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ingroia-antonio-int-190214La replica dell’ex pm ai “pregiudizi” di Salvatore Lupo e Giovanni Fiandaca
di Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo - 19 febbraio 2014
Palermo. Dopo la pubblicazione dei primi stralci del libro “La mafia non ha vinto. Nel labirinto della trattativa” si sono innescate aspre polemiche nei confronti degli autori che sono arrivati a definire “legittima” la trattativa tra Stato e mafia in quanto avrebbe protetto “la vita dei cittadini”.

Abbiamo chiesto all’ex pm del pool che ha istruito il processo sulla trattativa, Antonio Ingroia, di sgombrare il campo da “letture frettolose e superficiali dei fatti storici”.

Nel libro del giurista Giovanni Fiandaca e dello storico Salvatore Lupo “La mafia non ha vinto” secondo gli autori dopo l’omicidio Lima e la strage di Capaci sarebbe stato plausibile invocare lo “stato di necessità” perché lo Stato era sotto scacco, questo avrebbe quindi giustificato “eventuali interventi o decisioni extra legem del potere esecutivo”.
Lei da magistrato si è occupato dell’indagine sulla trattativa come valuta queste osservazioni?
La tesi dei due autori sembra frutto di una lettura frettolosa e superficiale dei fatti storici e della sostanza giuridica del processo e dell’imputazione. Siccome si tratta di studiosi autorevoli: un giurista e uno storico che normalmente invece sono molto attenti, c’è da dire che questa approssimazione nella ricostruzione degli aspetti storici e giudiziari della vicenda è sintomatica di un pregiudizio. Lo stesso che anima una parte consistente dell’informazione, della politica e persino della magistratura. Bisogna anche chiedersi le ragioni di questo pregiudizio. Che sono decisamente molto allarmanti se ragioniamo sullo stato della democrazia del nostro Paese.

Quali sono le ragioni di questo pregiudizio?
Una è rappresentata proprio dal rifiuto pregiudiziale di una magistratura che indaghi sull’inconoscibile. Di fatto c’è un’accettazione generalizzata da parte della stragrande maggioranza degli italiani (in misura diversa: o più viscerale o più raffinata), un vero e proprio rifiuto pregiudiziale che la magistratura abbia diritto ad accedere aldilà di alcuni limiti ritenuti invalicabili. Uno di questi limiti è quello relativo ad una presunta “ragione di Stato” che dovrebbe inibire l’azione giudiziaria di accertamento della verità. Ed è probabilmente l’identica matrice che ha ispirato anche il conflitto di attribuzione sollevato dal presidente della Repubblica. Non so se questo conflitto di attribuzione sia stato ispirato da altre ragioni più occulte che noi oggi non conosciamo pienamente, ma certamente c’è anche questa componente politico-culturale. Il secondo fattore che determina questo pregiudizio (che a sua volta scatena questa sorta di offuscamento e annebbiamento della usuale capacità di analisi e di approfondimento da parte di studiosi così acuti) è rappresentato da un certo conformismo nella lettura di vicende giudiziarie che si contrappone ad una verifica laica che andrebbe fatta per accertare se la verità giudiziaria, proposta da un ufficio giudiziario, ha un suo fondamento. E invece, in modo del tutto conformistico – nell’epoca del conformismo berlusconiano di cui, ahimè, anche Lupo e Fiandaca finiscono per essere contagiati – si arriva a dire che la magistratura fa determinate indagini per delirio di onnipotenza.

Di fatto lo stesso Fiandaca punta il dito sul pool che indaga sulla trattativa  reo a suo dire di avere un “pregiudiziale atteggiamento criminalizzatore”.
L’atteggiamento “pregiudiziale” e “criminalizzatore” di Lupo e Fiandaca nei confronti della Procura di Palermo si spiega solo con la involontaria e disinteressata criminalizzazione. E questo è ancora peggio. Un conto è la criminalizzazione interessata della magistratura da chi vuole sfuggire alle indagini (come Berlusconi o i suoi sodali), un altro è invece quella non intenzionale e non interessata. Che è quella di Lupo e Fiandaca. Così come ho già accennato sono talmente infondate le affermazioni dei due autori che l’unica spiegazione di questa loro clamorosa ed erronea impostazione è quella del pregiudizio.

