bianchi, per evitare che la giustizia si trasformi definitivamente in una macchina capace soltanto di usare la forza contro gli ultimi, contro i diseredati, contro i disperati, contro coloro i quali spesso delinquono per necessità.
Ora toccherò alcune cose che sono state dette stamattina ed anche oggi pomeriggio. Ovviamente non possiamo in questa sede affrontare funditus ogni argomento ma mi permetterò di trattarne alcuni. In questo cambio di strategia alcune riforme potrebbero rivelarsi immediatamente efficaci, innanzitutto quella della prescrizione del reato. Non è ammissibile che la stragrande maggioranza dei procedimenti per corruzione o reati di quel tipo, si concluda, anche quando inquirenti riescono a dimostrare l’esistenza del reato e ad individuare i colpevoli, con la dichiarazione di estinzione del reato per prescrizione. Occorrerebbe quindi bloccare il decorso al momento dell’esercizio dell’azione penale o, in alternativa, fare iniziare il decorso del termine prescrittivo nel momento in cui il reato viene scoperto e non dal momento in cui il reato è stato commesso.
Poi, so di poter essere criticato e non condiviso in questa proposta, a mio parere per questo tipo di reati sarebbe necessario un innalzamento delle pene edittali. Non mi riferisco alle pene edittali massime, o comunque non soltanto e non tanto a quelle, ma soprattutto alle pene edittali minime, per evitare quello che ogni giorno si ripete ovvero che il condannato riesca ad evitare sistematicamente con il ricorso alle misure alternative anche un solo giorno di detenzione, anche in presenza di episodi gravissimi di corruzione o abuso di pubbliche funzioni.
Sono invece assolutamente favorevole invece all’introduzione e all’istituzionalizzazione della figura, non soltanto della gente sotto copertura, ma anche del cosiddetto agente provocatore come è già previsto in altri ordinamenti penalistici avanzati, come negli Stati Uniti, purché il tutto venga caratterizzato da un controllo fin dall’inizio dell’infiltrazione da parte dell’Autorità Giudiziaria.
Sarei favorevole alla previsione di benefici processuali ancora più importanti di quelli già comunque introdotti per chi collabora con la giustizia, sulla falsa riga di quelli previsti per i pentiti di mafia. In questo alveo si inserisce perfettamente, a mio avviso, la proposta di estendere ai più gravi casi di corruzione la normativa in materia di misure di prevenzioni patrimoniali prevista per gli indiziati di mafia, soprattutto perché in questo modo si vanificherebbe la speranza, per non dire la certezza, del corrotto di poter uscire da ogni indagine completamente indenne a causa della prescrizione che interviene nel processo penale. Si finirebbe per contribuire a spezzare il vincolo omertoso che lega corruttori e corrotti e i corrotti tra di loro nel perverso sistema che si perpetua oggi all’infinito.
Per il sistema della corruzione della gestione privatistica o lobbistica del potere esercitato, alimentato dalle tangenti, o dal peso delle proprie influenze, una legge di questo tipo, come quella che col disegno di legge che è stato presentato recentemente anche da Antonio Ingroia, costituirebbe quello che costituì per i mafiosi l’iniziativa di Pio La Torre: un terremoto capace finalmente di sconvolgere delicati equilibri fondati su una valutazione costi-benefici-rischi che ancora oggi fa pendere la bilancia a vantaggio della scelta corruttiva.
Io credo che anche sul terreno del sostegno politico a questo tipo di proposte si giochi l’ennesima occasione di riscatto di un ceto politico che ha bisogno di riacquistare, nell’interesse di tutti, credibilità ed autorevolezza iniziando dalla capacità e volontà di privilegiare il valore della onestà.
Ed ora qualche ulteriore spunto di riflessione sulla magistratura italiana. La magistratura italiana deve fare la sua parte fino all’ultimo, ma anche la politica deve fare la sua parte. Ciascuno di noi magistrati dovrà fare tutto quello che gli è possibile per preservare l’effettività dell’autonomia e di indipendenza del singolo magistrato, ma anche la politica deve fare questo. E anche la politica deve lottare per cambiare quegli odiosi sistemi di spartizione del potere e di regolamentazione dell’autogoverno della magistratura che abbiamo mutuato dalla peggiore politica. Ciascuno di noi magistrati dovrà resistere alla tentazione di assecondare le sempre più evidenti influenze esterne che tendono ad orientare l’attività giudiziaria anche in funzione di criteri di opportunità politica, di atti e provvedimenti.
