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quel che resta dime rai videoTrasmesso su Rai3 il film di Marta Santamato Cosentino
di AMDuemila - Video e Foto
Un pugno nello stomaco. Dolore, morte, annientamento fisico e psichico, ma anche tanta dignità nel sopravvivere ad un dolore indicibile. Sono questi gli elementi racchiusi nel film, andato in onda ieri in seconda serata su Rai3, "Quel che resta di me" di Marta Santamato Cosentino (di cui abbiamo già parlato per lo splendido "Portami via" sulla fuga di una famiglia dalla Siria). Così come recita la scheda del film "Quel che resta di me" è un racconto corale di donne e bambine scappate dai campi di prigionia di Boko Haram - gruppo terroristico islamico attivo in Nigeria - dove sono state portate “per servire Dio” e dove sono state costrette a scegliere tra un matrimonio forzato, la riduzione in schiavitù o un’azione kamikaze. C'è tutto un mondo racchiuso nei 50 minuti di questo film. Un mondo terribile che in troppi non vogliono vedere. E che invece deve essere conosciuto.

LA STORIA
Sono le donne - e le loro voci di sopravvissute - l'unico modo per tentare di far luce sull'organizzazione terroristica che, negli ultimi anni, ha provocato un numero di vittime senza precedenti, superiore anche allo Stato Islamico.
Si sono dati il nome di Jama’at Ahl as-Sunnah lid-Da’wah wa’l- Jihad, “Unione sunnita per l’espansione dell’Islam e della jihad”. Il resto del mondo li conosce come Boko Haram, “L’educazione occidentale è peccato”. Nato tra le paludi della foresta di Sambisa, nella parte nord orientale della Nigeria, il gruppo, che ha giurato fedeltà allo Stato Islamico e collabora con Al Qaida in Mali e Algeria, combatte per fondare un califfato in Africa centrale. Quel che resta di me è un racconto corale di donne e bambine scappate dai campi di prigionia di Boko Haram dove sono state portate “per servire Dio” e dove sono state costrette a scegliere tra un matrimonio forzato, la riduzione in schiavitù o un’azione kamikaze. Un racconto di violenze, fame, freddo e cecità raggiunta a forza di piangere. Queste testimonianze restituiscono non solo un quadro di atrocità ma permettono una ricostruzione, altrimenti impossibile, delle dinamiche interne alla setta che fa capo ad Aboubakar Shekau e che, in pochi mesi, a partire dall’estate del 2014, ha occupato un quinto del territorio nigeriano diventando, ad oggi, una delle uniche formazioni jihadiste a poter vantare il controllo su un territorio.
Prima della notte tra il 14 e il 15 aprile 2014, quando un commando rapì 276 studentesse di un collegio nella cittadina di Chibok, l’Occidente non sapeva cosa stesse accadendo in Nigeria. Con quel rapimento, Boko Haram ha conquistato le prime pagine dei quotidiani internazionali e la campagna mediatica #bringbackourgirls è diventata in poco tempo virale. Si stima che siano migliaia le donne rapite e, ancora oggi, tenute prigioniere nelle paludi di Sambisa. Le poche che sono riuscite a scappare, hanno ingrossato le fila degli sfollati, trovando rifugio in Ciad, in Camerun o in Niger.
Quel che resta di me è un mosaico di storie di resilienza, di difficile ricostruzione dell’identità e di faticoso reinserimento. Un racconto che si sviluppa attraverso la lente narrativa di un progetto di salute mentale che Coopi- Cooperazione internazionale porta avanti nella regione di Diffa, città del Niger meridionale, al confine con lo Stato di Borno. Secondo un report sui servizi di salute mentale in contesti d’emergenza pubblicato dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, le emergenze umanitarie raddoppiano la possibilità che le persone vengano affette da disturbi mentali. Nella regione di Diffa, i problemi di salute mentale sono la diretta conseguenza del conflitto in corso con Boko Haram. Nonostante l’emergenza, però, il Niger resta uno dei paesi con il più basso tasso di professionisti di salute mentale nel mondo: solo quattro psichiatri per una popolazione di oltre 20 milioni di persone.


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