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pool-trattativa-frontaleI pm della trattativa pecore nere
di Giorgio Bongiovanni - 10 ottobre 2014
Dopo il rifiuto della Corte d’Assise di Palermo, che si è pronunciata escludendo i boss Riina e Bagarella – insieme all’ex ministro Mancino – dall’udienza del processo trattativa in cui testimonierà Napolitano, assistiamo ad una grande contraddizione, inquietante e drammatica, nella nostra Repubblica italiana.
Da una parte la grande stampa che, quasi all’unanimità (ad esclusione del Fatto Quotidiano), amplifica e rinvigorisce gli scellerati attacchi (non casuali) dei vari leader di destra, centro e sinistra – a parte il coraggio di qualche membro M5s – contro i pm della Procura di Palermo, in particolare i soliti Nino Di Matteo, Roberto Tartaglia, Vittorio Teresi e Francesco Del Bene. Magistrati titolari sia del processo trattativa Stato-mafia, sia (alcuni di loro) della nuova inchiesta definita giornalisticamente “trattativa bis”, all’interno della quale si indaga sul Protocollo Farfalla, su servizi segreti, logge massoniche deviate e poteri oscuri di ieri e di oggi collegati a doppio filo con le stragi del ‘92 e ‘93. Mentre è il pg di Palermo Roberto Scarpinato a condurre le indagini e il nuovo processo d’appello – insieme al collega Luigi Patronaggio – sulla mancata cattura di Bernardo Provenzano per la quale gli ex ufficiali del Ros Mori e Obinu sono accusati di favoreggiamento alla mafia.

Dall’altra, assistiamo invece al silenzio più totale da parte delle istituzioni, che non hanno speso una sola parola di solidarietà a favore di questi magistrati, il cui unico obiettivo è accertare la verità su quanto accadde in quegli anni bui. Non una parola dal Consiglio superiore della magistratura, né dall’Associazione nazionale magistrati, men che meno dal Presidente della Repubblica. Tacciono anche i singoli magistrati, così come chi ha messo da parte la toga per entrare in politica e proseguire così l’azione di contrasto contro le mafie, fatta eccezione per l’ex pm di Palermo Antonio Ingroia, una delle poche voci che si è levata in difesa dei colleghi.
Cos’hanno fatto questa volta i pm di Palermo per essere attaccati, criticati aspramente e isolati quasi all’unanimità da stampa, politica e magistratura? Hanno dato parere favorevole a che gli imputati Riina, Bagarella e Mancino ascoltassero la deposizione di Giorgio Napolitano. Si sono permessi di fare il loro dovere, di mettere in pratica la legge. Intanto i segnali in Italia continuano, oscuri e inquietanti, a manifestarsi. E il loro bersaglio sono i magistrati siciliani. Non si tratta solo delle condanne a morte da Riina a Di Matteo, delle minacce ai pm di Caltanissetta, della lettera anonima sopra la scrivania di Scarpinato, al quale qualcuno ha consigliato di “fare attenzione” (la scritta “Accura” sulla porta di fronte al suo ufficio senza che le telecamere siano riuscite ad individuare il responsabile).
C’è anche un silenzio oscuro, assordante. È il silenzio che avvolge il bersaglio prima di essere colpito, quel silenzio di cui Giovanni Falcone parlava quando affermava che “in Sicilia la mafia colpisce i servitori dello Stato che lo Stato non è riuscito a proteggere”. Parole pronunciate dal giudice oltre vent’anni fa, ma che stiamo rivivendo nuovamente in questo momento storico. Sullo sfondo, un attacco corale da parte della politica – salvo alcune eccezioni chiamate Claudio Fava o Giuseppe Lumia, insieme ad alcuni esponenti del M5s –. Un grande silenzio istituzionale che uccide, che mira ad isolare sempre di più alcuni servitori della Costituzione italiana. Un silenzio creato ad hoc da un potere, quello vero, che tira le fila e da dietro le quinte governa l’Italia e il mondo. Di fronte al quale quasi tutti danno il loro tacito consenso.
Le parole di Falcone ci insegnano che l’ultima operazione – la più cruciale – che precede l’omicidio eccellente è proprio questo completo isolamento, vera e propria metodologia non solo mafiosa che scatta prima di mirare al bersaglio, prima della celebrazione del martirio. Un martirio che dobbiamo evitare a tutti i costi di ripetere ancora una volta perché qui, a voler colpire, non è la mafia, che semmai sarebbe solo il braccio armato di coloro che sentono il fiato dei magistrati sul collo. Amici di Falcone e Borsellino che si ostinano a voler cercare una verità che pochissimi in questo Paese vogliono. Se davvero questa verità emergesse, però, renderebbe liberi i cittadini siciliani e italiani dall’oppressione dei potenti che ancora oggi spadroneggiano all’interno dello Stato-mafia.

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