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gozzo-borsellino-c-barbagalloIntervista al procuratore aggiunto di Caltanissetta Nico Gozzo
di Giorgio Bongiovanni e Lorenzo Baldo
21 marzo 2013

Caltanissetta. Alla luce del nuovo processo per la strage di via D’Amelio, scaturito dall'inchiesta aperta dalla Procura nissena sulle dichiarazioni di Gaspare Spatuzza (inchiesta coordinata dal procuratore capo Sergio Lari, dagli aggiunti Amedeo Bertone e Domenico Gozzo, e dai sostituti Nicolò Marino, Gabriele Paci e Stefano Luciani), abbiamo rivolto alcune domande al pm Nico Gozzo che insieme ai colleghi Paci e Luciani si appresta a sostenere l’accusa in quello che è stato definito il “Borsellino quater”.

Nel processo in abbreviato per la Strage via d’Amelio sono stati condannati Gaspare Spatuzza, Fabio Tranchina  e il falso pentito Salvatore Candura. Cosa ha rappresentato per la procura di Caltanissetta questa sentenza?
Sicuramente una conferma professionale. La nostra impostazione è stata confermata dall’ufficio del giudice delle indagini preliminari. E’ un primo vaglio per due collaboratori come Tranchina e Spatuzza (in realtà per lui è il secondo, dopo la sentenza della Corte di Assise di Firenze). Per la procura è un fatto estremamente importante. E’ stata avallata la nostra nuova ricostruzione dei fatti ripartita dalle “macerie”  lasciate da Vincenzo Scarantino con la sua iniziale versione dell’eccidio di via D’Amelio. Questa sentenza rappresenta il viatico migliore per il processo che inizierà venerdì 22 davanti la Corte di Assise di Caltanissetta.

In questa nuova ricostruzione della strage un posto di rilievo è rappresentato dalle dichiarazioni del collaboratore di giustizia Fabio Tranchina secondo il quale Giuseppe  Graviano avrebbe premuto il telecomando collegato all’autobomba piazzata in via D’Amelio.
Nei primi procedimenti sulla strage di via D’Amelio c’erano già degli elementi che facevano ritenere questo dato, anche se le dichiarazioni di Scarantino non arrivavano fino a questo punto. C’erano però i tabulati telefonici che attestavano come immediatamente dopo l’eccidio di via D’Amelio vi era stato un traffico telefonico “importante” sul telefono in uso a Giuseppe Graviano, un contatto tra quest’ultimo e il mafioso Fifetto Cannella in quanto Graviano era il capo e Cannella vicecapo (sicuramente del gruppo di fuoco). Si trattava di un dato estremamente importante. Di fatto queste due utenze telefoniche erano state interessate precedentemente da una serie di contatti tra cui Giovanbattista Ferrante, Stefano Ganci ed altri. Stiamo parlando di soggetti che erano impegnati in attività di “osservazione” relativamente alla strage. C’era quindi una traccia già documentale. Ma non solo. Nel 2005 la Procura di Caltanissetta aveva raccolto la testimonianza di Ferrante il quale riferiva che la potenza dell’esplosione (non prevista a sufficienza da chi l’aveva procurata) aveva rischiato di far cadere il muro che separava il giardino sulla persona che stava nascosta dietro. Successivamente Tranchina ci ha spiegato (senza sapere nulla delle dichiarazioni di Ferrante) che la persona nascosta dietro il muro era Giuseppe Graviano. Era stato lo stesso Graviano a dire a Tranchina che, dal momento che non avevano trovato un posto da dove “osservare”, si sarebbe “accomodato” nel giardino.