Entriamo nel merito delle questioni sollevate dagli autori del libro.
Fiandaca e Lupo fanno una sovrapposizione di questione etica e di questione giuridico-giudiziaria. Che invece vanno tenute distinte. Da magistrato ritengo condannabile sul piano giuridico-giudiziario la condotta degli imputati di quel processo e ritengo eticamente condannabile la condotta degli uomini dello Stato che hanno trattato con la mafia. Ma le due cose le tengo ben distinte e separate. Partiamo dall’aspetto giuridico-giudiziario: nessuno è imputato in questo processo per il solo fatto di avere trattato con la mafia. Il processo ha diversi imputati: i mafiosi che hanno minacciato lo Stato per ottenere dei benefici (più volte noi l’abbiamo definita una sorta di “estorsione” nei confronti dello Stato) e anche gli uomini dello Stato che hanno aiutato i mafiosi a portare a destinazione la minaccia e a beneficiarne dei risultati. C’è una giurisprudenza di Cassazione, ormai consolidata, che sancisce che alla pari dell’estortore nei confronti del commerciante risponde dello stesso reato il concorrente in estorsione e cioè colui che svolge il ruolo di intermediario tra l’estortore e l’estorto. E questo nella misura in cui l’intermediario aiuta l’estortore a portare a compimento l’estorsione nei confronti del commerciante. Il commerciante – che è la vittima dell’estorsione – ha l’obbligo di dire la verità, e se non dice la verità viene incriminato per falsa testimonianza. E’ esattamente quello che abbiamo applicato nel processo in questione. Anche in questo caso – con le dovute specifiche – abbiamo il mafioso “estortore” che ha messo in atto un’estorsione di tipo politico-criminale; l’imprenditore viene rappresentato dallo Stato e dal Governo, mentre gli intermediari sono quegli uomini politici e quelli degli apparati che hanno svolto un ruolo di intermediazione. Quindi gli intermediari, così come rispondono di concorso in estorsione, per principio di uguaglianza devono rispondere di concorso nel reato specifico di minaccia nei confronti dello Stato. Il destinatario finale della minaccia, rappresentante del Governo, ha l’obbligo di dire la verità, se non la dice viene imputato di falsa testimonianza come è il caso di Nicola Mancino e di Giovanni Conso. Qui siamo di fronte ad un “ente criminale” che ha una tale forza intimidatoria da poter intimidire perfino lo Stato per commettere od omettere determinate cose. Parliamo di uno Stato e dei relativi provvedimenti legislativi o amministrativi –  da fare o da non fare – a favore della mafia.  Nel processo in questione si risponde propriamente di questo specifico reato e chi aiuta il minacciante risponde di concorso alle minacce. Di fatto, queste sono le imputazioni che riguardano i mafiosi del calibro di Riina, così come gli stessi Mori, De Donno, Subranni, Dell’Utri e Mannino.  

Poc’anzi veniva citata anche la questione etica, qual è il punto nevralgico che deve essere focalizzato?
Non è vero che la trattativa è stata fatta a fin di bene per salvare lo Stato e per salvare i cittadini in quanto lo Stato era in ginocchio. E non è vero che per ragioni di ordine pubblico tutto può essere giustificato. Questa è una trattativa che è nata per difendere la casta: una ristretta cerchia di uomini politici che erano stati condannati a morte dalla mafia. La mossa con cui viene istigata Cosa Nostra a farsi ancora più avanti con la minaccia (ricordiamoci quando Riina disse: “si sono fatti sotto”) si concretizza proprio quando lo Stato “si è fatto sotto” chiedendo cosa volesse in cambio la mafia. Ecco che si arriva al papello (questo, almeno, secondo la ricostruzione della Procura, sarà poi il processo a stabilire se sarà provata o meno) e al ruolo di Calogero Mannino. Lo stesso Mannino, completamente terrorizzato per le minacce ricevute, certamente non si muove per salvare i cittadini italiani, ma per salvare se stesso. Detto ciò è un errore proiettarsi nella vicenda delle mancate proroghe dei 41bis del ’93 sganciandola dall’origine del tutto. Quello che succede nel ’93 è l’adempimento di una sorta di cambiale che era stata firmata nel ’92, perché in quella stessa cambiale gli uomini politici in effetti sono stati salvati.

Salvati da chi?
Fino a quando non avremo la prova certa di chi furono i mandanti politici di quella trattativa – che certamente vi furono – non lo possiamo dire…

E’ un dato oggettivo che questi mandanti politici vi furono…
Certo. E’ impensabile che Mannino si sia mosso da solo, qui stiamo parliamo dei più alti vertici dello Stato. Allo stesso modo è impensabile che gli ufficiali dei carabinieri abbiano potuto fare tutto da soli. Ma tutta la verità non si è accertata per la semplice ragione che siamo rimasti a metà strada.

