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lodato-saverio-bigdi Giorgio Bongiovanni - 26 giugno 2012
Dottor Saverio Lodato, vent'anni dopo l’ultimo discorso pubblico di Paolo Borsellino, tenuto a ridosso del trigesimo della morte dell’amico Giovanni Falcone, sabato si è svolta, nello stesso luogo, l'iniziativa “Senza Tempo”, che ha visto una grandissima partecipazione da parte della società civile. Cosa è successo?
“Sabato, a Palermo, abbiamo avuto la dimostrazione del fatto che vent'anni dopo le stragi di Capaci e via d'Amelio esiste ancora una Società Civile, non piegata, non rassegnata e  che continua a pretendere verità e giustizia su quelle pagine nere che hanno segnato la fine della storia della prima repubblica. Vent'anni dopo non era scontato che accadesse. Ma, purtroppo, sta anche emergendo, con raggelante semplicità ed evidenza, che le Istituzioni di questo Paese devono fare ancora molta strada per apparire agli occhi di tutti gli italiani come Istituzioni Civili, altrettanto interessate all'accertamento della verità come dimostra di essere la Società Civile. La cesura che si manifesta fra Società Civile e Istituzioni è impressionante. Che nessuno si offenda se dico che, sintetizzando, in Italia si potrebbe parlare di una Società Civile e di Istituzioni, invece, al limite dell’inciviltà”.

Da tanto tempo ormai lei si occupa di mafia. Il suo giudizio così duro ha a che vedere con l’indagine sulla trattativa?
“Io non mi riferisco solo alle indagini sulla trattativa. Mi riferisco, più in generale, al fatto che ogni qual volta  la verità – e qui si parla solo di mafia, perché il discorso si farebbe sterminato - sembra raggiungibile, palpabile una volta per tutte, puntualmente esplode un grande 'affaire', istituzionale e politico, che ha lo scopo non dichiarato, ma sin troppo scoperto, di  bloccare l'attività dei magistrati, buttandola in caciara. Ne seppero qualcosa, quando erano vivi, gli stessi Falcone e Borsellino. Abbiamo già dimenticato? Loro, per primi, furono le vittime di quelle ricorrenti campagne di denigrazione, delegittimazione ed isolamento che si risolvevano in altrettanti 'casi di Stato'. Abbiamo dimenticato gli anni in cui il palazzo di giustizia di Palermo, dove operavano proprio Falcone e Borsellino, era universalmente definito il 'palazzo dei veleni'? Abbiamo dimenticato quel CSM che mandò in panchina Falcone, preferendogli Antonino Meli alla guida dell’ufficio istruzione di Palermo? Abbiamo dimenticato Paolo Borsellino al quale erano rimasti solo i giornali per lanciare un poderoso S.O.S. sulla lotta alla mafia? Abbiamo dimenticato il Dalla Chiesa mandato allo sbaraglio, in Sicilia, privo di poteri effettivi in un compito che si annunciava titanico? Abbiamo dimenticato gli alti commissari per la lotta alla mafia che a Roma venivano messi sull’aereo con la consegna di rendere la vita impossibile ai magistrati antimafia di Palermo? O abbiamo dimenticato l’emerito capo dello Stato,  Cossiga,  che di fronte al cadavere ancora caldo di Rosario Livatino espresse il suo giudizio sprezzante sui 'giudici ragazzini'? Credo che possa bastare. Il fatto è che a  Roma non hanno mai ben capito cosa sia davvero la lotta alla mafia. E che in molti, poi, abbiano interesse a non capirlo, non aiuta le cose. Verrebbe da dire: 'Niente di nuovo sotto il sole'”

In base alle intercettazioni che si leggono,  il primo intervento di Napolitano avviene per tramite del proprio consigliere giudiziario D'Ambrosio per spingere la procura nazionale antimafia a coordinare le altre procure. Il secondo avviene direttamente sulla richiesta d'aiuto del privato cittadino Mancino. Lei come giudica questo intervento da parte del presidente della Repubblica, o chi per lui, per cercare di intervenire in qualche maniera sulle indagini sulla trattativa?
“Guardi. C’è poco da sottilizzare o da distinguere. Anche una sola telefonata sarebbe stata di troppo.  In un paese moderno che cerca ancora la verità su stragi in cui persero la vita tanti rappresentanti delle Istituzioni, loro sì Civilissimi Funzionari, ci saremmo aspettati che dal Colle venisse un monito rivolto a chi sta indagando, tanto laconico quanto solenne: 'Andate avanti senza indugi. Non guardate in faccia nessuno'.  In altre parole, ciò che chiede, ormai da diversi anni, totalmente inascoltato, Salvatore Borsellino, il fratello di Paolo. Sta accadendo qualcos’altro. Tutte quelle telefonate, quel lavorio felpato e dietro le quinte, ci dice che si è trattato ancora una volta di  troncare, sopire, anestetizzare l'attività dei magistrati. In altre parole di:  'trattare' sulla 'trattativa'. E’ questo, purtroppo,  il tenore di quelle telefonate. O, almeno, si è sperato che fosse possibile, appunto, 'trattare' sulla 'trattativa'.
E gli alti vertici farebbero bene a mettere da parte l’argomento della 'lesa maestà':  un indagato, si chiamasse anche Nicola Mancino, non può rivolgere a indirizzi tanto alti la sua richiesta che venga evitato un faccia a faccia processuale che  non gli è gradito. E, dall’altro capo del filo, un consigliere del capo dello Stato non può star lì a dire la sua, almanaccare ad alta voce sulla richiesta, ciurlare nel manico di fronte a una richiesta, a priori, irricevibile.
Prendo atto  che il procuratore Antonio Ingroia ha correttamente dichiarato di non aver registrato – né lui né i suoi colleghi- da parte del Presidente della Repubblica,  alcuna “moral suasion” al fine di un rallentamento delle indagini. Questo ci tranquillizza.  Resta il fatto che di quella voce chiara e netta, di cui parlavo prima, ci sarebbe bisogno a maggior ragione ora. Non è mai troppo tardi. Non dimentichiamo infatti che i magistrati che indagano stanno cercando di individuare uomini dello Stato che condussero la 'trattativa' con una mafia stragista e persino i mandanti esterni di quelle stragi che, certamente, non furono di sola mafia. Non stanno cercando ladri di galline. Non meriterebbero dunque un applauso di incoraggiamento e il rispetto di tutti gli italiani? Credo di sì”.

