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di Claudia Fanti
Argentina. A tre anni dalla morte del giovane argentino durante una protesta mapuche, l’inchiesta si è fermata di nuovo. La famiglia di Santiago chiede di indagare per sparizione forzata, no della cassazione

A tre anni dalla morte di Santiago Maldonado la giustizia appare ancora un miraggio. Era il primo agosto 2017 quando la gendarmeria, sotto gli ordini dell’allora ministra della Sicurezza argentina Patricia Bullrich, realizzava una violenta operazione repressiva contro la comunità mapuche di Cushamen, in Patagonia, nel quadro della disputa di terre sottratte al popolo mapuche dal gruppo Benetton.

UN’AZIONE ILLEGALE (condotta all’interno del territorio indigeno, malgrado il giudice avesse autorizzato solo l’operazione di sgombero sulla statale 40) ed estremamente violenta: 100 agenti in assetto anti-sommossa per appena otto manifestanti disarmati, inseguiti, con spari e lanci di pietre, fino al fiume Chubut dove Santiago, che si era unito alla protesta dei mapuche, sarebbe stato visto per l’ultima volta. Un luogo a poca distanza dall’immensa tenuta di Leleque della Benetton – proprietaria di oltre 800mila ettari in Patagonia – in cui, secondo la stampa argentina, la gendarmeria manterrebbe una base informale.

78 GIORNI DOPO la scomparsa del giovane, il suo corpo sarebbe stato trovato nelle acque del fiume in circostanze sospette e in una zona già setacciata dalle forze dell’ordine: ben conservato, con documenti in perfetto stato e senza tracce di lesioni.

L’autopsia – assai contestata – avrebbe poi confermato la morte per annegamento, benché è assai improbabile che l’artigiano 28enne, che non sapeva nuotare e aveva paura dell’acqua, avesse cercato di attraversare il fiume di sua spontanea volontà.

Un caso, quello di Santiago, pieno di interrogativi irrisolti e accompagnato da furiose polemiche sul comportamento dell’allora governo Macri, impegnato prima a coprire la gendarmeria, avallando piste false (per esempio evocando la possibilità che Santiago si trovasse in Cile) e bloccando la partecipazione alle indagini di un gruppo di esperti dell’Onu, e poi, dopo l’accertamento della morte del giovane, a minimizzare le responsabilità dello Stato scaricandole sui mapuche.

IL TENTATIVO SEMBRAVA essere perfettamente riuscito: nel novembre del 2018, il giudice federale Gustavo Lleral chiudeva in maniera definitiva la causa per la sparizione forzata del giovane – liquidata dalla ministra Bullrich come una «costruzione mediatica» -, assolvendo in primo grado l’unico imputato del processo, il gendarme Emmanuel Echazú, accusato di aver indotto Maldonado a gettarsi nel fiume. Santiago, insomma, non sarebbe stato ucciso o lasciato morire, ma sarebbe affogato per una serie di circostanze sfortunate.

Una parziale svolta si è registrata l’anno successivo: la Corte di cassazione, confermando una sentenza della Corte d’appello che considerava prematura l’archiviazione del caso, ha revocato la sentenza di assoluzione nei confronti di Echazú e disposto nuove indagini sulle circostanze del decesso del giovane, in particolare in relazione all’ipotesi di delitto di «abbandono di persona».

IL TRIBUNALE HA RESPINTO però la richiesta della parte civile di proseguire l’inchiesta per l’accusa di «sparizione forzata», provocando l’indignazione della famiglia, secondo cui non si dovrebbe escludere nessuna pista.

Ma se a tre anni dalla sua morte la giustizia si fa ancora attendere, nessuno in Argentina sembra aver dimenticato Santiago, il cui volto sorridente si è affacciato per mesi dai manifesti affissi ai muri dell’intero paese o portati in piazza nelle innumerevoli proteste per la sua «apparizione con vita» dentro e fuori i confini della nazione.

Tratto da: ilmanifesto.it

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