Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

di Jean Georges Almendras e Giorgio Bongiovanni
Per ennesima volta nella storia della Bolivia, le vie di molte sue città si sono tinte del sangue dei figli dell’amata terra aymara e quechua. La repressione si è abbattuta sui punti più emblematici della capitale - La Paz - di El Alto e di altri luoghi. Gli agenti al servizio di coloro che hanno architettato dall’ombra il recente colpo di Stato, fascista e dalla tipica impronta dell'impero yankee, hanno sparato, usato manganelli e gas sui manifestanti. Una folla di uomini e donne intonando slogan e con bastoni in mano hanno riempito i viali che portano alla Plaza Murillo, dove si trova il Palazzo Quemado, in difesa della democrazia. Vale a dire, in difesa della cultura indigena. Contadini, minatori, boliviani e boliviane dei settori indigeni della popolazione (umiliati e sfruttati da 500 anni dall'uomo bianco) non si sono piegati. Al contrario, si sono ribellati. Ma non si sono ribellati motivati unicamente dal rovesciamento di Evo Morales. Si sono ribellati su basi storiche. I fondamenti storici della propria cultura, dei loro antenati, e delle lotte dei loro antenati. La lotta dell'indio Julián Apaza che prese il nome di "Túpac Katari" a La Paz; la lotta di José Gabriel Condorcanqui che prese il nome di "Túpac Amaru" a Cuzco; la lotta di Bartolina Sisa, moglie di "Túpac Katari". I principi che storicamente hanno la propria radice nel sangue indio che scorre nelle loro vene. Perché la violenza scatenata su di loro riflette la violenza scatenata contro la cultura indigena che va ben oltre la figura del presidente dei boliviani per 13 anni, cioè l'indigeno aymara Evo Morales. La risposta del popolo indigeno è una sola: la rivoluzione della Wiphala.
Dissentiamo su alcuni aspetti dell'amministrazione Morales-Linera (che non ha mai preso le distanze dal capitalismo reprimendo con la forza diversi movimenti sindacali e di contadini, che ha dato libero accesso all'energia nucleare e "ha lasciato" o "ha permesso" che il narcotraffico operasse in suolo boliviano: sappiamo perfettamente che tutta la struttura criminale narco, con ripercussioni e legami a livello internazionale - ed europeo - ha coinvolto alte cariche governative, in una rete di complicità che forse un giorno potrebbe perfino portare il dirigente cocalero ed ex presidente Evo Morales nel mirino della giustizia, ma non restiamo indifferenti di fronte all’attacco fascista di cui è stato oggetto il governo che lui presiedeva. Perché l'attacco fascista è anche contro lo stato di Diritto, contro la democrazia e contro il popolo indigeno della Bolivia. Un attacco contro l'America Latina. Un attacco contro la libertà dei popoli.
Un colpo di Stato che, siamo sicuri, è stato accuratamente pianificato seguendo le linee guida che sicuramente partivano da Washington. Linee guida che si sono rafforzate negli ultimi anni (e mesi), sicuramente alimentate da tradimenti interni e da un indebolimento che solo Evo Morales conosce. Il tutto sfruttato dall'impero del Nord e dal principale oppositore nella campagna elettorale che ha preceduto la spirale di scontri e violenza sfociata nel colpo di Stato: ci riferiamo a Carlos Mesa, arrivato secondo nelle elezioni ritenute fraudolente.
Il colpo di Stato ha avuto diversi ispiratori. Mentori del Nord e mentori locali: uno di loro, ovviamente, è l'uomo d'affari di estrema destra di Santa Cruz, Luis Fernando Camacho ed altri dirigenti politici dello stesso raggruppamento. Attori politici che insieme ad altri personaggi, cospirando per una questione di supremazia, in aggiunta all’indebolimento del governo, hanno determinato il caos e la confusione che ha segnato la fine del periodo Morales-Linares. La CIA, i suoi collaboratori, e gli interessi economici della borghesia imprenditoriale ed oligarca della Bolivia hanno fatto il resto; a loro si sono uniti gli uomini bianchi nati in terra boliviana che non hanno mai visto di buon occhio l'arrivo, più di 13 anni fa, di un indio al Palazzo Quemado, come viene chiamata la sede del governo in Piazza Murillo.
