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scarantino-vincenzo1di Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo
«E' stato fatto un passo in avanti per una delle due stragi di Palermo. Siamo riusciti con un lavoro meticoloso e di gruppo, con la partecipazione di magistrati, tecnici e investigatori, che hanno lavorato in sintonia, a conseguire un risultato importante quale l'arresto di uno degli esecutori della strage di via d'Amelio. Vincenzo Scarantino appartiene ad una famiglia di Palermo da tempo nota agli inquirenti per associazione mafiosa e traffico di droga». Le agenzie rilanciano con enfasi le primissime dichiarazioni del procuratore di Caltanissetta Gianni Tinebra. Sono da poco passate le 10 del mattino del 29 settembre del 1992. In un secondo lancio Tinebra ribadisce le novità dell'arresto di Scarantino. «In un primo tempo si era pensato che l'auto imbottita fosse una Seat Marbella. Ma raccogliendo dei pezzi in via d'Amelio, tecnici e periti hanno ricostruito la 126 bianca (in realtà di coloro rosso amaranto, nda).

Quest'auto era stata rubata da tre giovani, arrestati il mese scorso dalla Squadra Mobile per avere tentato di violentare una ragazza. Due di questi sono parenti della proprietaria della 126 e sono ancora detenuti in carcere». Si tratta di Luciano Valenti e Salvatore Candura, di 28 e 31 anni, e di Roberto Valenti, di 20 anni, nipote di Luciano. Alcuni giornalisti presenti alla conferenza stampa chiedono perplessi a Tinebra come sia possibile che Cosa Nostra si affidi ad un balordo per compiere una strage. Il procuratore di Caltanissetta incassa il colpo e replica senza tentennamenti. «Non ci siamo posti la domanda. I fatti, secondo noi, si sono svolti in un certo modo. Scarantino non è uomo di manovalanza». Stop. Fine della conferenza stampa. Sulle scene irrompe così Vincenzo Scarantino. Lo spettacolo è appena iniziato.

Il picciotto della Guadagna
L'uomo arrestato per concorso in strage e furto aggravato si guarda attorno come un animale in gabbia. Vincenzo Scarantino ha 27 anni, una moglie e tre figli. Ufficialmente è un disoccupato, ha cinque fratelli di cui uno in galera per spaccio di stupefacenti. La sua manovalanza criminale comincia molto presto. Appena tredicenne Vincenzo Scarantino viene bloccato con altri due ragazzi dopo aver compiuto un furto e una piccola rapina. I tre giovani hanno con sè una pistola, Scarantino viene segnalato al tribunale dei minori per detenzione di arma. Nel 1984, raggiunta la maggiore età, il giovane picciotto sconta un periodo di detenzione nel carcere dell'Ucciardone per ricettazione e detenzione di armi. Un anno dopo è già in libertà. In quel periodo viene denunciato per associazione a delinquere finalizzata allo spaccio di stupefacenti. Nel 1988 viene segnalato per contrabbando di sigarette. Stessa accusa tre anni dopo. Da questi primi dati emerge chiaramente il basso spessore criminale del personaggio arrestato. L'unico aggancio con Cosa Nostra è quello della parentela acquisita. Una sorella di Scarantino, Ignazia, è sposata con Salvatore Profeta, uomo d'onore della famiglia mafiosa della Guadagna, legato al boss Pietro Aglieri, fedelissimo di Provenzano. Nel primo interrogatorio del 30 settembre 1992 Vincenzo Scarantino nega qualsiasi coinvolgimento nella strage. Con tutte le sue forze afferma di non sapere nulla di quella 126 esplosa in via d'Amelio. Nel carcere di San Cataldo (Cl) il Gip Sebastiano Bongiorno lo interroga insieme ai tre sostituti della procura distrettuale antimafia Paolo Giordano, Carmelo Petralia e Pietro Vaccara. Scarantino, assistito dagli avvocati difensori Paolo Petronio e Mario Zito, respinge ogni accusa. «Si sono inventati tutto», afferma deciso riferendosi agli ex compari che lo hanno accusato, mentre l'avvocato Petronio lancia le prime accuse. «Abbiamo l'impressione che qualcuno si sia lasciato prendere la mano dall'impulso di assicurare comunque un colpevole alla giustizia». Ma «l'impulso» che passa attraverso i tre balordi accusati della violenza carnale a danno di una giovane commessa costituisce inevitabilmente un primo segnale inquietante. Luciano Valenti e Salvatore Candura hanno fretta di autoaccusarsi di essersi occupati del furto della macchina destinata poi ad esplodere in via d'Amelio. E intendono scaricare tutta la responsabilità sul presunto committente del furto della 126 e cioè Vincenzo Scarantino. I primi vagiti di un depistaggio si diffondono nell'aria. «Il procuratore Tinebra deve cercare nelle sue tasche i colpevoli e non rovinare le povere famiglie», afferma Rosario Scarantino, fratello di Vincenzo, a margine del primo interrogatorio del picciotto della Guadagna. Ma per Scarantino si stanno preparando le celle del supercarcere di Pianosa.

