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cancemi-salvatore-effectdi Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo - 22 gennaio 2014
Quali figure istituzionali si nascondono dietro i timori del capo di Cosa Nostra?

“Totò Cancemi dice che dobbiamo inventare che la morte di Falcone .... che ci devi inventare, gli ho detto? Lui ha detto ... inc ... gli ho detto: se lo sanno la cosa è finita”. Il capo di Cosa Nostra lancia questo messaggio obliquo al suo interlocutore Alberto Lorusso che lo ascolta attentamente. Per gli inquirenti questo particolare passaggio del colloquio tra Riina e Lorusso (contenuto nelle intercettazioni trascritte dalla Dia e depositate al processo sulla trattativa Stato-mafia) è alquanto emblematico.

Perché Salvatore Cancemi, ex boss di Porta Nuova, nonché fedelissimo di Riina, propone al suo capo di “inventare” qualcosa in merito alla strage di Capaci? Bisogna forse fornire una versione “ufficiale” al popolo di Cosa Nostra per evitare che si scoprano determinati retroscena di quell’eccidio? E’ necessario nascondere una compartecipazione esterna a Cosa Nostra? Qualcuno che deve rimanere invisibile agli occhi dei sodali del boss di Corleone? E soprattutto: perché Riina si preoccupa che “la cosa”, se si venisse a sapere, “è finita”? Forse perché così crollerebbe la sua immagine di capo assoluto che non prende ordini da nessuno, né tanto meno fa accordi con pezzi dello Stato? Certo è che quelle parole pesano come piombo. E lasciano aperti ulteriori interrogativi su quello che Totò Riina vuole fare intendere oggi ad Alberto Lorusso. “Non dobbiamo discutere, non c'è niente da discutere – prosegue Riina accennando alla tempistica della realizzazione della strage di Capaci alla quale ha partecipato attivamente il cognato Leoluca Bagarella –. Non né discutiamo, come noi né discutiamo … inc ... sono disgrazie della vita, lo non l'ho toccato più. Quale chiacchierare, quale .... in fondo, in fondo, in fondo .... ci siamo stati otto giorni per arrivare qua, il fatto che là dentro ... ci sono stati otto giorni. c'è andato mio cognato. c'è andato quello, questo”. E’ indubbiamente la prima parte di questi dialoghi quella che resta da esplorare ulteriormente. Coloro che non devono conoscere il “fuori scena” della strage di Capaci non devono sapere nemmeno quello che c’è stato dietro la strage di via D’Amelio. Che a tutti gli effetti rappresenta la chiave di volta, insieme agli eccidi del 1993, per comprendere la storia di patti e ricatti che hanno insanguinato il nostro Paese.

A futura memoria
Le parole di Salvatore Cancemi (deceduto il 14 gennaio del 2011) riportano l’attenzione mediatica sui legami tra mafia e Stato che, per mantenere una sorta di “equilibrio”, devono restare nell’ombra. Di quegli “accordi” lo stesso Cancemi ci aveva parlato 13 anni fa in diversi incontri durante i quali avevamo registrato le sue dichiarazioni (acquisite agli atti del processo sulla trattativa Stato-mafia, ndr). L’intervista al primo pentito della “Curiina mi fece i nomi dipola” di Cosa Nostra era poi confluita nel libro: Riina mi fece i nomi di… (ed. Massari), nel quale lo stesso ex boss di Porta Nuova affrontava i temi più delicati della sua collaborazione: dal ruolo di Marcello Dell’Utri e Silvio Berlusconi nelle stragi, fino alla mancata cattura di Bernardo Provenzano. Una cattura che sarebbe stata possibile lo stesso giorno in cui Salvatore Cancemi si era consegnato ai carabinieri della caserma Carini di Palermo. Latitante per anni, all’alba del 22 luglio del 1993 aveva deciso di costituirsi alle forze dell’ordine ponendo così fine ad una carriera mafiosa durata vent’anni. Quella mattina lo stesso boss avrebbe dovuto incontrare Carlo Greco, il capo del mandamento di Santa Maria di Gesù, assieme a Pietro Aglieri, per poi raggiungere Bernardo Provenzano in una località segreta. Di fatto, una volta arrivato in caserma aveva consegnato ai carabinieri un pizzino ricevuto dal Greco, con il quale gli veniva comunicato un appuntamento per la mattina di quello stesso giorno con Provenzano. “Dopo aver chiesto di avvisare il Capitano ‘Ultimo’ – ci aveva raccontato Cancemi – dissi ai carabinieri che io avevo, per quella mattina alle sette, un appuntamento con Provenzano; quindi se volevano potevano prenderlo. All’inizio non mi hanno creduto, perché altri pentiti avevano dichiarato che non si sapeva se era ancora vivo”. (…) “Poi mi hanno fatto un buco nei pantaloni, ancora li conservo, per mettermi una microspia nella tasca in modo che io salissi in macchina con Carlo Greco. E li facessi arrivare a Provenzano. Ma tutto si è risolto in una bolla di sapone. E intanto l’orario dell’appuntamento è passato”. “Perché secondo lei non hanno voluto prendere Provenzano?”, avevamo chiesto al pentito nel corso dell’intervista. “Questo io non lo so – ci aveva risposto –. So che questa è la realtà, è oro colato!”.