E’ sicuramente un dato importante quello che riguarda Giuseppe Graviano.
Secondo le nostre ricostruzioni Giuseppe Graviano si sarebbe effettivamente trovato in quella via. C’è un altro elemento che fa ritenere questo: via D’Amelio ha una parallela dove c’era una banca. Il giorno successivo alla strage davanti alla banca sono state rilevate una serie di frenate ed anche dei passi che andavano verso il giardino. Da parte nostra abbiamo ritenuto che i mafiosi siano arrivati da questa traversa (è decisamente facile arrivarci, basta saltare un muretto), quando i carabinieri sono andati a visionare il nastro delle riprese video si sono accorti che non c’era il supporto magnetico. Una serie di elementi ci ha fatto ritenere che un’altra persona – che potrebbe essere il Cannella – fosse posizionato nel palazzo dei Graziano (situato di fronte a via D’Amelio, ndr), per vedere quello che accadeva. Su quel palazzo in costruzione abbiamo operato diversi accertamenti. A distanza di anni sono uscite fuori delle fotografie realizzate dalla polizia scientifica che non erano state depositate a suo tempo. In quelle immagini si vede con estrema chiarezza come, nonostante il palazzo fosse in costruzione, ci fossero già delle piante all’ultimo piano che precludevano la vista dal di fuori, permettendo invece a chi si trovava dall’interno di vedere bene sull’ingresso di via D’Amelio. Su quella terrazza c’erano anche delle cicche di sigarette che a suo tempo non furono repertate. Oltre a tutto questo ci fu una telefonata arrivata al 113 (purtroppo non si è riusciti ad individuare chi la fece) nella quale una signora disse di avere visto dei “movimenti” poco prima dell’esplosione dell’autobomba proprio all’ultimo piano di questo palazzo.  

Nelle oltre mille pagine della memoria che avete depositato e che sono confluite nella richiesta di revisione del processo per la strage di via D’Amelio si evince che nella ricerca della verità vi siete scontrati con reticenze, omissioni e tentativi di inquinamento delle prove. A nostro avviso, tra queste, vi sono le incongruenze tra le dichiarazioni di Pino Arlacchi e Gianni De Gennaro. E’ evidente che uno dei due mente in quanto le loro affermazioni sono all’antitesi. Le dichiarazioni di Arlacchi sono comunque molto interessanti nella ricerca della verità sulla trattativa tra Stato e mafia.
Sono interessanti quelle di Arlacchi, anche se sono un po’ in contrasto con le risultanze che abbiamo agli atti in quanto sembrano far risalire il tutto ad una sorta di “complotto” tra andreottiani e carabinieri. Secondo le nostre investigazioni, invece, così come diceva il collaboratore Cancemi, tutto questo sarebbe avvenuto per “cambiare” e non per “mantenere” lo status quo. E’ quindi una prospettiva del tutto diversa quella di Arlacchi, basata su elementi che abbiamo comunque voluto sottoporre al vaglio.

Ad ogni modo restano agli atti i tanti “non ricordo” di De Gennaro su fatti e circostanze da lui stesso vissuti, c’è forse una ragione di Stato?
Non ho elementi per dire che ci sia una ragione di Stato.

Certo è che nella nota Dia firmata da De Gennaro nel 1993 c’era un riferimento alla trattativa.
Sicuramente, e comunque in maniera ancora più esplicita il riferimento alla trattativa c’era nella nota dello Sco, sempre del ’93.

Domani si apre il processo “Borsellino quater” che vede alla sbarra mafiosi e falsi collaboratori tra cui lo stesso Vincenzo Scarantino, coinvolto in un monumentale depistaggio. E’ proprio quel depistaggio sul quale si deve fare ancora luce.
Paradossalmente ritengo estremamente riduttivo il discorso del depistaggio unicamente su via D’Amelio. La questione va contestualizzata a 360°. La domanda è: c’è solo via D’Amelio, ci sono stati altri depistaggi avvenuti in quegli anni? C’è un filo che li lega tra loro?  

Resta il dato oggettivo che Cosa Nostra in questa strage non ha agito da sola, con tutte le conseguenze che la cosa comporta.
Ci sono plurimi elementi che fanno ritenere che Cosa Nostra non fosse da sola, ma fino adesso non abbiamo mai raggiunto la prova di una presenza “esterna” che possa reggere un vaglio dibattimentale. Per quanto riguarda la persona presente nel garage di via Villasevaglios (dove la Fiat 126 venne imbottita di esplosivo), siamo sicuri che si trattasse di un soggetto estraneo a Cosa Nostra. Sul punto specifico Spatuzza è stato sentito più di una volta e ha ribadito con assoluta certezza che non si trattava di un esponente di Cosa Nostra, né tanto meno del proprietario del garage.

