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ferrara-tribunale-palermodi Giorgio Bongiovanni ed Aaron Pettinari - 26 agosto 2014
Cosa può fare un giornale come “Il Foglio” di Giuliano Ferrara, il direttore che nel 2003, con tanta tranquillità, ha dichiarato di essere stato nel corso degli anni ottanta un confidente retribuito della CIA? Può solo depistare, scrivere menzogne e manipolare la verità.
Non c'è solo la mafia tra i “tumori” gravi del nostro disgraziato Paese. Se oggi si è giunti in questo Stato confusionale in cui fenomeni come le criminalità organizzate trovano ancora ampio spazio d'esistenza e la corruzione dilaga ad ogni livello politico ed imprenditoriale, una grossa fetta di responsabilità sta anche nell'incapacità del “quarto potere”, quello della Stampa, di svolgere correttamente il proprio ruolo di organo di informazione slegato dal potere. Troppo spesso i panni scelti sono quelli del servo e in queste ultime settimane d'agosto abbiamo visto un nuovo episodio.
Il Foglio ha infatti pubblicato un articolo (“Bye bye trattativa”, ndr) a firma del direttore di Radio Radicale, Massimo Bordin, che interviene raccontando il processo di Palermo sulla trattativa Stato-mafia fornendo un'immagine alquanto distorta della realtà e che non possiamo non commentare.
La prima considerazione riguarda proprio quest'ultimo. Dispiace leggere certe considerazioni da parte del direttore di una Radio che da anni svolge un lavoro importantissimo come quello di permettere l'ascolto di centinaia di processi, conferenze e quant'altro, permettendo proprio ad ogni cittadino di essere protagonista della propria cultura e della propria informazione. Il suo articolo contiene diverse considerazioni al quanto “gratuite”, forse in buona fede, ma che rischiano davvero di confondere chi non è attento.
Iniziamo dalle “presunte ferie” del procedimento. E' vero che riprenderà soltanto a fine settembre ma è altrettanto vero che fino ad oggi i dibattimenti si sono tenuti a “spron battuto” negli ultimi mesi arrivando anche alle due udienze a settimana, segno proprio della volontà di dare al processo una certa velocità.
Ma la prima grande scorrettezza che si commette nell'articolo è quella di parlare del pm Antonino Di Matteo come il rappresentante dell'accusa sul processo per la strage di via d'Amelio che ha preso per buoni i pentiti sbugiardati da Gaspare Spatuzza.

E' noto che alla fine del 1995 Di Matteo viene incaricato di affiancare i colleghi Anna Maria Palma e Carmelo Petralia nella conduzione delle indagini sulla strage del giudice Borsellino e degli uomini della scorta. Scarantino, catturato il 29 settembre 1992, ha cominciato a raccontare la sua falsa verità verso la fine del mese di giugno 1994. Tuttavia il “pentito fantoccio” nelle sue dichiarazioni distorte ha riferito anche particolari poi confermati dallo stesso Spatuzza, suo grande accusatore. E’ un esempio lampante il nascondiglio in cui venne nascosta la 126 poi imbottita di tritolo. Scarantino si autoaccusa di averla portata lui stesso, smentito poi da Spatuzza che è il vero ladro dell’automobile, ma dice anche che il mezzo è stato portato nel garage di tale Orofino così come poi realmente accaduto. Non solo. Le sue dichiarazioni hanno comunque portato all'arresto e alla condanna definitiva di mafiosi di primo piano agli ordini dei Graviano come Fifetto Cannella, Francesco Tagliavia, Lorenzo Tinnirello e gli stessi Giuseppe e Filippo Graviano a testimonianza che a rimanere fuori dalle indagini non sono i mafiosi di Brancaccio (come qualcuno aveva ipotizzato, ndr) ma ben altre figure “ibride”, come il boss dell'Acquasanta Gaetano Scotto, sulle quali Di Matteo aveva insistito ad indagare fin dal primo momento. Contrariamente al bis è stato interamente da Di Matteo condotto il cosiddetto “Borsellino ter”, nato in contemporanea con quello di Firenze istruito dal pm Gabriele Chelazzi per le stragi del ‘93, uno dei primi ad affrontare direttamente il tema dei mandanti interni ed esterni a Cosa Nostra.