Secondo gli autori del libro invece “la scelta politico-governativa di fare concessioni ai mafiosi in cambio della cessazione delle stragi risulterebbe legittima perché legittimata, appunto, dalla presenza di una situazione necessitante che impone agli organi pubblici di proteggere la vita dei cittadini”.
Anche Fiandaca e Lupo cadono nella “trappola”  di credere che la trattativa sia stata fatta per salvare lo Stato. No! Per quanto riguarda il 41bis non c’è dubbio che c’è stata anche una componente contingente relativa alla questione dell’inasprimento di questo regime carcerario. Ci possono quindi essere state delle motivazioni contingenti sul fatto di “difendere” lo Stato. La trattativa, però, nel processo che si sta celebrando, viene vista in modo globale, non si può sezionare soltanto un fatto avvenuto nel ’93. Bisogna ricostruire l’intero arco temporale e la relativa concatenazione degli eventi. La trattativa nasce e mantiene quindi il marchio della sua origine: per difendere una casta che di fatto viene salvata. Ecco perché mi riferivo ad una cambiale firmata: i politici che dovevano essere uccisi vengono risparmiati, la strategia subisce una deviazione che trova sulla sua strada altre vite umane, a cominciare da Paolo Borsellino, fino alle vittime delle stragi del ’93.

Uno scenario decisamente agghiacciante…
E’ come dire che una classe dirigente, un ceto politico, ha messo sul piatto della bilancia altre vite umane, dandole in pasto alla mafia, per salvare se stesso. Quella classe dirigente è responsabile di queste stragi. Secondo me è innanzitutto responsabile sul piano etico, ma ci sono anche delle responsabilità penali. Che altre procure diverse da quella di Palermo dovranno accertare. Di fatto, chi fece sapere che Borsellino era un ostacolo alla trattativa (che è stata la causa scatenante per cui Borsellino è stato ucciso) non può non essere anche penalmente responsabile, perché non poteva non prevedere che la conseguenza sarebbe stata quella che venisse eliminato. E’ plausibile che lo stesso tipo di ragionamento si possa fare rispetto alle stragi del ’93.

A suo parere l’accelerazione della strage di via D’Amelio è imputabile unicamente al fatto che Borsellino sia venuto a conoscenza della trattativa tra Stato e mafia e che si sia posto come ostacolo, o rientrava comunque all’interno di un piano di destabilizzazione ordito da quei poteri forti del “gioco grande”?
Questa, purtroppo, fa parte delle domande a cui ancora oggi non ci sono risposte. Allo stesso modo dimostra la sconfitta della giustizia perché non siamo stati in grado di scoprire tutta la verità. Credo comunque che ci siano elementi per poter affermare con sufficiente certezza che Paolo Borsellino sia stato ucciso non solo per mano mafiosa, ma anche con complicità penalmente rilevanti di uomini dello Stato. Poi, se questo fosse preordinato dentro un disegno eversivo stabilizzante – non eversivo destabilizzante – per la tenuta del sistema criminale anche da parte di uomini dello Stato, è un’ipotesi più che plausibile, ed è quella sulla quale abbiamo costruito un’altra indagine denominata “Sistemi criminali”. Che però, fino ad oggi, non è purtroppo giunta al soglio probatorio tale da poter avviare un processo. Altrimenti si potrebbe ipotizzare che si tratta anche qui di una intenzionale corresponsabilità nell’uccisione di Borsellino, finalizzata semplicemente ad agevolare e preservare la trattativa, ma purtroppo non abbiamo le prove per dire quale fra le due opzioni sia quella convalidata. Anche se, a voler essere consequenziali, siccome la trattativa come sua finalità comunque aveva il mantenimento dell’assetto, di un patto di convivenza tra Stato e mafia, le due ipotesi non sono incompatibili tra loro.

