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messina-denaro-matteo-web1di Giorgio Bongiovanni e Aaron Pettinari - 3 maggio 2013
C'è una parte dello Stato che non vuole, e non ha voluto in passato, arrestare il superlatitante Matteo Messina Denaro così come è accaduto prima ancora con un altro capomafia illustre, il corleonese Bernardo Provenzano. Almeno è questa l'impressione che si ha nell'ascoltare il racconto del maresciallo capo Saverio Masi, tempo fa investigatore a caccia dei latitanti e oggi caposcorta del pm Nino Di Matteo che indaga sulla trattativa Stato-mafia.
Secondo quanto riportato oggi sulle pagine del Corriere della Sera, che ha pubblicato un'indagine condotta dalla squadra di Report in un articolo firmato da Sigfrido Ranucci, Masi ha presentato una denuncia in cui racconta alla procura alcuni passaggi inquietanti relativi alla indagini sui due boss. Una storia che parte nel 2001 quando Masi si presenta al Nucleo provinciale di Palermo chiedendo di potersi occupare della cattura di Provenzano. Nonostante viene inviato a Caltavuturo, sulle Madonie, il maresciallo trova comunque il modo di effettuare alcune indagini. Addirittura riesce a individuare un contatore Enel, all'indomani della cattura del boss Benedetto Spera, che era riferibile a chi gestiva la latitanza del capomafia corleonese e che, probabilmente, avrebbe potuto fornire una pista importante per giungere al suo arresto con cinque anni di anticipo. Ma non si tratta dell'unico episodio. 

provenzano-bernardo-bigMasi parla anche di una telefonata intercettata tra un noto pregiudicato legato a Provenzano e un italoamericano in cui si parla di Silvio Berlusconi che dovrebbe essere invitato alla festa del Columbus Day l'8 ottobre 2001. L'americano dice: “Voglio Berlusconi e ho detto a Nicola come si deve fare. Iddu è pure in buoni rapporti con Bush”, e dall'altra parte della cornetta risponde il siciliano: “Certo, come lo vedo, glielo dico io”. Ma il caposcorta di Di Matteo, nella relazione consegnata nei giorni scorsi alla Procura di Palermo parla anche di un tentativo di piazzare le cimici nel casolare di Provenzano, caduto nel vuoto solo perché il Ros aveva dimenticato gli attrezzi per forzare la serratura. Un fatto che si aggiunge all'ordine, giunto senza spiegazioni, di sospendere il pedinamento di Ficano, cognato di Simone Castello, uno dei postini del boss corleonese. Nel parco di autodemolizioni di cui Ficano era proprietario Masi aveva persino scoperto un casotto con dentro una macchina da scrivere. Immediata è stata l'associazione della stessa come strumento per compilare “pizzini”. Alla richiesta di fare verifiche sulla stessa, di battere un semplice alfabeto su un foglio per poi fare il confronto con quelli scritti e recuperati in precedenti operazioni, il suo capitano, che nel casotto avrebbe deciso anche di non piazzare microspie, non lo permette. Una discussione in cui Masi apprende che anche nelle indagini su Gaetano Lipari, ritenuto come “l'infermiere di Provenzano”, erano stati compiuti dei rallentamenti con il mancato pedinamento dei principali indagati. L'intenzione di non catturare Provenzano, inoltre, sarebbe stata espressa direttamente a Masi da un suo superiore, in un duro rimprovero: “Noi non abbiamo nessuna intenzione di prendere Provenzano! - avrebbe detto - Non hai capito niente allora? Lo vuoi capire o no che ti devi fermare? Hai finito di fare il finto coglione? Dicci cosa vuoi che te lo diamo. Ti serve il posto di lavoro per tua sorella? Te lo diamo in tempi rapidi!”.

Gli stop su Messina Denaro
Oltre agli stop sulle indagini per la cattura di Provenzano il maresciallo Masi si trova a dover fare i conti anche con altri clamorosi sviamenti, sempre gravissimi se si pensa che si sarebbe potuti arrivare alla cattura dell'ultimo superlatitante di Cosa Nostra, Matteo Messina Denaro. Masi racconta dell'indagine sul caso delle “Talpe in Procura”. Seguendo Francesco Mesi, uno dei favoreggiatori di Messina Denaro, arriva ad un casolare dove vorrebbe piazzare microspie e telecamere. Per farlo è pronto a rinunciare anche alle ferie ma il suo superiore lo “invita” ad andare comunque in vacanza assicurando che il lavoro sarebbe stato comunque eseguito. Al ritorno però scopre che nulla era stato fatto. Tornato al casolare avvicinandosi nota la presenza di persone e quando una porta si spalanca all'improvviso il maresciallo vede all'interno una persona che molto probabilmente era il boss trapanese Messina Denaro. Tornato in caserma litiga con il capitano e scrive una nuova relazione di servizio, probabilmente caduta nel vuoto. Un nuovo episodio nel marzo 2004. A Bagheria, mentre girava in auto, per un soffio evita un incidente con un'utilitaria che gli taglia la strada. Alla guida di quest'ultima vi era proprio Matteo Messina Denaro. Così lo segue e giunge fino ad una villa dove ad attenderlo c'è una donna. Masi osserva, scrive tutto e chiede di proseguire nelle indagini. E a quel punto una nuova anomalia. Gli viene chiesto di cancellare dalla relazione il nome del proprietario della villa, così come quello della donna. Masi chiede che la relazione venga trasmessa in Procura ma a distanza di anni non è chiaro se ciò è stato fatto. Adesso Masi torna a scavare nei ricordi e nella nuova relazione consegnata alla Procura di Palermo ha scritto tutto.
Il racconto di questi fatti anima ulteriormente l'ambiente attorno ai due processi che si stanno celebrando a Palermo, entrambi condotti dal pm Antonino Di Matteo, già surriscaldato dalle minacce ricevute dal giudice in cui un anonimo avverte: “Amici romani di Matteo (Messina Denaro, ndr) hanno deciso di eliminare il pm Nino Di Matteo in questo momento di confusione istituzionale, per fermare questa deriva di ingovernabilità. Cosa Nostra ha dato il suo assenso, ma io non sono d'accordo”. Il primo è il processo Mori, che è in fase di requisitoria e che si avrà luogo il prossimo10 maggio. Il secondo è quello sulla trattativa Stato-mafia che prenderà il via il prossimo 27 maggio e che vedrà alla sbarra, tutti insieme, capimafia, politici e rappresentanti delle istituzioni. A quanto pare ci sono uomini potenti dello Stato che non vogliono catturare Matteo Messina Denaro, e per scongiurarne l'arresto condizionano le istituzioni e si avvalgono dei servizi deviati. Il boss trapanese sta per battere la superlatitanza di Totò Riina (durata ventiquattro anni). In Sicilia ci sono diecimila unità tra poliziotti, carabinieri, guardia di finanza e corpi speciali. Nonostante ciò solo una piccolissima parte delle forze dell'ordine, guidata da bravissimi cacciatori di latitanti come l'ex capo della Squadra Mobile di Trapani Giuseppe Linares (oggi dirigente della divisione anticrimine della Questura di Trapani ndr) e altri servitori dello Stato, viene impiegata con scarsi mezzi a disposizione nella ricerca del latitante. E ancora oggi, in un'area ridotta come quella della provincia di Trapani, Messina Denaro continua ad essere imprendibile. C'è dunque da sospettare che con lui si stia proseguendo nella famosa trattativa Stato-mafia? Quali garanzie, quali patti e ricatti sta portando avanti Matteo Messina Denaro? A cosa è utile il boss allo Stato? Su queste domande pretendiamo una risposta.

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