Epopea di una «collaborazione»
«Mi disse che era vero che aveva commissionato lui la Fiat 126, aveva ricevuto l'incombenza da una persona che era un parente o forse un cognato suo o di suo fratello. Scarantino mi disse che fu lui a portare l'auto dal garage a via d'Amelio». Siamo nel mese di dicembre del '93, Francesco Andriotta, indicato dai giudici con il nome in codice «Gamma» ha iniziato a collaborare. Andriotta, è un condannato all'ergastolo per omicidio. Con dovizia di particolari racconta agli inquirenti le confidenze ricevute da Scarantino durante il periodo di detenzione al carcere di Busto Arsizio. In quegli stessi giorni Vincenzo Scarantino chiede il suo primo colloquio investigativo con il funzionario del gruppo Falcone-Borsellino (la squadra di poliziotti preposta alle investigazioni sulle stragi di Capaci e via d'Amelio, capitanata da Arnaldo La Barbera) Mario Bo. Scarantino offre importanti indicazioni per la cattura del latitante Giuseppe Calascibetta. Ma dopo aver confidato quanto di sua conoscenza lo spiffera all'esterno impedendo così la cattura. Qualche giorno dopo Arnaldo La Barbera si reca a Pianosa per verificare la reale disponibilità di Vincenzo Scarantino a collaborare. Il 3 gennaio 1994 la procura della Repubblica di Caltanissetta chiede il rinvio a giudizio di quattro persone ritenute responsabili di avere partecipato alla strage di via d'Amelio. Si tratta di Salvatore Profeta, 43 anni, il cognato Vincenzo Scarantino 29 anni, Pietro Scotto, 41 anni e Vincenzo Orofino, 28 anni, in quel momento tutti detenuti ed accusati di concorso in strage. L'indagine che porta all'identificazione dei quattro è condotta dal questore Arnaldo La Barbera e coordinata dal procuratore della Repubblica di Caltanissetta Giovanni Tinebra e dai sostituti Paolo Giordano, Ilda Boccassini, Carmelo Petralia e Fausto Cardella. «Questa parte dell'inchiesta ci sembra definita – afferma Tinebra –  ed a nostro giudizio è abbastanza solida da reggere al dibattimento». Un mese dopo i poliziotti del gruppo investigativo Falcone-Borsellino tornano a Pianosa per sondare definitivamente la volontà collaborativa di Vincenzo Scarantino. Ed è verso la fine del mese di giugno che Scarantino dichiara di voler collaborare. La notizia è ancora segreta, ma per poco. Il 17 luglio un dispaccio Ansa anticipa il suo «probabile» pentimento. Successivamente il Tg5 annuncia con enfasi il “ravvedimento” del picciotto della Guadagna. L'Epopea della sua “collaborazione” salpa verso lidi sconosciuti.