Nei grandi quotidiani nazionali, accanto alla parola trattativa si scrive sempre più spesso la parola presunta. Secondo lei questa ricerca di dialogo, se non di più, tra Stato e mafia c'è stato o no?
“Che la grande trattativa ci sia stata ormai è un dato lapalissiano. Lo hanno capito tutti. Lo sanno tutti. A prova di questa consapevolezza,  c'è il fatto che sono scesi in campo, proprio in questi giorni, quelli che io chiamo i fini dicitori del diritto. Sono loro ad interrogarsi, con aria perplessa: 'Ammettendo che questa trattativa ci sia stata,  cosa c'è di male se uno stato tratta con il suo nemico?' Quando in Italia entrano in campo le truppe dei fini dicitori del diritto, vuol dire che il fatto c’é. Poi ci sono giornali e televisioni che fanno la lotta alla mafia in alcuni mesi dell’anno e in altri no. Ma questa è un’altra storia”.

Provocatoriamente: cosa c'è di male nel trattare con la mafia?
“Beh dipende dai punti di vista. Intanto ricordiamo che mentre la trattativa era in corso, in Italia le stragi continuavano. Quindi chiunque abbia condotto questa trattativa, ammesso che qualcuno l'abbia portata avanti davvero con l'intento nobile di bloccare il nemico, dovrebbe ammettere che andò incontro ad una clamorosa disfatta. Almeno abbia il coraggio civile, venti anni dopo, di ammetterlo. Le stragi di Milano, Firenze e Roma sono del 1993, e da un anno ormai si 'trattava'. Ora  gli esperti di 'realpolitik trattativista' ci spiegano che si fece questa scelta per frenare il nemico corleonese. Evidentemente, il nemico dello stato interpretava diversamente quella trattativa: trattando, gli veniva l’appetito.  Poi c'è una considerazione più generale. I fini dicitori del diritto dimenticano di ricordare che, quasi quarant’anni fa, venne mandato a morte Aldo Moro, presidente della Democrazia Cristiana, con l'argomento inflessibile che lo Stato italiano  non trattava con i brigatisti. Allora Leonardo Sciascia venne mediaticamente crocifisso da giornali e  quasi tutti i partiti dell'epoca, perché si era permesso di dire che lui 'non se la sentiva di stare con i brigatisti ma neanche con questo Stato italiano' così come si era venuto configurando dopo la Liberazione. Perché,  vorrei chiedere ai fini dicitori del diritto, con   le Brigate Rosse non si tratta e con la mafia invece sì?  Trovo curioso avere un codice diverso per ogni stagione”.