Epopea di una collaborazione
“Io ho fatto parte di Cosa Nostra per venti anni, circa – ci aveva spiegato l'ex boss – e non ho parole a sufficienza per farvi capire il male che questa organizzazione rappresenta. E questa è una cosa. Per me, invece, i mafiosi sono quelli in giacca e cravatta che trattano con Cosa Nostra...”. E' proprio quando si era addentrato a raccontarci delle collusioni di Cosa Nostra con la politica, la massoneria e i servizi segreti che il livello della conversazione era approdato su un terreno minato. “Se Cosa Nostra non avesse avuto e se non avesse tuttora gli agganci che ha – aveva sottolineato Cancemi – sarebbe solo una banda di sciacalli, niente di più. Cosa Nostra è diventata quello che è grazie alle collusioni, ai favori, alle amicizie con pezzi dello Stato, dei politici, ecc... Questo vale tanto per le leggi accomodanti quanto per gli appalti”. Alla nostra domanda sui collegamenti tra Cosa Nostra e il Vaticano era impallidito. “Se io parlo mi fanno a pezzettini – aveva esclamato alzando il tono della voce – e pure a lei!...”, il suo sguardo aveva tradito un'ombra di paura. Il collaboratore di giustizia ci aveva accennato solamente l'impossibilità di poter riferire di questi meandri oscuri, dopodiché si era trincerato dietro un impenetrabile “no comment”. Affrontando la questione della “trattativa” tra Stato e Cosa Nostra, Salvatore Cancemi ci aveva confermato che “la strategia del silenzio”, quella che aveva imposto lo stop alla “strategia stragista”, era stata concordata ad alti livelli con “un accordo basato su un interesse comune”. Al nostro interrogativo se sarebbero potute avvenire ancora stragi, nel caso che questo “equilibrio” si fosse rotto, Cancemi non aveva avuto dubbi: “Succede un macello... si... anche stragi...”, aveva replicato. Dopo un attimo in silenzio gli avevamo chiesto cosa sarebbe successo se Totò Riina si fosse pentito. “Crederei più ad un asino che vola – aveva risposto al di fuori di qualsiasi ironia – e comunque se dovesse succedere sarebbe come fare esplodere una bomba atomica: con tutti i segreti che sa, cadrebbe mezza Italia...”.

