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C’è chi lo sa e, grazie alla sue tecniche avanzatissime e al software da lui stesso sviluppato e di cui dispone è in grado di dimostrarlo in base soltanto all’incrocio di dati prelevati da tabulati telefonici. Non da intercettazioni, ma dai dati relativi al semplice traffico telefonico ed alle celle che hanno gestito questo traffico. Si chiama Gioacchino Genchi, un vicequestore della polizia in aspettativa, che ha collaborato con le procure di tutta Italia e le cui consulenze hanno permesso di assicurare alla giustizia centinaia di criminali. Ma proprio per questo, per queste sue capacità, deve essere eliminato. Eliminato non con il tritolo, ma come si fa oggi, con metodi che non richiedono poi la necessaria reazione dello Stato per tacitare l’opinione pubblica. Con gli stessi metodi che sono stati adoperati per Luigi De Magistris, per Clementina Forleo, Luigi Apicella, cioè con la delegittimazione, con la condanna da parte di un CSM ormai asservito ed organico al potere e la rimozione dall’incarico e dalle funzioni. Cioè con la morte civile, con un metodo talmente ignominioso che oggi mi fa pensare che è meglio che Paolo sia stato ucciso con il tritolo piuttosto che in questa maniera. Se si fossero seguite le intuizioni di Genchi, che due ore dopo la strage del 1992 andò a bussare alla porta del Castello Utveggio per identificare le numerose persone che quel pomeriggio, un pomeriggio di domenica, vi si trovavano oggi i mandanti di quella strage sarebbero in carcere piuttosto che occupare le più alte posizioni nelle gerarchie istituzionali. Ma quei processi non sono stati fatti e non si devono fare ed è per questo che Gioacchino Genchi deve essere eliminato e non per un fantomatico archivio illecito che non esiste, composto infatti solo da tabulati telefonici legittimamente acquisiti su incarico delle procure e poi restituiti alla conclusione delle indagini ad essi relativi. Gli assassini o i loro complici hanno pensato a tutto, a quasi tutto, hanno pensato a proibire o rendere impossibili le intercettazioni ma hanno dimenticato un particolare, quello che può essere rivelato dalla tracciatura del traffico telefonico, ed ora sono costretti a uscire allo scoperto e ritornare sulla scena del delitto per fare sparire anche questa ultima traccia dimenticata. O almeno la possibilità di utilizzarla.
Si sa chi ha prelevato la borsa di cuoio di Paolo dalla sua macchina ancora in fiamme. Si sa perché esistono delle fotografie che lo ritraggono mentre si allontana tranquillamente con quella borsa in mano, ma non si sa, o non si vuole sapere, a chi ha consegnato quella borsa e da chi è stata sottratta l’Agenda Rossa che vi era contenuta. Una agenda nella quale Paolo annotava tutte le confessioni dei collaboratori di giustizia, le rivelazioni sulle infiltrazioni della criminalità organizzata all’interno dello Stato e le sue riflessioni di quei giorni tremendi in cui continuava a dire “devo fare in fretta, devo fare in fretta”. In fretta, perché sapeva che sarebbe stato ucciso anche lui. Si sa, ma non si deve sapere, chi erano “alfa” e “beta”, due nomi ai quali fa riferimento Paolo in un’ intervista fatta con due giornalisti francesi poco prima di essere ucciso e che è quasi un testamento, un messaggio a futura memoria, ma che proprio per questo non può essere vista, non deve essere vista, se non da quelli che caparbiamente la vanno a cercare su quello che ci è rimasto come ultimo baluardo di libertà in Italia: la rete. E su quello che non si sa, che non si può sapere, che non si deve sapere, i processi non riescono ad andare avanti, vengono bloccati, vengono depositate delle richieste di archiviazione con le quali gli stessi PM che stavano conducendo le indagini non sono d’accordo ma che vengono forzate da capi delle procure messi nel posto giusto al momento giusto o perché si trovassero in quel posto al momento giusto. E i giudici che vogliono arrivare sino in fondo, quelli che vogliono arrivare alla verità che non si deve sapere sono costretti a trasferirsi. Si sa che Paolo il 1° Luglio del 1992, mentre interrogava Gaspare Mutolo, fu chiamato dal ministro Mancino al Viminale, si sa perché fu lui stesso a dirlo, disse: “Mi ha telefonato il ministro, manco due ore e poi torno”. Si sa perché la sera annotò sulla sua agenda grigia nella pagina di quel giorno, alle ore 19:30 un nome: Mancino. Si sa perché il procuratore Aliquò lo accompagnò sin sulla porta e lo vide entrare nella stanza del ministro. Si sa. Ma non si deve sapere, non si deve sapere di come Paolo sia rimasto sconvolto dalla comunicazione che doveva fermare le sue indagini, i suoi colloqui con i pentiti, perché lo Stato aveva deciso di scendere a patti con la mafia. E allora, pur di non farlo sapere si ricorre a pretese amnesie, a puerili esibizioni di calendarietti vuoti, a sostenere ignobilmente di non conoscere Paolo Borsellino, un giudice il cui viso in quei giorni era noto a tutti gli italiani, ma non evidentemente al Ministro dell’Interno che non ricorda di avere stretto, tra tante altre, anche quella mano.

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