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riccio-ombre-bigdi Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo - 25 marzo 2013
(segue dal capitolo “Processo Mori-Obinu: omissioni pericolose”)
Il racconto di Michele Riccio continua sulle strade impervie dei comandamenti di Cosa Nostra illustrati da Ilardo dove i capi “o si vendono o si ammazzano”. Tra le informazioni che l'ufficiale raccoglie dalla sua fonte c’è anche quella che Provenzano aveva stabilito un contatto con un uomo dell'entourage di Berlusconi che aveva assicurato iniziative favorevoli per Cosa Nostra da un punto di vista giudiziario, ma anche aiuti nell’aggiudicazione degli appalti e dei finanziamenti statali. Durante uno dei loro incontri Riccio sfoglia un quotidiano locale dove si parla di Marcello Dell'Utri e indicandolo chiede a Ilardo se fosse lui l'uomo in contatto con Berlusconi, con grande sagacia il confidente gli risponde prontamente: «Colonnello, ma se lei le cose le sa, che me le chiede a fare?».

Per Ilardo arriva il momento di fare il “salto” da confidente a collaboratore. Mori indica il procuratore di Caltanissetta, Gianni Tinebra, come l'interlocutore ideale per stabilizzare quel rapporto di collaborazione, ma Riccio non è d'accordo. «Ero perfettamente cosciente – ricorda il colonnello – che la scelta fatta, di non seguire l’indicazione del mio superiore, il Col. Mori, di convincere l’Ilardo a collaborare solo con il Dr. Tinebra escludendo il Dr. Caselli, mi avrebbe definitivamente qualificato “non affidabile”. Ma non avrei tradito un credo ed una persona che aveva affidato la sua dignità e la sua vita nelle mie mani, certo della mia lealtà all’Istituzione». «Quelle sere di fine aprile 1996 incontravo più volte Ilardo. Ormai era imminente la nostra convocazione a Roma (per formalizzare la sua decisione a collaborare, nda), così era stato concordato per ragioni di sicurezza. Nell’aria avvertivo una certa attesa, ma lui non mostrava alcun segno di tensione, era sereno e deciso allo stesso tempo». Ilardo è fortemente intenzionato a lasciarsi alle spalle la sua precedente vita da mafioso e lo manifesta apertamente a Michele Riccio. «Oggi colonnello, se ho la fortuna di avere finalmente vicino la mia famiglia e un futuro che non saprà più di mafia lo devo anche a voi». La soddisfazione di Riccio è pari alla sua forte preoccupazione per ciò che comporterà la sua collaborazione.