Seguendo questo filo logico la scelta di trattare appare sempre più sventurata…
Torno a ribadire il concetto iniziale: lo Stato italiano non ha mai trattato con la mafia per difendere cittadini inermi, è sempre intervenuta per difendere la casta. L’unico altro caso di trattativa, acclarato e accertato, è stato quello relativo al sequestro di Ciro Cirillo (ex assessore regionale ai lavori pubblici in Campania, rapito dalle Br nel 1981, ndr) dove lo Stato si mosse ai più alti vertici per salvare un altro uomo politico. E’ purtroppo una storia che si ripete. La differenza è che in quel caso comunque la vita di quell’uomo politico non ha avuto come effetto immediato (lo avrà avuto se mai come effetto indiretto) il rafforzamento dell’associazione mafiosa e quindi altre morti. Nel caso specifico della trattativa Stato-mafia ha avuto un effetto immediato, da Borsellino in poi. E quindi mi chiedo in che misura dovremmo essere quasi grati a questi uomini dello Stato come sembrerebbe che Fiandaca e Lupo ci vogliono dire.

Di fatto gli stessi autori intitolano il loro libro in maniera del tutto ottimistica.
Il titolo del libro è un altro falso storico: la mafia non ha vinto. Purtroppo non è così. L’unica cosa che posso concedere a Lupo e Fiandaca è che Riina non ha vinto. Ma hanno perso anche gli uomini dello Stato più intransigenti come Falcone e Borsellino che sono stati uccisi. E questo è un dato di fatto. E' vero che alcune componenti del mondo mafioso hanno perso, Riina sicuramente sì, ma non si può dire lo stesso della mafia rappresentata da Provenzano. La mafia degli affari e della convivenza, così come la classe dirigente statale degli affari e della convivenza con la mafia è sopravvissuta e ha vinto. Quindi la trattativa ha vinto.

Quindi, se Falcone e Borsellino hanno perso, in quel momento ha perso anche la parte sana del nostro Paese.
Se guardiamo quel periodo è stato così. La stagione della trattativa è quella in cui gli italiani intransigenti hanno perduto ed ha vinto l’Italia del compromesso e della trattativa. E’ una delle ragioni per le quali viene rifiutata questa verità, una verità pesante e dura. Ed è per questo che viene rifiutata quella stessa indagine che tenta di fare luce perché è come un pugno nello stomaco degli italiani. Per fortuna, però, insieme a Falcone e Borsellino non è morta quell’altra Italia. Paradossalmente, dal loro sacrificio quello spirito di intransigenza si è tramandato alle generazioni che sono venute dopo, a quelle dei giovani magistrati di quegli anni e a quei giovani (che in quella stagione erano bambini) che hanno individuato in Falcone e Borsellino modelli di riferimento e modelli di cittadini. Per cui oggi quell’Italia dell’intransigenza è ancora vivace e forte, ma non ha voce e potere, anche se è numerosa. La sconfitta dell’Italia dell’intransigenza che si è realizzata vent’anni fa non è stata di Falcone e Borsellino, ma nostra, degli altri che non sono riusciti a fare abbastanza scudo e sostegno nei loro confronti. La sovraesposizione di Falcone e Borsellino è stata anche alla fine isolamento e sconfitta in quel momento. Oggi diventa importante non ripetere lo stesso meccanismo. Non replichiamo lo stesso modello creando nuove sovraesposizioni e nuovi isolamenti, ecco perché bisogna operare non solo dentro la magistratura ma anche fuori, nel Paese e nella società, cercando di mettere insieme e organizzare quell’Italia dell’intransigenza. Quando riusciremo a dare i giusti diritti e il potere – nel senso migliore del termine – a questa Italia dell’intransigenza potremo fare vincere sia pure post-mortem Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.

Come vanno interpretate secondo lei le recenti “osservazioni” della Dna nei confronti del processo sulla trattativa?
Per pronunziarsi debitamente bisognerebbe leggere il contenuto integrale del documento della Dna. Prendo atto delle dichiarazioni del procuratore Roberti il quale ha affermato che non c’è nessun intento critico nei confronti della Procura di Palermo. Mi verrebbe da dire: ci mancherebbe! Sarebbe il colmo se dalla Dna venisse una critica anziché un sostegno a una posizione della procura su una vicenda così delicata che ha avuto già una convalida da parte del giudice dell’udienza preliminare con il rinvio a giudizio. Il passaggio che ho letto, riportato in qualche anticipazione di stampa, allude a nuovi problemi di natura giuridica fattuale posti al giudice. E’ vero che ci sono nuove problematiche giuridiche e che quel procedimento penale ha caratteristiche inedite nell’impostazione giuridica. La procura, però, non ha posto il problema, l’ha anche risolto, nel senso che aveva di fronte un fatto di cui valutare la rilevanza penale e ha valutato nella configurabilità di una fattispecie poco utilizzata. Immagino che la Procura di Palermo farà scuola su questa cosa e naturalmente suppongo che la Dna si adeguerà all’impostazione che la Procura ha assegnato. Allo stesso modo immagino che da parte della Procura nazionale antimafia non possa esserci nessuna volontà di smentire, ma si adeguerà e sosterrà la sua posizione. Sarebbe assurdo e paradossale il contrario.