In un buon romanzo, i settori della destra recalcitrante della Bolivia prima o poi sarebbero passati all’attacco. E così è stato. Contro Evo Morales? O la cultura indigena? Contro entrambe, lo avevano giurato. Cronaca di una morte annunciata? Tutti avrebbero preferito di no, ma la situazione in America latina, da tempo è pessima. Un temuto piano, il Piano Condor fascista del Terzo Millennio che avanza, si è risvegliato e scagliato sui nostri paesi. Ed i risultati si vedono nella loro terribile crudezza: Cile, con Piñera, alla guida di una dittatura subdola; Brasile, con Bolsonaro in una simile posizione; Argentina, con Macri, stendardo dei voleri del Nord; Uruguay, con una destra che sta mettendo all’angolo la sinistra del Frente Amplio, approfittandosi del suo indebolimento (diverse le mancanze e buchi nella propria gestione negli ultimi15 anni); Paraguay, governato da Mario Abdó Benitez (un braccio dell'ex presidente Horacio Cartes) e fedele servitore e gestore di un apparato politico inquinato dalla corruzione e dal narcotraffico; Perù, Ecuador, Venezuela, Honduras, Haiti e Nicaragua, sopraffatti dai disordini, con crisi istituzionali, crisi sociali ed economiche, violenza, esplosioni sociali e morte. Con l'inevitabile marchio statunitense.
La Bolivia è stata (e vediamo che lo è ancora) afflitta da colpi di stato militari. Alcune recenti statistiche indicano che il colpo di Stato di domenica 10 novembre, è stato il numero 189 dall'anno 1825. Una cifra allarmante. Una cifra che dimostra che in Bolivia questo tipo di violenze fa parte della sua storia, ma dimostra anche che è vigente, e ben radicato nei gruppi di golpisti di destra, l'etnofascismo boliviano, cioè un odio ancestrale verso l’indigeno e la razza nera. Il che significa che il lungo periodo di governo di Evo Morales è stato una vera eccezione essendo lui stesso un indigeno aymara. Con una presidenza indigena, si presumeva, e abbiamo sperato, che la crudeltà dei tempi della conquista coloniale fosse rimasta alle spalle. Ma sbagliavamo.
Abbiamo immaginato male perché al di là degli errori di Evo Morales e dei suoi successi (riduzione della povertà, incremento dell'alfabetizzazione, recupero delle risorse naturali nazionalizzate dallo stato plurinazionale, dalle sue parole) dietro, l'oligarchia boliviana e la sete di potere di imprenditori aggrappati al capitalismo divoratore, coadiuvati dal sempre presente imperialismo yankee, hanno incentivato l’odio dei vecchi tempi e le fondamenta di un governo aymara si sono sgretolate per infine crollare clamorosamente.
Evo Morales, mentre era al potere, stava trattando con i cinesi lo sfruttamento del litio per una fase di industrializzazione della Bolivia (la Bolivia possiede il 70% delle riserve di litio dell'Amazzonia, e questo per gli yankee (per Trump) era intollerabile). La furia del neoliberalismo si è appalesata con il colpo di stato pianificato all’ombra, ma alla luce del sole e alla vista di tutti.
Ma la cosa più lacerante e più brutale, nel contesto di brutalità e violenza proprie dei colpi di stato militari, è stato fuori dubbio bruciare uno dei simboli più preziosi dei popoli indigeni.