Il tradimento
Il ricordo di quell'incontro alla Capitale brucia ancora nelle parole del colonnello. «Una volta a Roma, Ilardo puntuale mi raggiungeva dove già lo attendevo con ansia e dopo aver consumato insieme un veloce toast, con la mia macchina raggiungevamo il ROS ed andavamo ad occupare una saletta nella palazzina di comando accanto alla sala riunioni, che a momenti ci avrebbe visto incontrare i Magistrati Siciliani. Il frastuono di un elicottero che si fermava in volo sulla nostra verticale ci segnalava l’arrivo dei magistrati quando nel mentre vedevo passare davanti all’ufficio il Col. Mori, era un tutt’uno chiamarlo e presentargli Ilardo». In quel preciso istante l'infiltrato “Oriente” lancia una sfida al suo destino. «Nella scena di un film che mai dimenticherò – racconta Riccio mentre rivede quelle immagini davanti a sé – Ilardo, senza salutare il Superiore (Mori, nda), gli andava deciso incontro e sovrastandolo con la sua figura che mi sembrava ancora più imponente, con parole che risuonavano chiare e secche come schiocchi di frusta, gli diceva: “Molti attentati che sono stati addebitati esclusivamente a Cosa Nostra, sono stati commissionati dallo Stato….”. Per un attimo rimanevamo tutti e tre fermi e in silenzio, poi vedevo il col. Mori, senza dire una parola, veloce come il lampo, senza alzare gli occhi da terra voltarsi improvvisamente ed altrettanto velocemente lasciare la stanza». Riccio è profondamente turbato dal verificarsi di quella situazione, ma non ha il tempo di replicare. «Frastornato dall’avvenimento – spiega il colonnello – con un freddo sudore che sentivo scendere lungo la schiena quando stavo per articolare una domanda, l’entrare di un carabiniere con la richiesta di trasferirci immediatamente nella stanza attigua dove ci attendevano i magistrati siciliani rimandava ogni mia parola». E nella scena successiva è lo stesso Ilardo a indicare la “direzione” della sua intenzione di collaborare. «Nella prosecuzione di quel film che stava già cambiando a mia insaputa la mia vita e quella della mia famiglia – continua Riccio –, dopo aver chiuso la porta alle nostre spalle, vedevo Ilardo alzarsi con molta calma dalla sedia già collocata di fronte ai magistrati Dr. Caselli e Principato della Procura di Palermo e il Dr. Tinebra della Procura di Caltanissetta e con altrettanta calma riposizionare la sedia di fronte al Dr. Caselli e dopo essersi seduto con decisione e chiarezza dire: “Mi chiamo Ilardo Luigi, sono nato a Catania il 13 marzo 1951, sono il Vice rappresentante Provinciale della Famiglia di Caltanissetta e ricopro anche l’incarico di Capo Provinciale, in quanto Vaccaro Domenico è attualmente detenuto. Dr. Caselli, ho completa ed incondizionata fiducia nella sua persona, nel suo ufficio e nel col. Riccio ed ho deciso di collaborare con la Giustizia.”». La partita è appena iniziata. Dopo essersi qualificato come esponente di livello di Cosa Nostra Ilardo riferisce di aver avuto un incontro con Provenzano e di averlo segnalato al col. Riccio. Nella saletta predisposta ai colloqui investigativi l'atmosfera è pesante. «La crescente elettricità che coglievo nell’aria umida e spessa di quella sera di maggio – ricorda Michele Riccio – e la buia espressione del viso del Dr. Tinebra mi impedivano, per quanto mi sforzassi, di seguire quel racconto, vicenda di cui coglievo solo i contorni perché già mi era stata raccontata in parte». «Stavo ancora tentando di recuperare i miei pensieri e di concentrarmi su quello che sapevo stava per raccontare Ilardo circa quel contesto deviato di appartenenti alle istituzioni ed ai servizi segreti con i loro legami con la massoneria, la destra eversiva e la criminalità organizzata, che era stato l’avvio dei nostri rapporti, per poi risalire ai mandanti delle stragi del ’93 e del ’94, quando venivo nuovamente scosso. Vedevo alzarsi di scatto il Dr. Tinebra e con quella espressione contrariata sul viso interrompeva l’esposizione di Ilardo e rimandava l’incontro di una decina di giorni  quando si sarebbe formalmente decretato l’ingresso di Ilardo nel programma di protezione». Riccio è sconcertato, ma non può far altro che prendere atto di quella decisione. Nel frattempo Ilardo spiega ai magistrati che nei prossimi giorni avrebbe risolto i suoi problemi di famiglia (già sapeva che le sue figlie non avrebbero condiviso la sua scelta di collaborare con la Giustizia), e avrebbe trovato anche il momento più opportuno per affrontare lo stesso discorso con sua moglie. Ma soprattutto avrebbe verificato definitivamente se in quei giorni sarebbe stato possibile ottenere un secondo incontro con Provenzano. Subito dopo Riccio accompagna Luigi Ilardo in infermeria per fare una iniezione al fine di calmare una fortissima emicrania che lo aveva colto, dovuta probabilmente allo stress di quell'incontro. Mentre Ilardo è in infermeria Giancarlo Caselli e Teresa Principato chiedono a Riccio di registrare su audiocassette i temi principali delle dichiarazioni che avrebbe poi reso ufficialmente il collaboratore, così da avere un primo sommario quadro del lavoro che andava fatto. «Salutati i due Procuratori – racconta Michele Riccio – uscivo per raggiungere Ilardo e vedendo il gen. Subranni insieme al dr. Tinebra, salutavo i due e mi avvicinavo al Generale rappresentando che il giorno seguente sarei partito per la Sicilia per raggiungere il collaboratore e registrare anche le sue dichiarazioni come mi era stato chiesto, al che il Comandante mi diceva che ciò non era necessario. Raggiunto Ilardo, nel concordare dove rivederci l’indomani sera in Catania, parlavamo un po’ e dopo di che lo facevo accompagnare all’aeroporto di Roma».