Rispetto alla valutazione delle conseguenze degli atti, mi sono sentito personalmente dire da colleghi, da professori universitari, da avvocati, che nell’intera vicenda che ha riguardato le intercettazioni casuali ed indirette che hanno coinvolto l’allora Presidente della Repubblica, “Noi abbiamo agito correttamente”. Sapete quante volte mi sono sentito dire che noi abbiamo agito correttamente e doverosamente nel momento in cui abbiamo chiesto ed ottenuto dalla Corte d’Assise la citazione in aula del Presidente Napolitano? Ma sapete quante volte nelle stesse occasioni mi è stato detto “però non era opportuno”?
E allora il problema, che non riguarda soltanto questo caso ma riguarda tanti altri casi, (vi potrei citare tra gli altri quello che ho ascoltato a proposito dei giudizi sull’inchiesta sull’Ilva di Taranto e tante altre situazioni), è che noi dobbiamo lottare. Noi magistrati, noi cittadini e la politica dobbiamo lottare per avere una magistratura autonoma ed indipendente, che valuti esclusivamente la doverosità del proprio agire e mai l’opportunità politica.
Ciascuno di noi magistrati, e la politica, deve combattere la sempre più evidente normalizzazione e burocratizzazione della magistratura, che passa sempre più attraverso la gerarchizzazione delle Procure, attraverso la scelta dei capi degli uffici, attenti più a che fare giustizia a non destabilizzare gli assetti politici del momento. Dobbiamo combattere quella logica che si sta impadronendo purtroppo di una parte della magistratura che è la logica esclusiva dei numeri, delle statistiche. Quella logica che Giovanni Falcone chiamava delle carte apposto. Dobbiamo combattere la logica del contenimento dei costi dell’indagine e del processo a discapito della qualità, dell’approfondimento, della verità cercata con ostinazione, anche quando altri alzino il muro di gomma dei silenzi, dei depistaggi, dell’omertà istituzionale.
Un’ultima annotazione... In questi giorni di ricordo della Strage di Capaci abbiamo assistito, e credetemi soffro nell’affermare questo, al trionfo dell’ipocrisia, della sterile retorica, dei molti che fingono di commemorare i morti dopo averli mortificati da vivi. Abbiamo assistito a chi vuole riportare solo ad aspetti emozionali ed intimistici vicende che hanno avuto, e continuano ad avere, un’importanza ben più ampia nella storia del nostro paese. Mi sono volutamente astenuto dal partecipare al coro delle dichiarazioni, dei ricordi e delle passerelle televisive.
Oggi voglio semplicemente sottolineare un mio convincimento: dal 1992 ad oggi uno sforzo importante ed impegnativo di molti magistrati ed investigatori ha consentito di conseguire, con i processi che si sono celebrati sulle stragi del ’92 e ‘93, dei risultati importanti, non affatto scontati e che sarebbe profondamente ingiusto sottovalutare. Per esempio a proposito della Strage di Capaci abbiamo una sentenza definitiva di condanna per 37 esecutori e mandanti dell’eccidio. Si tratta di tutti uomini di Cosa Nostra.
È comunque un risultato importante nel paese delle stragi impunite. Ma chi veramente sa e conosce che cosa è emerso da quelle indagini e da quei processi oggi, a distanza di venticinque anni, non può mettere un bollo di verità esclusiva di purezza mafiosa su quella strage. Quelle sentenze non devono costituire un punto di arrivo finale nello sforzo della ricerca di verità ma un punto di partenza attraverso il quale rilanciare la ricerca di, a mio avviso, sempre più evidenti responsabilità di ambienti e uomini estranei a Cosa Nostra.
Sono veramente numerosi e concreti gli spunti, gli indizi e i fatti dai quali partire per la ricerca del completamento della verità perché una verità parziale è pur sempre una verità negata.
Oggi voglio accennarvi soltanto ad alcuni dei dubbi rimasti insoluti da questa stagione di inchieste e processi. Perché in questo Parlamento nel marzo del ’92 l’autorità massima di pubblica sicurezza, il Ministro degli Interni Scotti, parlò subito dopo l’omicidio Lima innanzi alla Commissione Antimafia e alla Commissione Affari Costituzionali, di un inizio di un piano di destabilizzazione da parte mafiosa, e non solo mafiosa, per sovvertire l’ordine democratico? E perché quell’allarme venne assolutamente sottovalutato perfino dopo che la strage di Capaci e la strage di Via D’Amelio ne confermarono l’attendibilità?