Nella lista di testi depositata all'interno del nuovo processo per la strage di via D'Amelio, il legale di Salvatore Borsellino, Fabio Repici, ha inserito anche il nome del Presidente della Repubblica. Se ammesso dai giudici, il Capo di Stato dovrà deporre in tribunale. Si deve arrivare fino al presidente della Repubblica per avere la verità su via D’Amelio?
Ho sempre ritenuto che la strage di via D’Amelio sia stata un momento “rilevante” della storia del nostro Paese. E’ una strage “diversa” tra le stragi del ’92 e del ’93, periodo quest’ultimo che è già un fatto “unico”, pur in un Paese la cui storia è stata intessuta di stragi. La quantità e la qualità - dal punto di vista criminale - delle stragi che sono state perpetrate tra il ’92 e il ’93 non ha eguali in Italia, né tanto meno nel resto del mondo (Colombia compresa). Oltre alla ventina di morti di questi eccidi abbiamo avuto un’autostrada sventrata, palazzi distrutti, opere d’arte danneggiate, per non parlare del timore di un “colpo di Stato” descritto dall’allora presidente del Consiglio, Ciampi,  nel momento in cui saltò la corrente a Palazzo Chigi. Sempre di più dobbiamo cercare la verità, a tutti i livelli, così come ha fatto la procura di Palermo e quella di Firenze, lo dobbiamo a tutte le vittime innocenti della mafia che ci sono state. Ma soprattutto lo dobbiamo alla verità. Sul falso non si può costruire nulla di duraturo, solo sulla verità si può andare avanti. Credo che tutti concordino che la falsità delle vecchie indagini su via D’Amelio sia un fardello troppo grosso per qualsiasi democrazia. Per quanto riguarda la citazione da parte delle difese di Napolitano tra i testimoni del processo, non vi è nulla di strano nel fatto che si voglia porre domande anche al presidente della Repubblica. Non so, però, se sia il presidente della Repubblica “giusto” (all’epoca dei fatti il capo di Stato era Oscar Luigi Scalfaro, ndr).

Torniamo alla riflessione iniziale. Con il recente dispositivo di rinvio a giudizio firmato da Piergiorgio Morosini la questione della trattativa Stato-mafia è confluita in un processo dedicato appositamente al patto scellerato tra uomini delle istituzioni e Cosa Nostra. A suo tempo l’indagine denominata “Sistemi Criminali” condotta da Roberto Scarpinato insieme a lei, ad Antonio Ingroia e a Guido Lo Forte aveva di fatto trattato gli scenari extra Cosa Nostra che ruotavano attorno alle stragi del ’92 e del ’93.
Ho letto il bel provvedimento di Morosini che ritengo alquanto interessante. Il procedimento “Sistema criminale” nasce da un’intuizione di Roberto Scarpinato e da una nota molto interessante della Dia, depositata da Gianni De Gennaro, relativa al  dopo stragi, in cui si prefiguravano quelli che erano i possibili scenari che avevano condotto le stragi stesse. Già allora si supponeva che le stragi non avessero soltanto una causale “endogena” all’interno di Cosa Nostra, bensì anche “esogena” a fronte di qualche “apporto esterno”, o comunque “interesse esterno”. Mi sembra quindi che il dott. Morosini abbia giustamente valorizzato queste indagini, ponendo al centro dell’inchiesta sulla trattativa “dove” erano “collocati” i soggetti oggi rinviati a giudizio. E’ evidente che ci sono delle analogie tra queste due indagini, al di là del fatto che ci siano o meno i riscontri.

E’ un dato di fatto che la realizzazione della strage di via D’Amelio subisce una forte accelerazione.
La strage di via D’Amelio era stata deliberata nel 1991, la trattativa di cui stiamo parlando non era ancora iniziata (a mio avviso ci sono sempre state più trattative). In questo eccidio c’è stata certamente un’accelerazione improvvisa che ha portato alla sua realizzazione, la procura nissena ha dato atto di ciò, allo stesso modo diversi collaboratori di giustizia come Cancemi, Brusca, Ferrante o lo stesso Spatuzza lo hanno confermato. Anche l’utilizzazione dell’esplosivo ci fa capire che questa è una strage particolare. Mentre tutte le altre stragi sono avvinte in maniera assolutamente chiara, a partire dall’utilizzazione dello stesso tipo di esplosivo proveniente dalle bombe di profondità, per via D’Amelio non abbiamo assolutamente la stessa certezza visto l’utilizzo del Semtex.