Una morte annunciata
Il mattino dopo Riccio parte per Catania. Poco dopo essere arrivato si incontra velocemente con Ilardo, il confidente è tranquillo. Solamente due giorni dopo si incontrano per registrare. «Nel pomeriggio di domenica (5 maggio 1996, nda) – prosegue il suo racconto il colonnello Riccio – riuscimmo a vederci un po' più a lungo e fare una prima registrazione. Andammo come altre volte in un'anonima stradina di campagna, ben lontana da occhi indiscreti, seduti in macchina con il registratore posto nel mezzo». «Ilardo, nel ripercorrere i primi tempi della sua esperienza in Cosa Nostra, ancora una volta mi sottolineò l’importanza di quel periodo. Era indispensabile evidenziare ogni aspetto e collusione, specie con le istituzioni, perché questa era la parte più perversa e pericolosa, quella che ancora oggi trattava con Cosa Nostra per continuare ad essere indispensabile, affermare il suo potere e trasformarsi. Non bisognava assolutamente sottovalutare quel pericolo, altrimenti “il passato ci avrebbe sepolto”». Alle domande di Riccio per conoscere i tanti rapporti che avevano interessato Cosa Nostra ed i Servizi segreti, Ilardo si lascia sfuggire che conosceva l’esistenza di un personaggio autorevole su Palermo che «aveva anche compiti di coordinamento tra le forze di polizia», ma il confidente, come riporta Riccio, «non volle più aggiungere altro e rimandò ogni approfondimento alla sua collaborazione ufficiale». «Ilardo mi chiese di aver pazienza – rammenta ancora il colonnello – e che non avrebbe tradito le mie attese, avrebbe riferito le sue conoscenze in merito ai mandanti occulti di quei delitti chiamati eccellenti e dei vari attentati stragisti, ma avrebbe ancora parlato di altri delitti di cui era certo vi fossero, anche in quelli, dei mandanti occulti, ciò anche per le riservate confidenze fattegli dal cugino Piddu Madonia». Nei giorni successivi si susseguono altri appuntamenti e altre registrazioni. «In questo altalenarsi d’incontri arrivammo alla mattina del 10 maggio ’96 – il ricordo di Riccio assume sempre di più i contorni di una spy-story – anche questa volta fummo ospiti di una trazzera di una sperduta campagna, dove ci trattenemmo fino a tardi per completare quel generico quadro delle sue prime esperienze in Cosa Nostra». «Volutamente come le altre volte si sorvolò sui temi più delicati, anche perché, come gli avevo comunicato, il prossimo incontro lo avremmo avuto il martedì entrante, 14 maggio, in Roma per ufficializzare il suo ingresso nel programma di protezione. In quella occasione avrebbe nuovamente incontrato i magistrati siciliani ed io avrei immediatamente organizzato il trasferimento di quanti dei suoi familiari avrebbero accettato di raggiungerlo e seguirlo in quel passo». Terminato l'incontro  i due si salutano dandosi appuntamento il lunedì successivo nella Capitale. All'aeroporto di Catania il colonnello si vede con un suo sottoposto di Caltanissetta visibilmente teso. Il collega fa presente a Riccio che dagli uffici della Procura di Caltanissetta è uscita la voce della collaborazione di Luigi Ilardo con la Giustizia. L'ufficiale rimane esterrefatto per come quell’informazione totalmente riservata potesse circolare così liberamente. Immediatamente Michele Riccio telefona a Mario Mori e Mauro Obinu per rappresentare loro il proprio disappunto e precisando che al prossimo incontro con i magistrati avrebbe chiesto spiegazioni per quanto era avvenuto. Subito dopo prova a telefonare a Ilardo, ma il cellulare è staccato. Con l'animo in apprensione Riccio prende l'aereo e torna a casa. Una volta arrivato trova sua moglie con le lacrime agli occhi che fissa impietrita una pagina del televideo e che gli dice senza voltarsi: “A Catania hanno ucciso Luigi”.

