Recensione
Gianni Simoni e Giuliano Turone conoscono bene le carte del finanziere
di Patti. Il primo ha sostenuto l’accusa nel processo d’appello
per l’omicidio Ambrosoli, come si sa commissionato da Sindona,
e ha poi condotto l’inchiesta giudiziaria sulla sua morte per avvelenamento da cianuro nel carcere di Voghera; l’altro ha condotto con Gerardo Colombo l’inchiesta sull’omicidio di quello che poi Corrado Stajano definì un eroe borghese e ha messo per primo le mani sugli elenchi della Loggia massonica P2. Che sono referenze più che sufficienti a garantire una lettura a tutto campo dell’affaire criminal-finanziario più noto degli ultimi quarant’anni: i cui estremi possono considerarsi il plauso andreottiano al “salvatore della lira” (parole pronunciate nel 1973 a New York, mentre ci si dava da fare per salvare le finanze di Sindona) e la comparsa inopinata nel 1986 di quella tazzina di caffè che fece subito pensare a Pisciotta. Quattro anni prima, il 17 giugno, sotto il ponte dei Frati neri, a Londra, era stato trovato il corpo di Roberto Calvi, “suicidato” da mani non certo amiche. Come a voler dire che gli intrecci criminali non camminano mai da soli.
Il libro si apre, significativamente, col racconto del finto rapimento
di se stesso che Sindona inscenò nell’agosto 1979, cinque anni dopo che
la situazione del finanziere aveva toccato il suo punto più critico.
È infatti noto che nella “caduta” di Sindona può considerarsi punto
di “non ritorno” il 27 settembre del 1974, giorno in cui venne disposta
la liquidazione coatta amministrativa della Banca Privata Italiana e
Giorgio Ambrosoli venne nominato commissario liquidatore. Da allora
in poi gli sforzi del finanziere furono tutti concentrati nell’impedire
che il crollo fosse definitivo, e a tale fine non furono lesinati i mezzi.
In difesa del finanziere si mosse la mafia italiana e americana, la Chiesa
cattolica nella sua veste finanziaria (lo IOR di Marcinkus),
la P2 di Licio Gelli che a quell’epoca operava ancora nell’ombra
(i suoi elenchi sarebbero stati scoperti nel 1981), la Democrazia cristiana
che era stata abbondantemente finanziata da Sindona (ma gli aveva anche
fatto grossissimi favori sotto le vesti di finanziamenti tanto privilegiati
quanto ingiustificati), soprattutto nelle persone di Andreotti e anche
di Fanfani. Soprattutto Andreotti si era esposto, e ancora si sarebbe
esposto, nel sostegno al finanziere siciliano, e nella ricostruzione
delle vicende che fanno gli autori, e da cui emerge un’Italia secondo
Corrado Augias anche “peggiore di quella attuale”, appare impressionante
l’ingenuità con cui si comportò quasi sempre lo statista democristiano.
Che ingenuo non è mai stato, come tutti sanno, né poteva esserlo in
quegli anni ormai lontani lui che non mostra di esserlo nei suoi felici
attuali novant’anni. La verità, che poi tutti gli atti processuali hanno
messo in luce e provato al di là di ogni ragionevole dubbio, è che
il “sistema Sindona” aveva costruito una tale ragnatela di
coinvolgimenti e condizionamenti reciproci, e per una ragnatela
così estesa di soggetti (dalla Chiesa cattolica che lucrava
finanziamenti a Solidarnosh alla mafia che aveva trovato uno
strumento perfetto di riciclaggio del fiume di denaro proveniente
dal commercio della droga), che solo la sua implosione interna
avrebbe potuto farlo crollare, una volta che i complicatissimi
nodi economici avessero messo in luce le loro incompatibilità.
Va letta in questo senso, e ne è forse lo specifico più “romanzesco”
in un libro che non vuole in nessun modo apparire un romanzo,
la diabolica capacità istrionica di Sindona, nella cui personalità
convivono straordinarie abilità tecniche nel campo della manipolazione
finanziaria, ma anche un’incredibile fantasia inventiva nel creare
cortine fumogene intorno ai suoi interlocutori. Amici e nemici.