Altro aspetto che non viene considerato nel pezzo del direttore di Radio Radicale è che il processo che si sta celebrando a Palermo non è per il reato di “trattativa” ma per “attentato a corpo politico dello Stato”. In particolare si presuppone secondo l'accusa che Cosa Nostra, con l'omicidio Lima, abbia dato il via ad un'escalation minacciosa inducendo una parte dello stato a scendere a patti. L'obiettivo finale della mafia era di ottenere una serie di benefici ma soprattutto di rinegoziare il patto di convivenza di cui aveva goduto dagli albori della Repubblica fino all'avvento del maxi-processo. Dall'altra parte c'è chi ha dato luogo al dialogo secondo finalità diverse in base agli interlocutori. Da una parte chi ha avuto l'obiettivo di salvarsi la pelle da morte certa, dall'altra l'idea di riallacciare quella proficua alleanza con la mafia siciliana, da sempre portatrice di voti e guadagni e soprattutto strumento perfetto per “lavoretti” più fastidiosi. Insomma a finire sotto processo vi è un metodo di gestione del potere che viene ritenuto dai magistrati "eversivo" e criminale che ha portato alla morte di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, degli uomini delle forze dell'ordine che li proteggevano e dei morti innocenti di Firenze e Milano.
Le indagini condotte da Antonio Ingroia, da tutti i membri attuali del pool (Teresi, Di Matteo, Tartaglia e Del Bene, ndr), hanno ragione di esistere perché è indubbio che certi fatti abbiano inciso pesantemente sulla storia del nostro Paese tanto quanto, se non di più, il caso Tangentopoli.
Non si possono ignorare certi fatti così come non si possono ignorare altri elementi storici cruciali. Nonostante le inopportune beatificazioni Giulio Andreotti, che piaccia o no anche se il reato è caduto in prescrizione, ha avuto rapporti con Cosa nostra almeno fino alla primavera del 1980. Per le accuse successive invece l'ex premier è stato assolto con la vecchia insufficienza di prove. E tutto ciò è scritto nero su bianco nelle motivazioni della sentenza d'appello certificata dalla Cassazione.
Secondo la Corte d’appello Andreotti, “con la sua condotta (non meramente fittizia) ha, non senza personale tornaconto, consapevolmente e deliberatamente coltivato una stabile relazione con il sodalizio criminale ed arrecato, comunque, allo stesso un contributo rafforzativo manifestando la sua disponibilità a favorire i mafiosi”. Considerazioni tutt'altro che “misere” come invece sostiene Bordin. Altra questione “volutamente dimenticata” è che a parlare di trattativa sono alcuni degli stessi imputati al processo di Palermo come ad esempio ha fatto il generale Mario Mori di fronte al tribunale di Firenze. Poco importa se vi sono sentenze come quella “Tagliavia” per le stragi mafiose del 1993-94, la quale dice che una trattativa tra mafia e istituzioni “indubbiamente ci fu e venne, quantomeno inizialmente, impostata su un ‘do ut des'. L'iniziativa fu assunta da rappresentanti delle istituzioni e non dagli uomini di mafia” e “l’obiettivo che ci si prefiggeva, quantomeno al suo avvio, era di trovare un terreno con Cosa nostra per far cessare la sequenza delle stragi”.
Viene citata in tal proposito anche la tesi del giurista Fiandaca e dello storico Lupo che non negano la trattativa ma la giustificano come “a fin di bene” per evitare altre morti (senza considerare che poi persero la vita giudici, agenti di scorta ed innocenti).
Viene descritta superficialmente la figura di Massimo Ciancimino senza considerare che proprio a seguito dalle sue dichiarazioni, pubblicate per prima da Panorama, un lungo elenco di “smemorati di Stato” ha iniziato a parlare di fatti ed episodi avvenuti ai tempi delle stragi.
