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jabhat al nusra c afpdi Margherita Furlan
Oltre cento persone sono rimaste intossicate nei quartieri residenziali della città di Aleppo, Khaldieh, Calle Nilo e Jameyit Zahraa, in un attacco al cloro perpetrato, sabato 24 novembre, dai terroristi di Jabhat al-Nusra. Il direttore del Dipartimento della Salute della città siriana, Ziad Hajj Taha, ha riferito all’agenzia di stampa governativa Sana che le persone colpite soffrono di asfissia e di altri sintomi tipici dell’avvelenamento provocato da sostanze chimiche. Le squadre speciali di esperti militari russi arrivate sul luogo dell’accaduto confermano alla stampa, attraverso la voce del rappresentante del ministero della Difesa russo, generale Igor Konashenkov che, secondo i dati preliminari, la popolazione sarebbe stata bombardata con “proiettili contenenti cloro".
L’alto funzionario ha aggiunto che "la Russia intende discutere questo evento con la Turchia, Paese che, in base agli accordi di Astana, è garante del rispetto della cessazione delle ostilità da parte dell'opposizione armata nella de-escalation nel governatorato di Idlib.” Parole confermate dalla portavoce della diplomazia russa, Maria Zakharova, che chiede alla comunità internazionale la condanna incondizionata dell'attacco, “chiaramente volto a sabotare il processo di pace in Siria”, afferma, mentre il ministero degli Esteri siriano esorta il Consiglio di sicurezza dell'ONU a prendere misure contro i tagliagole. Ma l'Occidente resta immobile. “Lo standard è il solito", spiega il capo della diplomazia iraniana, Javad Zarif: “Nessuna condanna, da parte di Washington e sudditi, se si crede che a usare le armi chimiche sia stato un qualche tipo di alleato”. Lo stesso ministro degli Esteri russo, Sergej Lavrov, aveva in precedenza più volte osservato come Stati Uniti e tagliagole abbiano un obiettivo comune in Siria, il rovesciamento di Bashar al-Assad. "Gli Usa guardano all'Isis quasi come a un alleato nella lotta contro Damasco", aveva detto Lavrov. A pensare male si fa peccato, cita un noto proverbio, ma forse non è un caso che la stampa internazionale, che in passato non ha esitato a condannare Damasco nonostante l'assenza di prove, oggi usi il condizionale. E non riprenda nemmeno le dichiarazioni rilasciate dal governatore di Aleppo, Hussein Diab, per cui “il recente attacco terroristico rappresenterebbe una conferma del fatto che i gruppi terroristici in Siria sono in possesso di arsenali di armi chimiche”. Vista la grande confusione mediatica, facilmente generata non solo dall’assenza di fonti in loco ma anche dalla diffusa propaganda che tutti i Paesi hanno adottato nella narrazione della guerra siriana, cerchiamo allora di capire come possano circolare nel martoriato Paese medio orientale così tante armi chimiche.

L’industria chimica siriana della Repubblica araba siriana era una delle più avanzate del Medio Oriente, sia in ambito civile che militare. I sistemi d’arma, in particolare, costituivano il nucleo principale della strategia di deterrenza della Siria nei confronti d’Israele ed erano generalmente tollerati dalla comunità internazionale. Ma a partire dal 2011 qualcosa cambiò nel quadro politico ed energetico del Medio Oriente e gli Stati Uniti minacciarono un'azione militare contro la Siria in caso di utilizzo di armi chimiche. La presenza di gruppi terroristici nel Paese stava progressivamente aumentando.
Il 19 marzo 2013 armi di fattura artigianale contenenti gas sarin furono utilizzate dai ribelli a Khan al-Assal, vicino ad Aleppo. Morirono 28 persone, tra cui 17 militari siriani, mentre più di 130 uomini subirono ferite di diversa gravità. Damasco premette affinché l’ONU indagasse sul caso. Ma gli esperti dell’ONU, guidati da Ake Sellstrom, un professore svedese, arrivarono in Siria troppo tardi, il 14 agosto 2013, ma in tempo per assistere, il 21 agosto dello stesso anno, nella zona orientale di Ghouta, a una grande provocazione con il gas sarin. Il numero dei morti e dei feriti non è ancora stato accertato con chiarezza. Allora, nel tentativo d'impedire un incombente intervento straniero in Siria, il presidente russo, Vladimir Putin, esortò la Siria ad aderire alla Convenzione sulle armi chimiche (CWC), che prevede l'obbligo per il Paese aderente di denunciare alla comunità internazionale il numero e il tipo di scorte chimiche presenti nel proprio territorio con il solo fine di eliminarle. La Russia e gli Stati Uniti raggiunsero un accordo quadro a Ginevra il 14 settembre 2013. Seguirono una decisione del Consiglio esecutivo dell'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche (OPCW) e la risoluzione numero 2118 del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite. Un piano senza precedenti con l’obiettivo di rimuovere i componenti principali delle armi chimiche dal territorio siriano e di distruggerli definitivamente.