C’è stata quindi un’accelerazione della trattativa?
Sicuramente c’è stata l’accelerazione della trattativa. Ci saranno state evidentemente anche altre motivazioni, ma secondo le nostre risultanze l’accelerazione nella strage è avvenuta anche per la trattativa. Questo dato è stato messo all’interno del procedimento proprio perché riteniamo che la trattativa sia intervenuta su una parte della deliberazione della strage, e cioè sulla tempistica. Del resto, la strage era già stata deliberata nel dicembre 1991, tanto che abbiamo ottenuto il rinvio a giudizio anche per Salvatore Madonia che subito dopo viene arrestato. Dunque, proprio partendo dal deliberato della Commissione provinciale di Palermo del dicembre del ’91, e delle riunioni della Commissione regionale dello stesso periodo, Riina decide, quindi, i tempi e le modalità della strage. Le modalità vengono decise nel marzo del 1992, quando si stabilisce che da allora in poi tutte le stragi sarebbero dovute necessariamente avvenire con modalità terroristico-mafiose; mentre i tempi vengono decisi a metà giugno del ’92.  

Ma secondo lei la latitanza di Matteo Messina Denaro è frutto di questa trattativa?
Non sono tra coloro che ritengono che vi sia un’unica trattativa, ritengo invece che le trattative siano storicamente plurime, ben “ancorate” e che intervengano con soggetti istituzionali in quel momento al potere, o che sperano di arrivarci. Oggi Cosa Nostra non ha più Riina, e al di là di Matteo Messina Denaro, ho qualche difficoltà a intravedere quale altro soggetto che possa avere l’autorevolezza e il rilievo tale da gestire una trattativa eventuale e la stessa Cosa Nostra. Voglio sperare che lo Stato, in tutte le sue articolazioni, sia abbastanza “vaccinato” e convinto della lotta antimafia da non cadere in un problema del genere.

Resta il fatto che la latitanza di Messina Denaro ha raggiunto nel 2013 la quota di 20 anni.
Ricordo che il 15 gennaio 1993, dopo la cattura di Riina, incontrai il dott. Morvillo e gli chiesi come si era riusciti a catturarlo, il collega mi rispose semplicemente: “lo hanno voluto prendere”. Una frase emblematica. Per mettere fine alle latitanze ci vuole la volontà dello Stato. Sono sicuro che nel caso di Messina Denaro questa volontà ci sia. Non dimentichiamoci, però, che Messina Denaro è un soggetto del tutto particolare con un’immagine “mistica”, quasi “messianica” all’interno di Cosa Nostra trapanese, che lo porta ad essere visto come il capo naturale dell’organizzazione. E’ molto difficile che una Cosa Nostra molto chiusa come quella trapanese  possa portare a quello che è accaduto con la cattura di Riina

Borsellino quater: la lista dei testimoni chiamati dalla procura di Caltanissetta
Nel procedimento penale “Borsellino quater” tra i testi citati dalla procura di Caltanissetta ci sono: Gaspare Mutolo, Antonino Giuffrè, Gioacchino Schembri, Leonardo Messina, Mario Santo Di Matteo, Giovanni Brusca, Massimo Ciancimino, Giovanni Ciancimino, Mario Mori, Giuseppe De Donno, Antonio Manganelli (deceduto il 20 marzo 2013), Francesco Gratteri, Gianni De Gennaro, Carmelo Canale, Domenico Di Petrillo, Luigi Rossi, Vittorio Aliquò, Giuseppe Fici, Vittorio Teresi, Antonio Ingroia, Ignazio De Francisci, Claudio Martelli, Vincenzo Scotti, Giuliano Amato, Liliana Ferraro, Fernanda Contri, Pietro Folena, Luciano Violante, Pino Arlacchi, Alessandra Camassa, Massimo Russo, Agnese Piraino Leto, Gioacchino Genchi, Raul Passaretti, Nicola Mancino, Virginio Rognoni, Vincenzo Scotti, Niccolò Amato, Eduardo Fazzioli, Paolo Falco, Adalberto Capriotti, Giovanni Conso, Nicola Cristella, Andrea Calabria, Carlo Azelio Ciampi, Gaetano Gifuni, Franco Ionta e infine il vertice dello Sco del ’93.

Foto © Giorgio Barbagallo

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