Si critica in maniera gratuita la decisione dell'ex procuratore Ingroia di approfondire le indagini su Salvatore Giuliano a seguito dell'esposto degli storici Casarrubea e Cereghino quando il compito della magistratura non è altro che accertare la verità.
Ed infine non una parola viene spesa nel ricordare la condanna definitiva per concorso esterno in associazione mafiosa nei confronti di Marcello Dell'Utri, ovvero il braccio destro di Silvio Berlusconi che di Ferrara e de “Il Foglio” è il “padrone”.
Si pongono dubbi sull'attendibilità dei collaboratori di giustizia e, pur ammettendo che in questo processo non sono mancati elementi di contraddizione, certe considerazioni vanno fatte con un'analisi a 360°. Ad esempio si spendono parole per ridicolizzare il pentito Francesco Di Carlo, elencando le contraddizioni emerse in altri processi come quello su De Mauro mentre non si considera che lo stesso Di Carlo è testimone oculare degli incontri tra Berlusconi, Dell'Utri e gli altri capimafia Gaetano Cinà, Stefano Bontade e Mimmo Teresi. Proprio la sentenza di Cassazione dice che Marcello Dell’Utri per 18 anni, dal ’74 al ’92 è stato il garante “decisivo” dell’accordo tra Silvio Berlusconi e Cosa nostra e “la sistematicità nell’erogazione delle cospicue somme di denaro da Marcello Dell’Utri a Gaetano Cinà sono indicative della ferma volontà di Berlusconi di dare attuazione all’accordo al di là dei mutamenti degli assetti di vertice di Cosa nostra”. E dopo il 1992? Nella sentenza di appello, confermata dalla Cassazione, i giudici scrivevano di aver sottoposto i fatti relativi agli anni più recenti “a nuova valutazione”, e di essere giunti alla conclusione che “è incontestabilmente emersa la permanenza del delitto di concorso esterno in associazione mafiosa per tutto il periodo in esame e anche nel periodo in cui Dell’Utri era andato a lavorare da Rapisarda (l’imprenditore Filippo Alberto Rapisarda, ndr) lasciando l’area imprenditoriale di Berlusconi e anche per il tempo successivo al 1992”. Poi ci sono gli anni della trattativa e della nascita di Forza Italia con elementi che sono parte del processo attualmente in corso.
Tralasciando di commentare le considerazioni sulla condanna a morte espressa da Riina in carcere nei confronti di Antonino Di Matteo o sulla bruttissima vicenda delle telefonate Mancino-Napolitano concludiamo sulla considerazione che questo processo ha nei confronti dell'opinione pubblica. In questo anno di dibattimenti dire che l'interesse nei confronti del processo è mancato totalmente non è corretto. Giornalisti dalla Norvegia, dalla Spagna, dall'Argentina, dall'Uruguay e dal Paraguay sono stati presenti proprio per saperne di più su questo dibattimento che vede alla sbarra mafiosi, politici e uomini di Stato. Non è raro vedere scolaresche, rappresentanti della “Scorta civica” e delle “Agende Rosse” o anche semplici cittadini presenti all'interno dell'aula bunker Ucciardone, tanto che gli stessi imputati avevano provato a giustificare un trasferimento del processo, presentando istanza di ricusazione (poi bocciata, ndr) proprio per la sicurezza degli stessi cittadini.
Purtroppo è vero che di questo processo se ne parla pochissimo in Italia ma non perché si tratta di un procedimento “bolla di sapone” o “farsa” come si vorrebbe far intendere. Non se ne parla perché si vuole evitare di rendere note certe vicende all'opinione pubblica e sarebbe bello che alla Rai si torni a mostrare le dirette dei processi così come accadeva ai tempi di “Mani Pulite”. Forse gli italiani non sarebbero più presi per il naso e si renderebbero realmente conto di quel che è accaduto in quegli anni di sangue e bombe.

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