L'operazione internazionale per rimuovere le armi chimiche dalla Siria iniziò il 23 giugno 2014. 1.200 tonnellate di agenti tossici e 100 tonnellate di isopropanolo furono distrutte subito sul territorio. Le operazioni di distruzione a bordo della nave della marina militare statunitense Cape Ray iniziarono invece il 7 luglio 2014 per completarsi il 18 agosto 2014. Le scorie così ottenute dalle reazioni chimiche sono state successivamente utilizzate presso impianti industriali in Finlandia e in Germania mentre il metilfosfonilfluoruro (DF), utilizzato per la produzione del gas sarin, fu distrutto in Gran Bretagna e negli Stati Uniti.
Non sfuggirà all’osservatore attento come sulla nave Cape Ray gli USA abbiano avuto la possibilità di ottenere il pieno accesso alla formula e alla tecnologia di produzione del gas sarin siriano. Inoltre, quando, nel 2013, la Siria entrò a far parte dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, consegnò informazioni dettagliate sui metodi di produzione del gas sarin. E’ questo uno dei principali motivi per cui oggi possiamo affermare che non vi è nessuna certezza sulla provenienza del gas sarin che la comunità internazionale presume sia stato utilizzato il 4 aprile 2017 a Khan Sheikhoun. All’episodio seguì il lancio di 59 missili Tomahawk americani lanciati da due portaerei al largo del Mediterraneo sulla base aerea siriana di Al Shayrat.

La distruzione delle scorte chimiche avvenne fuori dal territorio siriano e fu completata a fine 2015, con un ritardo di quasi un anno a causa di guasti tecnici a Veolia, l'azienda statunitense incaricata di smaltire parte delle scorte. Il direttore generale dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche, Ahmet Uzumcu, annunciò ufficialmente il completamento della distruzione delle armi chimiche siriane il 4 gennaio 2016. 27 gli impianti di produzione di armi chimiche distrutti, ma l'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche accertò l’avvenuto annientamento solo di 25 strutture, trascurandone due, i centri di ricerca di Barza e di Jamraya. La decisione senza precedenti adottata in Siria durante l'83esima sessione dall'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche superò il quadro giuridico del Convenzione sulle armi chimiche e consentì l'accesso quasi illimitato alle strutture militari siriane. Nell'aprile 2014 fu istituita anche una commissione d'inchiesta (FFM) per favorire le indagini sul possibile uso di sostanze chimiche tossiche in Siria. Ma recentemente è emersa la tendenza a restringere il mandato della commissione, tanto che i presunti incidenti di armi chimiche che violano gli standard dell'Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche sono ora investigati a distanza senza alcuna presenza sul territorio. Nessun campione viene quindi raccolto in loco, mentre la scelta di "testimoni" e di "vittime" che forniscono resoconti sugli eventi è discutibile. Le indagini consistono nell'analisi di rapporti, non verificati, provenienti spesso esclusivamente dall'opposizione governativa siriana e dai Caschi Bianchi. Due realtà distinte ma che, analogamente, ricevono finanziamenti sia dalla Gran Bretagna che dagli Stati Uniti.
Creata nel 2015 nell'ambito della risoluzione 2235 del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, la commissione investigativa congiunta dell’Organizzazione per la proibizione delle armi chimiche e dell’ONU (JIM) funziona in modo simile. Sinora ha elaborato sette rapporti. L'ultimo, datato 26 ottobre 2017, addossa la responsabilità del presunto attacco con gas sarin del 4 aprile 2017 a Khan Shaykhun sull'aviazione siriana, mentre l'ISIS viene accusato dell'attacco con gas mostarda del 16 settembre 2016 a Maarat Umm Hawsh. Gli investigatori non si sono però preoccupati di visitare i siti dei presunti attacchi chimici, citando preoccupazioni per la sicurezza, mentre le cosiddette prove fisiche e testimonianze sono state fornite alla commissione d’inchiesta da gruppi armati dell’opposizione siriana. Difficile quindi considerare le indagini obiettive e imparziali.

Così, mentre la comunità internazionale annaspa, i jihadisti, quasi usufruendo di un senso di impunità, utilizzano agenti tossici con sempre maggiore frequenza. Molti i laboratori sotterranei scoperti dalle coalizioni impegnate militarmente in Siria e utilizzati da Daesh e gruppi affiliati per fabbricare armi chimiche. Questi ultimi contano tra le loro fila ex ufficiali dei Paesi medio orientali che in passato lavoravano a programmi di produzione di armi chimiche, in Iraq, Libia e Siria. Sono dunque in possesso sia delle capacità tecniche che di quelle logistiche per produrre sostanze chimiche belliche, tanto da avere creato canali di approvvigionamento di vasta portata.
E’ dunque evidente che la minaccia del terrorismo chimico permane non solo in Siria, ma anche in Iraq e in tutto il Medio Oriente. Ma se non tenuta a bada seriamente, potrebbe rischiosamente abbattersi anche sulla ricca Europa.

Foto © Afp

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