Da ciò la difficoltà di lettura “ultima” degli eventi che
accompagnarono questa vita straordinaria. Col che si vuol dire che
in questa lettura di Sindona finisce con l’avere non poca importanza
un aspetto che non si sarebbe pensato di incontrare in un libro
che racconta la storia di un finanziere mafioso, oltre che geniale:
l’aspetto, mi si perdoni il termine, “estetico”, qui da intendersi
come variante del dato antropologico di un uomo che, nato in Sicilia
e rimasto sostanzialmente “siciliano” fino all’ultimo dei suoi giorni,
non rinunciò mai a quell’elemento per l’appunto siculo che è
il “traggediare”, nel senso del sapersi anche avventurare
in situazioni inverosimili che traessero legittimità proprio
dalla loro inverosimilità. Il finto rapimento fu appunto una
“traggedia” montata ad arte, con tutti i particolari studiati
a tavolino, che avrebbero dovuto ingannare soprattutto la mafia
americana cui Sindona riuscì a far credere di imminenti colpi
di stato in Sicilia, di minacce “comuniste”, di altro legato
a finte sigle rivoluzionarie: ed era invece una danza sull’abisso
cui Sindona si sentiva condannato dalle sue stesse azioni
(poi si venne a sapere che era stato Gelli a dare dei citrulli ai mafiosi che si erano lasciati infinocchiare dal traggediante). Tanto è vero tutto questo che l’intrico più difficile da interpretare fu poi quello della sua morte, avvenuta in circostanze simili a quella di Gaspare Pisciotta, in possesso di dati verosimilmente pericolosi per la classe dirigente siciliana di quegli anni (separatista e democristiana, ma non solo), e in quanto tale avvelenato dalla mafia con un caffè opportunamente “corretto”. Né mai si è messo in dubbio che Pisciotta sia stato avvelenato. Sindona invece si uccise lui, con ogni verosimiglianza, anche se la sua morte “doveva” apparire un omicidio. E dunque fu, come il finto rapimento, un’altra “traggedia” messa in scena il mattino del venti marzo 1986 nel carcere di Voghera, un’altra irruzione del dato antropologico dentro la vicenda contorta di quest’uomo contorto. I nostri autori ne sono ben consapevoli, tanto è vero che riprendono la questione in termini documentatissimi e si può ben dire che riescono, alla fine, a convincere che veramente Sindona, che di motivi per essere ucciso ne aveva davvero tanti, provvide lui alla bisogna. Col particolare di lasciare dietro il finto omicidio questa eredità dell’incerta interpretazione che non poteva non essere stata prevista (Sindona, oltre tutto, non lasciò indizi sicuri sul modo in cui riuscì a procurarsi il cianuro. Si poteva…, lasciò solo intendere).
Se gli autori non hanno dubbi sul suicidio di Sindona,
e francamente è difficile averne dopo aver letto
il terzo capitolo di questo libro (Una spettacolare uscita di scena),
un elemento va tuttavia richiamato all’attenzione
di chi legge: ed è che affiora, proprio tra le pagine
di questo capitolo, e sempre a proposito di
quell’elemento antropologico di cui si è detto, una dimensione
del protagonista che va anche oltre l’estetico che dicevamo prima,
e sconfina (absit iniuria…) nell’eroico inteso anche come tragico.
Per di più potenziato dal fatto che Sindona amava recitare
e dunque agire come personaggio di se stesso, autore e attore
di un dramma stupefacente. E siccome tutto questo non può non
presupporre un fondo etico, non è difficile coglierlo, questo fondo,
nella presenza che ebbe sempre la famiglia – quella vera, i figli,
i nipoti – tra le preoccupazioni di Sindona.
Che aveva sicuramente molti motivi per temere
di essere ucciso dalla mafia, ma ne aveva certamente
di più numerosi per uscire volontariamente di scena salvando
così i suoi familiari dalle rappresaglie che potevano subire
da chi avesse avuto motivi per temere chissà quali rivelazioni
in sede processuale. E non è credibile immaginare che Sindona
non avesse nulla da rivelare in ordine a scheletri suoi
o di altri più o meno potenti chiusi in armadi ben blindati.
Tanto è vero che Calvi, succedutogli nella funzione di riciclatore
per conto della mafia e dello Ior, e anche lui travolto
dalla pericolosità del giro in cui era entrato, fu regolarmente
ucciso come da copione. Ma Calvi (cui il libro dedica l’ultimo capitolo,
I due scorpioni nella bottiglia) era un semplice attore del dramma
che andava in scena. Scritto da altri: Gelli, Marcinkus, la mafia…
Sindona ne era anche l’autore e il regista, e si portava dietro
quell’elemento di teatralità che, probabilmente, non ebbe scarsa
influenza nel perderlo. Anche se dovette avere la sua parte nel
creargli intorno, e per così tanto tempo, un alone di credibilità.