Perché addirittura quel Ministro degli Interni fu sostituito e non divenne Ministro nella nuova compagine governativa insediatasi il 28 giugno del ’92? Perché i mafiosi che avevano già progettato e pronto nei minimi particolari l’omicidio del Giudice Falcone a Roma, di ben facile esecuzione, vennero fermati e richiamati a Palermo da Salvatore Riina perché l’attentato doveva essere realizzato a Palermo con modalità clamorose, nonostante le difficoltà, facendo saltare un pezzo di autostrada?
Cosa intendeva dire Riina nel 2013 quando al suo compagno di socialità Lo Russo, raccontava di aver detto ai suoi sodali che se fosse circolata all’interno di Cosa Nostra la piena verità sulla strage sarebbe stata la fine dell’organizzazione mafiosa? Questo fu detto da Salvatore Riina...
Quali sono le persone portanti di cui ha parlato il pentito Cancemi che nel periodo delle stragi incontrava Riina? Perché qualcuno si è preoccupato di far sparire i file informatici di Giovanni Falcone? Perché Giovanni Falcone aveva portato con se a Roma alcuni atti relativi a Gladio, la stessa organizzazione della cui esistenza, prima che diventasse nota politicamente, gli aveva già parlato qualcuno a Palermo mettendo a verbale determinate conoscenze?
Perché il telecomando venne consegnato da Pietro Rampulla, esponente storico della destra estrema, a Giovanni Brusca che lo azionò come dice la sentenza? E perché Pietro Rampulla che doveva partecipare materialmente all’attentato quel 23 maggio, adducendo una scusa, rimase a casa sua?
Qual è la vera origine e il vero significato del foglietto repertato dalla scientifica sul cratere di Capaci poche ore dopo la strage, contenente annotazioni di numeri telefonici riconducibili al Sisde di Roma e al capocentro del Sisde di Palermo?
Cosa si nasconde dietro la morte di Gioè Antonino, uno degli autori della strage, che stava conducendo una trattativa parallela a quella più nota con lo Stato per il recupero di opere d’arte rubate da parte di Cosa Nostra in cambio della concessione di arresti domiciliari a uomini di spicco dell’organizzazione mafiosa? Perché questo soggetto si suicidò, ammesso che si sia suicidato?
In sostanza chi sono e che ruolo hanno avuto nelle stragi le menti raffinatissime già individuate da Falcone come i veri ispiratori ed autori dell’attentato subito nel giugno dell’89 all’Addaura?
Perché in tempi così stretti dopo Capaci venne preparato in fretta l’attentato di Via D’Amelio?
Le sentenze dicono che ci fu un’accelerazione. Perché ci fu un’accelerazione?
La sottrazione dell’agenda rossa è funzionale ad impedire che si potesse risalire al motivo di questa accelerazione e della fretta di uccidere Borsellino?
In presenza di questi e di tanti altri buchi da colmare, non ci possiamo accontentare dalla retorica. Non è accettabile quello che viviamo oggi ovvero che l’interesse all’approfondimento della verità su queste vicende sia rimasto ad appannaggio di pochissimi magistrati e di pochissimi investigatori sempre più isolati, senza risorse quando non ostacolati o derisi come appassionati di archeologia giudiziaria. Magistrati considerati come gli ultimi giapponesi che si ostinano a combattere una guerra ormai apparentemente finita da tempo.
Oggi per non tradire e calpestare la memoria di Giovanni Falcone abbiamo una sola strada, dura, tortuosa, che costerà lacrime e sangue a chi avrà il coraggio di tracciarla: dobbiamo pretendere tutti il massimo sforzo nella prosecuzione delle inchieste da parte delle autorità giudiziarie, da parte della Commissione Antimafia con i suoi compiti di coordinamento e di impulso e delle Direzioni Distrettuali competenti. Dobbiamo pretendere il massimo sforzo delle eccellenze delle forze di polizia come fu assicurato nell’immediatezza delle stragi per cercare di trovare gli esecutori materiali mafiosi.
Cittadini e parlamentari devono valutare seriamente l’opportunità, a mio avviso chiarissima, di un’approfondita inchiesta politica magari della Commissione Antimafia che accompagni e sostenga lo sforzo giudiziario.
Dobbiamo stimolare la massima attenzione dell’opinione pubblica. Noi cittadini dobbiamo pretendere verità e giustizia. Solo così penso che continuerà ad avere un senso la speranza che le idee, le passioni e il senso profondo di giustizia di Giovanni Falcone continui a vivere oggi ed in futuro. Grazie.