Secondo lei come mai, in questi ultimi tempi, intellettuali e professori di diritto come Giovanni Fiandaca o l'ex senatore Giovanni Pellegrino arrivano a spiegare in maniera ambigua la trattativa bollandola come una questione che non rientra nel penale? Perché vengono fatti ora questi discorsi e perché in questo modo?
“Ogni volta che in Italia accade qualcosa ci si chiede perché è accaduta oggi e non ieri o magari dopodomani. Volendo partecipare anche noi a questo sport nazionale direi che gli 'intellettuali' hanno sbagliato i tempi delle loro esternazioni almeno per tre ragioni. La prima. Paolo Borsellino, anche questo ormai è acclarato, muore, tra tante altre cause, proprio per essersi opposto alla trattativa.
Se la nostra cultura giuridica vuole che si tratti con il nemico mafioso, questi 'intellettuali', che all’epoca erano altrettanto impegnati nella lotta alla mafia, avrebbero dovuto trovare il modo di spiegare a Paolo Borsellino che con la mafia si tratta e che lui, mettendosi di traverso, stava sbagliando. Se lo avessero fatto, con ogni probabilità, gli avrebbero salvato la vita. E Paolo Borsellino magari sarebbe qui, un po' più anziano, insieme a noi,  a sorridere di quando, anni addietro, non aveva capito niente dei nostri codici. Secondo ritardo cronologico. Quest’ elaborazione  sull'argomento è un po’ fuori tempo,  visto che la trattativa è ormai sulla bocca di tutti da quasi una decina di anni. Quindi, anche a non voler risalire alla morte di Borsellino, non sarebbero mancate le occasioni per aprire questo dibattito, visto che si sapeva che le Procure stavano indagando sulla trattativa.
Invece, il terzo elemento cronologico sembrerebbe quasi di una tempistica perfetta. E proprio per questo errore non è, dal momento che ci  fornisce la chiave di questa inconsueta macchina del tempo: straordinaria puntualità sta nel fatto che le esternazioni siano avvenute quasi a grappolo, come le ciliegie, una dietro l’altra. Lei ha ricordato il professor Fiandaca e il senatore Pellegrino, ma non dimentichiamo il senatore Emanuele Macaluso, in terza posizione, con metafora sportiva, che ci ha spiegato che lui non ha ancora ben capito cosa sia e a cosa sia servita questa trattativa. Tutti e tre hanno in comune il fatto che hanno parlato all'indomani dell'iscrizione di una dozzina di persone, rappresentanti delle istituzioni e della politica, nel registro degli indagati perché coinvolti a vario titolo nella indagine e con diverse ipotesi di reato. Insomma, vent’anni dopo, gli 'intellettuali' rischiavano quasi di  arrivare fuori tempo massimo”.

Lei, nel suo lavoro di cronista, è stato testimone di diversi processi per mafia e di quelli sulle stragi. E' anche riuscito a rivolgere delle domande a un capomafia come Riina. Che impressione ha avuto, all'epoca, riguardo questi criminali che forse, insieme ai mandanti esterni ed occulti delle stesse stragi, sono gli unici a sapere davvero la verità di quanto accaduto?
“Totò Riina, nel suo italiano difficoltoso e sgangherato, ha sempre insistito nel dire che gli avevano fatto fare da parafulmine'”.

Cosa voleva dire?
“Forse  che in quelle stragi c'era la mano di mafia, come si è sempre detto, ma non solo. Penso che i vertici di Cosa Nostra lo sappiano benissimo, ma non parlano.
Domanda: Perché ci sono voluti oltre 16 anni perché i rappresentanti delle istituzioni iniziassero a ricordare ciò che sapevano sui primi passi della trattativa?
Risposta: In questa storia, questa è forse la grande madre di tutte le domande. Curiosamente la legge italiana concede centottanta giorni ai pentiti di mafia per dire tutto quello che sanno. Invece, tutti quelle persone che, in qualche modo, sono entrate da  protagonisti, comprimari o comparse in questo capitolo nero della trattativa, hanno ritrovato la memoria solo a distanza di sedici anni, ovvero soltanto dopo che il figlio di Ciancimino ha iniziato a parlare aprendo questa falla. E' possibile che uomini politici, rappresentanti delle istituzioni di quei livelli, ricordino certi eventi con 16 anni di ritardo? E' possibile che l'ex senatore Mancino, che è stato ministro degli Interni, oltre che vicepresidente del Csm, continui da dieci anni a sostenere di non ricordare di aver incontrato Paolo Borsellino tra la strage di Capaci e via d'Amelio quando tutti i giornali italiani e le televisioni indicavano ormai Borsellino come l'erede naturale di Giovanni Falcone? Sembra di  essere in presenza di una 'setta delle belle addormentate', che si sono svegliate con sedici anni di ritardo. E con l’ingresso in campo delle truppe dei fini dicitori del diritto, che suonano la cetra, il coro è perfetto”.

In quest'ultimi tempi la sensazione che si ha è quella di una fortissima tensione. E' possibile secondo lei che qualche potere forte, pur di fermare questa inchiesta tanto compromettente, se non la più grave della storia della nostra Repubblica, possa organizzare con quel poco di mafia militare che è rimasta una nuova strage? Che si torni a colpire i magistrati prima che tocchino certi fili che non si vogliono mostrare? Può accadere o questa è fantamafia?
“Non ho strumenti investigativi per rispondere positivamente o negativamente a questa domanda. Mi auguro che non accada. Resta il fatto però che ormai è quasi scientificamente provato che lo Stato italiano è in condizione di fare la guerra alla mafia solo sotto il profilo militare. Non è assolutamente in grado, perché non ha l’intenzione, di recidere le complicità alte che hanno reso la mafia quello che è . Dopo 20 anni dalle stragi, non ci sono più Falcone e Borsellino, ma la mafia è ancora presente. Questo è scandaloso, inaudito, intollerabile. Lo è, presente, da 150 anni ed ha stretto ancora di più i propri rapporti con la politica, si è fatta politica, si è fatta Stato essa stessa. Leonardo Sciascia vide davvero lontano quando scrisse che  'se lo Stato volesse davvero sconfiggere la mafia, dovrebbe decidere di suicidarsi'”.

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