Come va letta la condanna a morte di Totò Riina nei confronti di Nino Di Matteo intercettata nel carcere di Opera?
La cosa va presa molto seriamente, a mio parere l’obiettivo  di Riina non è solo trasmettere la sua condanna a morte a Nino Di Matteo, ma si tratta di un messaggio rivolto a più destinatari. Il destinatario principale non è il popolo di Cosa Nostra, al quale manda comunque segnali di rassicurazione del fatto che lui è sempre il capo ed è in forma, bensì il mondo politico e i garanti della trattativa. Ed è proprio a costoro che lui si rivolge facendo capire che è stanco e stufo di pagare per tutti. Ecco allora che dimostra di essere alquanto arrabbiato nei confronti di Nino Di Matteo perché quest’ultimo rappresenta lo Stato che sta facendo fare a Riina la figura di un pupo manovrato dalle mani di oscuri manovratori rimasti fuori scena. E quindi Riina afferma: “voi siete fuori scena, sto pagando io per voi, sono arrabbiatissimo con Di Matteo, ma indirettamente lo sono con voi”. Nei confronti di questi oscuri personaggi Riina ha un’unica arma, che non è il tritolo, ma è la verità. E’ chiaro che Riina non racconterà mai tutta la verità in quanto è contrario al Dna di Cosa Nostra, ma tutti sanno che lui può trovare mille canali e mille strumenti per far conoscere la verità in modo diretto sulle stragi e sulla trattativa. Ho già detto che questo per me è una sorta di nuovo papello di Riina. D’altra parte quando Riina si riferisce a Napolitano che non vuole andare a testimoniare o comunque sta cercando di evitare quell’audizione (a suo modo gli esprime “solidarietà”), e ugualmente fa delle dichiarazioni di vendetta nei confronti dell’ex premier Silvio Berlusconi, è alquanto indicativo. Non dimentichiamo che secondo la nostra ricostruzione Berlusconi è quello che alla fine aveva chiuso la trattativa e si era assunto su di sé la responsabilità dell’adempimento degli impegni che lo Stato aveva preso con la mafia. Allo stesso modo nelle parole del boss di Cosa Nostra c’è anche un riferimento velato a Renato Schifani (in modo molto più esplicito di quanto non abbia mai fatto fino ad oggi). Non dimentichiamo anche che quella che stiamo attraversando è una fase politica di passaggio e di transizione. All’inizio di ogni nuova Repubblica c’è sempre stata una trattativa. C’è quindi questa minaccia latente di ricominciare un’eventuale strategia stragista, possibilmente iniziando con un magistrato, per poi continuare con i politici (come si è fatto la scorsa volta colpendo magistrati e politici indifferentemente), altrimenti non resta che mettersi attorno a un tavolo per ricontrattare un nuovo patto.

Il problema è che nel frattempo qualcuno può raccogliere quest’ordine a livello militare…
Certamente. Quando entra in circuito qualcosa di così grave, così mediaticamente enfatizzato, è come una pallina di flipper che schizza via, ed è difficile prevedere che tipo di reazione a catena provocherà. E questo perché siamo dentro una fase magmatica all’interno del mondo politico e   all’interno del mondo criminale. Il rischio è che ci possano essere fughe in avanti anche dentro le organizzazioni criminali. Insomma ci possono essere tante variabili, così come giochi di rimbalzo dentro il mondo più torbido dei Servizi segreti “deviati”, della Massoneria “deviata” e via dicendo che, in un gioco di sponda, vogliono attribuire a Riina la responsabilità di un eventuale evento stragista. Si sta surriscaldando talmente tanto l’atmosfera che la tentazione del “botto” può quindi esserci.   