Primi indizi
E' una calda giornata di fine luglio del '94. In una località segreta si svolge un confronto tra Vincenzo Scarantino e Giuseppe Calascibetta (arrestato nell'ambito dell'inchiesta sulla strage di via d'Amelio). Scarantino lo accusa di aver messo a disposizione la sua villa a Santa Maria di Gesù per ospitare il summit nel quale Totò Riina ordinò la strage di via d'Amelio e soprattutto di aver partecipato al caricamento del tritolo sulla 126. A quel confronto partecipa anche il Pm di Palermo Alfonso Sabella che subito dopo interroga Scarantino su una serie di omicidi da lui confessati. Scarantino si confonde, tergiversa, improvvisa deduzioni e ricordi azzardati. Dopo pochi minuti lo stesso Sabella si rende conto dell'assenza di spessore criminale del pentito. «Era completamente inattendibile – dirà successivamente il magistrato – mi sembrava fasullo dalla testa ai piedi. Non aveva la caratura dell'uomo d'onore; decidemmo di non dare alcun credito alle sue rivelazioni». La procura di Palermo decide di non utilizzare le dichiarazioni del picciotto della Guadagna in alcun procedimento di mafia. E soprattutto non ritiene opportuno richiedere il suo inserimento nel programma di protezione previsto per i collaboratori di giustizia. Il primo ottobre 1994 le agenzie rilanciano la notizia della predisposizione di un confronto tra Vincenzo Scarantino e Salvatore Cancemi a seguito di diverse discrepanze tra le rispettive dichiarazioni. Inizialmente l'avvocato Luigi Li Gotti è il difensore di entrambi, ma a seguito di questi contrasti rinuncia alla difesa di Scarantino. Il suo nuovo avvocato sarà Lucia Falzone.  Martedì 25 ottobre inizia il primo processo per la strage di via d'Amelio. Gli imputati sono quattro: lo stesso Vincenzo Scarantino, Pietro Scotto, Giuseppe Orofino e Salvatore Profeta. Scarantino si è autoaccusato di avere fornito a Cosa Nostra la Fiat 126 utilizzata per la strage; Scotto, tecnico della Elte, una società telefonica, è invece accusato di aver intercettato la chiamata con la quale il giudice Borsellino preannunciava una sua visita alla madre; Orofino è il proprietario dell'officina meccanica dove è stata imbottita di esplosivo l'utilitaria e Profeta, cognato di Scarantino, secondo l'accusa avrebbe ordinato a quest'ultimo di procurare la Fiat 126. L'udienza si svolge dinnanzi alla Corte di Assise presieduta da Renato Di Natale, giudice a latere Maria Carmela Giannazzo, con sei giudici popolari; pubblici ministeri Annamaria Palma e Giuseppe Petralia. In quegli stessi giorni Ilda Boccasini lascia la procura di Caltanissetta in quanto sono scaduti i termini della sua applicazione. Prima di partire la Boccasini insieme al collega Roberto Saieva stilano una dettagliata relazione nella quale esprimono tutti i loro dubbi sull'attendibilità di Vincenzo Scarantino. I destinatari di quella relazione sono il procuratore di Palermo Giancarlo Caselli e il procuratore di Caltanissetta Gianni Tinebra. «L'inattendibilità delle dichiarazioni rese da Scarantino (su alcuni singoli mafiosi, nda) – si legge nella relazione di Boccassini e Saieva – suggerisce di riconsiderare il tema dell'attendibilità generale del collaboratore, anche perché lo stesso ha recentemente modificato la propria posizione in ordine a una circostanza che assume estremo rilievo». I Pm invitano quindi il procuratore di Caltanissetta a completare il prima possibile i necessari riscontri. «Rinviare il compimento dei necessari atti di investigazione – concludono – potrebbe avere come effetto di lasciare allo Scarantino una via aperta verso nuove, piroettanti, rivisitazioni dei fatti». Ai dubbi della Boccassini e di Saieva si vanno via via aggiungendo le ferme posizioni di ex uomini d'onore che sconfessano apertamente il picciotto della Guadagna. E' il 13 gennaio 1995 quando si procede al confronto tra Vincenzo Scarantino e Salvatore Cancemi. All'interno della caserma del Ros di Roma sono presenti i Pm Annamaria Palma, Carmelo Petralia e Antonino Di Matteo, insieme a loro anche l'allora maggiore Mauro Obinu. L'ex capomandamento di Porta Nuova non ha esitazioni mentre si rivolge a Scarantino. Lo affronta a viso aperto, gli dice di non conoscerlo, mette in dubbio la sua appartenenza a Cosa Nostra e soprattutto lo scuote affinchè la smetta di mentire. «Tu sei un bugiardo – incalza Cancemi – chi è che ti ha detto questa lezione? Chi te l'ha fatta questa lezione? Dicci la verità, devi dire la verità, ma chi ti conosce, ma chi sei? Ma questa lezione chi te l'ha fatta?». Scarantino tenta una debole ripresa farfugliando improbabili ricordi, ma Salvatore Cancemi si rivolge agli inquirenti. «Ma veramente date ascolto a questo individuo? Signori giudici, questo (Scarantino, nda) sta offendendo l'Italia, tutta l'Italia sta offendendo costui!». L'ex boss di Cosa Nostra insiste nel manifestare la sua totale diffidenza nei confronti di Scarantino. «Attenzione, state attenti è falso, non credete nemmeno a una virgola di quello che vi sta dicendo […] queste parole gliele hanno messe in bocca, gli hanno fatto una lezione e ora la sta ripetendo». Quello stesso giorno si procede anche al confronto tra Scarantino e Mario Santo Di Matteo, ex boss di Altofonte (padre del piccolo Giuseppe Di Matteo, ucciso da Giovanni Brusca dopo due anni di prigionia). Di Matteo non usa mezzi termini per squalificare il picciotto della Guadagna. «Per me tutto quello che stai a dire qua, per me è tutto falso. Io non sono stato in nessuna riunione con Giovanni Brusca né con Pietro Aglieri, né con Totò Riina, questa è la verità è inutile che ti dico. Io non so da dove hai preso tutte queste cose perché secondo me tu non sai quello che dici. Io non so come tu stai collaborando, stai dicendo un sacco di cazzate che neanche te lo immagini». Anche un collaboratore di giustizia di primo livello come Giovanni Brusca si accorge immediatamente della mistificazione messa in atto da Scarantino. «Ma chi è questo?» chiede l'ex boss di San Giuseppe Jato. E dopo un paio di battute si rivolge ai magistrati per indicare le sue considerazioni. Per Brusca il picciotto che ha di fronte non è nient'altro che un bugiardo che sta recitando una parte. Senza alcuna attenuante. (segue)

Tratto dal libro “Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino”
(Bongiovanni-Baldo, ed. Aliberti)


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