La rabbia e il riscatto
«Quelle parole mi tolsero per un attimo il respiro – ricorda con identico dolore il colonnello dei carabinieri – e sentii una mano invisibile stringere violentemente il mio stomaco. Nella assurda speranza di leggere un’altra notizia guardai quella pagina di televideo, che mia moglie, pallida in volto, ancora fissava». Due sicari a bordo di una motocicletta avevano affiancato all’improvviso Ilardo mentre stava varcando il portone della sua abitazione di Catania; senza scendere dalla moto avevano estratto e puntato contro di lui le pistole esplodendo più colpi. Ilardo, nella sorpresa e nella rapidità dell’azione, non aveva avuto il tempo né di fuggire, né di trovare un riparo ed era caduto a terra, colpito a morte. Dopo un po’ Riccio telefona al col. Mori che era già stato tempestivamente informato della morte di Ilardo ed al suo silenzio gli comunica che l’indomani mattina lo avrebbe raggiunto in ufficio a Roma. «Quando giunsi a Roma quella mattina di sabato 11 maggio 1996 – racconta l'ufficiale in un lungo flashback – entrando nel comando del ROS la prima persona che incontrai fu il generale Subranni, comandante, allora, della Divisione Polidoro dalla quale dipendeva anche quella struttura investigativa. Appena mi vide acuì lo sguardo, con un sottile sorriso che gli attraversava il volto e la voce più roca del solito mi accolse dicendo: “Eh... eh... ti hanno ammazzato il confidente…”, aggiungendo poi: “Faresti bene a non scendere più in Sicilia”». «Per un attimo fui sul punto di rispondere duramente e dire quanto pensavo di lui e di quanti gli erano solitamente intorno – rammenta Riccio – ma con sforzo riuscii a trattenermi. Era più importante procedere come avevo già deciso di fare, mettere per iscritto tutta l’indagine». «Dopo aver oltrepassato il generale Subranni, entrai nell’ufficio del colonnello Mori e questi mi venne incontro, esitando, quasi non sapendo cosa dire. Nel momento in cui senza preamboli e giri di parole gli dissi che ero certo che la morte di Ilardo era dovuta alla necessità di impedirgli di collaborare ufficialmente con la Giustizia in quanto temevano gli effetti delle sue dichiarazioni, questi senza commenti rispose che anche quello era il suo convincimento». Il lunedì mattina Michele Riccio ritorna al comando ROS, con il suo superiore concorda che sarebbe ritornato in Sicilia il tempo necessario per redigere il rapporto e far trascrivere le cassette con le dichiarazioni registrate di Ilardo da consegnare poi alle varie Autorità Giudiziarie. «Con l’aiuto del mio collega del ROS nisseno mi misi subito al lavoro, a scrivere quel rapporto (che verrà denominato “Grande Oriente”, nda). Rileggere le relazioni, le agende di lavoro ed ascoltare le varie registrazioni non fu un lavoro semplice. Tanta era la rabbia sorda ed impotente che mi prendeva nel constatare quanto si era perso e quanto ancora, era evidente, si sarebbe poi potuto conseguire che solo la volontà di mantenere fede a quell’impegno e fiducia che Ilardo ed i magistrati di Palermo e Catania avevano riposto nei miei confronti mi faceva andare avanti in quell’amaro compito». Anni dopo quel rapporto diventa fonte di scontri e polemiche confluite nel procedimento penale contro Mori e Obinu. Il sapore amaro della sconfitta che avvolge i ricordi del colonnello Riccio viene assorbito dalla consapevolezza di aver fatto comunque il proprio dovere. «Andai avanti nel mio lavoro – conclude risoluto Michele Riccio – e non prestai alcuna attenzione alle puntuali richieste che mi pervennero dai soliti colleghi di omettere dati investigativi. Né mi preoccupai più di tanto nel sentire chi temeva pericoli per la mia famiglia e lo stesso non mi preoccupai dopo aver consegnato il rapporto, quando un altro collega mi confidò che avevo commesso un grande errore».

Verità e compromessi
Quasi 13 anni dopo l'omicidio di Ilardo il colonnello Riccio viene interrogato nel processo contro Mori e Obinu. Nelle udienze del 16 e 17 dicembre 2008, così come in quella del 9 gennaio 2009 Michele Riccio ricostruisce punto per punto le confidenze di Luigi Ilardo. Alcune delle quali scatenano aspre polemiche e immediate smentite da parte dei relativi imputati che negano con forza ogni riferimento alla propria persona. «Provenzano aveva stabilito un contatto con un esponente dell’entourage di Berlusconi di Forza Italia – spiega Riccio – per cui c’era l’indirizzo di votare, da lì a poco avrebbero dovuto votare tutti Forza Italia». Ma è quando affronta la questione delle “omissioni” che la testimonianza di Riccio supera il livello di guardia. «Avevo avuto la direttiva da parte del colonnello Mori di omettere (dal rapporto “Grande Oriente”, nda) tutti i nomi dei politici, e di quel personaggio che rappresentava l’entourage di Berlusconi… sarebbero arrivati allo scontro...». Lo stesso Riccio ribadisce ai giudici che l'uomo dell'entourage in questione era di fatto Marcello Dell'Utri, definito «un personaggio importantissimo, vicino ai nostri ambienti» e che ciò rappresentava per lui «un pericolo», specificando infine che Berlusconi costituiva «l’area di riferimento nostra dell’Arma». Altra benzina sul fuoco. Il processo nei confronti del generale Mori e del colonnello Obinu è attualmente in corso a Palermo. La speranza che si possa giungere a un pezzo di verità si scontra con il timore che una ennesima “ragione di Stato” possa chiudere definitivamente l'intera vicenda. Prendo in mano gli scritti di un servitore dello Stato e vi trovo quella lungimiranza che appartiene ai “giusti”. «Pensando a quanto accaduto – scrive Riccio nei suoi memoriali – mi sentivo più che mai determinato ad andare avanti seguendo le scelte già fatte, mi ripetevo che la verità non è frutto né di compromessi, né di aggiustamenti, la verità è un diritto del cittadino, forma di controllo nei confronti dei governi ai quali i cittadini avevano affidato parte delle loro libertà, da Montesquieu memoria, per vedere garantiti ed affermati i propri diritti di libertà e di sicurezza sociale».

Tratto da: “Gli ultimi giorni di Paolo Borsellino” (Bongiovanni-Baldo, Aliberti 2010)

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