A tutt’oggi resta immutata la domanda se le stragi del ‘93 potevano essere evitate, allo stesso modo però si aggiunge un interrogativo ancora più lacerante e cioè se lo Stato “voleva” evitare quelle stragi o se invece le riteneva “necessarie”. Che idea si è fatto a proposito?
Io penso che potevano essere evitate e qualcuno dentro lo Stato le ha consapevolmente provocate, non so se addirittura con lo specifico dolo, cioè con la specifica premeditazione. La questione è se ci fu addirittura premeditazione, o se fu soltanto consapevole determinazione delle stragi.

A fine anno lei rientrerà ufficialmente nel processo sulla trattativa nella sua nuova veste di avvocato di parte civile per l’associazione delle vittime della strage di via dei Georgofili, cosa rappresenta questa ulteriore tappa a livello professionale e umano?
Aspetto con ansia questo momento perché considero quel processo anche una mia creatura (che ormai è diventata adulta e quindi si può reggere sulle sue gambe), e come sempre si ha voglia di stare vicino alle proprie creature ed assisterle. Al di là di questo aspetto quasi affettivo che inevitabilmente ciascuno di noi ha nei confronti degli impegni professionali (che in questo caso sono anche etici e morali) che assorbono le proprie energie e il proprio tempo, c’è anche la convinzione di potere dare un modesto contributo all’accertamento della verità. Un contributo effettivo in un momento clou come certamente è la sede dibattimentale, dove il pubblico ministero può essere aiutato dalle altre parti, soprattutto dalle parti civili che hanno lo stesso suo interesse all’accertamento della verità, in un momento neutro e imparziale come quello davanti a un giudice peraltro autorevole come questa Corte d’assise che se ne sta occupando.

Da qualche tempo lei è anche l’avvocato della famiglia Manca, insieme all’avv. Repici. In questi anni la famiglia di Attilio Manca si è sempre battuta per cercare la verità sulla morte del proprio congiunto. Una morte che sotto molti aspetti pare legata alla latitanza di Bernardo Provenzano. Lo scorso 3 febbraio si è arrivati al rinvio a giudizio per Monica Mileti, unica imputata per la morte del giovane urologo. Quali sono gli spunti investigativi dai quali si deve ripartire e quali prospettive ci sono per arrivare ad una verità giudiziaria?
Innanzitutto bisogna individuare due aspetti: i perché della verità apparente e i contorni della verità occultata. I perché della verità apparente riguardano i depistaggi. Che sono evidenti e vanno verificati fino in fondo. Poi bisogna capire perché si sono determinati; individuare il movente del depistaggio può servire anche a fare luce sulla verità occultata. Secondo dato sul quale concentrarsi nella verità occultata è il viaggio in Francia di Attilio Manca, perché non c’è dubbio che gli indizi sono così tanti relativamente alla coincidenza del viaggio con quello parallelo di Bernardo Provenzano che diventa una chiave per chiarire il mistero. Questa indagine in realtà non è mai stata fatta da nessuno, è stato ricostruito il viaggio in Francia di Provenzano, ma non si è mai indagato su quello di Attilio, credo che la cosa principale sulla quale approfondire sia proprio questa.

Recentemente ha detto che, al di là di alcuni errori commessi, è persuaso comunque di fare la cosa giusta per il suo Paese. Cosa significa “fare la cosa giusta” in un Paese alla deriva come il nostro?
Credo che per chi come me ha dedicato tutta la propria vita e il proprio impegno ad un ideale di giustizia attraverso strumenti e interessi – per 25 anni e più da magistrato, oggi da avvocato ma anche in un’attività politica nella società civile che guarda soprattutto alla riaffermazione del sentimento di giustizia – significa provare a servire ancora questo ideale cercando di mettere in piedi un Paese che ha purtroppo la sua nota caratteristica al contrario dell’ingiustizia. L’Italia è un Paese profondamente ingiusto sotto tutti i profili: ingiustizia legislativa, giuridica, giudiziaria, economica, sociale, ambientale e perfino fiscale. Vi sono ingiustizie di ogni genere. Si sono determinate troppe ingiustizie, soprattutto nei vent’anni del berlusconismo, che hanno dato spazio a veri e propri disvalori: quello dell’illegalità, dell’impunità e dei privilegi antitetici al concetto di giustizia. Credo quindi che occorra l’impegno di tutti per cercare di rimettere questo Paese in piedi. Non bastano dei piccoli accorgimenti, neppure gli impegni anche importanti di singoli individui. Occorre creare un senso di comunità, una collettività ampia di questa parte dell’Italia dei giusti e degli onesti che deve tornare a non essere schiacciata, ma padrona del suo Paese.

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