“Riina è stato preso per la manina per fare le stragi”
L'ex boss ci aveva spiegato di essere stato a conoscenza che “molti uomini di Cosa Nostra, soprattutto i grandi capi storici, Saro Riccobono, Stefano Bontade, Salvatore Inzerillo, e persino Riina e Provenzano hanno avuto rapporti ultimi-giorni-di-paolo-borsellino-homeconfidenziali con i carabinieri e la polizia o più in generale con referenti istituzionali esterni a Cosa Nostra”. A quel punto gli avevamo domandato brutalmente se riteneva che Riina fosse stato tradito. Di scatto ci aveva risposto affermativamente, poi però si era fatto pensieroso e aveva plasmato leggermente la sua affermazione. “Non lo so con certezza – ci aveva risposto dopo qualche attimo di silenzio – ma penso che qualcosa c'è stata... non lo escludo e nemmeno lo confermo...”. Poi avevamo evidenziato che dietro la strage del rapido 904 c'era Cosa Nostra, così come dietro quella di Capaci, di via D'Amelio, di Roma, di Firenze e di Milano, ricordandogli che addirittura era stata chiesta l'intercessione a Cosa Nostra per salvare l’esponente democristiano Aldo Moro. Allo stesso modo avevamo analizzato quindi l'assurdità di voler pensare che Cosa Nostra fosse stata “sola” a commettere queste azioni criminose. “E' ovvio che non lo è – aveva replicato tutto d'un fiato Cancemi – agisce a volte su richieste esterne quando questo, in qualche modo, le convenga”. Dopo aver ascoltato le sue parole attentamente ci eravamo soffermati sul capitolo della strage di via d'Amelio, per arrivare a quelle “entità esterne” dietro Cosa Nostra di cui si parla nelle sentenze della strage del 19 luglio '92. “Vale lo stesso discorso per tutte le stragi – ci aveva risposto amaramente il collaboratore – Riina è stato ‘preso per la manina’ in questa strategia perché, va bene che era pazzo, ma non così tanto. Se voleva mandare un messaggio bastava che mettesse una bomba al mercato della Vucciria o al Capo a Palermo e faceva centinaia di morti. Invece, con quegli obbiettivi così precisi gli interessava colpire determinate persone”. “Per me è stato guidato dall'esterno – ci aveva confermato Cancemi – a lui interessava condurre i suoi affari tranquillamente e per farlo aveva bisogno di convivere pacificamente con lo Stato; avrà dato qualcosa in cambio...”.

L’amara verità
“Questa è la verità – aveva affermato in seguito Cancemi – non m'interessa se mi portano all'inferno, ma queste sono state le parole di Salvatore Riina”. Nell'ultimo incontro che avevamo avuto con l’ex boss il nostro dialogare aveva preso immediatamente una piega pessimista, anzi disfattista. “Non c'è più niente da fare – ci aveva detto con un misto di rassegnazione e di rabbia – abbiamo perso...”. Ma il suo stato d'animo lasciava comunque intravedere un moto di orgoglio e di dignità per non aver ceduto alla tentazione di ritrattare. “Solo Gesù Cristo può distruggere Cosa Nostra – aveva affermato con profonda convinzione – se lo Stato avesse voluto sconfiggerla non avrebbe mai dovuto distogliere l'attenzione, nemmeno un istante”. Poi, però, aveva aggiunto che avrebbe rifatto mille volte la scelta di collaborare e che nulla gli avrebbe tolto la convinzione che solo attraverso la collaborazione con la giustizia si poteva abbattere “questo male”. Solo allora gli avevamo domandato cosa avrebbe detto ai figli dei mafiosi che sono sulla strada per diventare uomini d'onore. “Allontanatevi immediatamente – aveva replicato Cancemi con un'autorità che gli  era appartenuta negli anni passati – voi in questo momento siete accecati, e pensate che non sia un male; invece lo è, il più terribile! E anche se sentite i vostri genitori, vostro padre, dire cose cattive, andate a riferirlo, immediatamente. So che questo è molto difficile, ma io vi suggerisco questo. Allontanatevi da questo male!”. Sorprendentemente lo stesso Salvatore Cancemi aveva deciso di concludere quella lunghissima conversazione, iniziata sette mesi prima, con un richiamo al figlio maggiore del capo di Cosa Nostra. “Voglio lanciare un appello affettuoso – aveva annunciato Cancemi – al figlio di Salvatore Riina, Giovanni, perché si penta. Io non l'ho mai conosciuto, ma vorrei invitarlo a collaborare con la giustizia, così vediamo se ci riusciamo a distruggere questo male”. Alla luce della recente condanna all’ergastolo comminata dalla Cassazione nei confronti di Giovanni Riina, le parole di Cancemi acquistano ulteriore valore. E soprattutto segnano inconfutabilmente una via d’uscita per la sconfitta di Cosa Nostra.

Fonte bibliografica: “Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino” (Bongiovanni - Baldo, ed. Aliberti)

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