Poco prima che i vertici militari boliviani "chiedessero" le dimissioni ad Evo Morales, uno degli esponenti più reazionari della destra boliviana, Luis Fernando Camacho, entrò nel Palazzo Quemado (sede del Governo), portando una bibbia ed una bandiera boliviana, proclamando con fanatica veemenza "Dio è ritornato al palazzo". Questo episodio ha rappresentato il preludio di un fatto molto più grave: dopo il golpe civile, della polizia, militare e clericale, perché la Chiesa Cattolica ha apportato il suo contributo alla rottura istituzionale, gruppi golpisti hanno preso il controllo del Palazzo di Governo, e della "Wiphala", bandiera simbolo dei popoli originari, per poi bruciarla. Azione che si è ripetuta in alcune zone della capitale. È così che i gruppi di destra hanno segnato la loro presenza. La risposta delle comunità indigene non si è fatta attendere.
Dando via libera all’odio e all'autodifesa popolari. Alle mobilitazioni dei popoli originari. Il giornalismo servile agli interessi golpisti ha preso posizione gettando legna al fuoco, con l'assedio mediatico, ne derivarono repressioni e paura. L'indignazione degli indigeni si è fatta sentire. Le mobilitazioni popolari si sono intensificate. Le forze dell'ordine hanno seminato disordine con proiettili e sangue. Le bandiere "Wiphala" sventolavano tra i manifestanti. C’è chi ha innalzato questo simbolo su un palo della Piazza Murillo e persino, fatto eccezionale, si è sentita qualche espressione degli agenti in lingue aymara e quechua chiedendo scusa per gli incendi delle bandiere simbolo e chiedendo tolleranza etnica ai golpisti.
Le orde dell'imperialismo predatore di speranze e di vite non rispettano niente sul loro cammino. E si sono accaniti sulla "Wiphala". Una bandiera di sette colori: bianco, rosso, azzurro, arancione, giallo, verde e violetta. Una bandiera simbolo di lotta nelle mobilitazioni sindacali del 1970 quando il popolo indigeno ed i lavoratori affrontarono il colpo militare di Hugo Bánzer. L’origine della bandiera risalirebbe ai tempi coloniali, o all’epoca del Tiawuantinsuyo.
La bandiera ha 49 quadrati e significa "Wiphay" (voce del trionfo), e "Laphaqui" (che significa il fluire nel vento di un oggetto flessibile). In aymara ed in quechua la bandiera è simbolo di identità dei popoli delle Ande, della Bolivia e del Perù.
In pieno secolo XXI il golpismo di destra boliviano ha portato alla luce un aperto razzismo, perché non si sono limitati a bruciare i simboli, ma hanno anche legato i leader indigeni agli alberi nelle piazze pubbliche, hanno bruciato le loro case e li hanno obbligati a camminare in ginocchio, tra altre violenze di taglio razzista.
La successione dei fatti: Evo Morales ed il suo vicepresidente Linera si sono rifugiati in Messico, repressione sul popolo, l’opposizione che festeggia e, dopo il vuoto di potere, una senatrice dell'opposizione, Jeanine Añez, ben lontana dall’essere indigena, si è autoproclamata Presidente della Bolivia, Bibbia in mano, con il sostegno militare e clericale a disposizione ed espressioni anti indigene sulle labbra. Gli oppositori Carlos Mesa e Luis Fernando Camacho hanno festeggiato. Il nuovo governo completamente fuori dai canoni di costituzionalità, distante dalle linee guida e dai parametri democratici. Le rivolte popolari continuano e non si fermeranno, ed i consigli comunali aperti nella città di El Alto si stanno estendendo su tutto il territorio. La violenza è in crescendo.
Questa, la bestialità delle ideologie razziste che non hanno rispettato la Wiphala e hanno scatenato la "rivoluzione delle Wiphalas" in questi giorni.
Questa, la storia boliviana che vive giorni di oscurantismo, dove il fascismo é implacabile con i popoli indigeni. Così, l'impero del Nord lacera, insanguina e saccheggia i paesi latinoamericani.
Questo accade oggi, in splendenti "democrazie". Democrazie tra virgolette.

Foto di Copertina: Redes /www.laizqwuierdadiario.

ARTICOLI CORRELATI

Evo Morales ed il golpe che non si è potuto evitare

Bolivia: ''Resisteremo fino all’ultimo''

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos