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abu turaya ibrahim el mundodi Jean Georges Almendras
Questo è Ibrahim Abu Turaya, un ragazzo di Gaza di 29 anni. Dal 27 dicembre del 2008 era senza gambe, perse dopo un bombardamento aereo dell’esercito israeliano su Gaza durante
un’offensiva militare, che provocò la morte di 1.300 persone. Nonostante il suo handicap è accorso insieme ai suoi fratelli palestinesi per manifestare contro la decisione di riconoscere Gerusalemme capitale di Israele. L’esercito israeliano, noncurante delle sue già precarie condizioni di salute, gli ha sparato in testa ed è morto sul colpo... Sono quattro le vittime dall’inizio delle manifestazioni”.
Pochi giorni fa Karim, ragazzo italopalestinese che vive in Italia, ha scritto queste parole, non per un capriccio letterario, nè per uno slancio di drammaticità. Si è così espresso perché, insieme al fratello e alla famiglia, prova dolore per la morte di Ibrahim e degli altri due fratelli palestinesi che lo accompagnavano, senza contare i numerosi feriti provocati dall’intervento israeliano.
Anche Eduardo Galeano - scrittore e giornalista uruguaiano - anni addietro scrisse al riguardo con dolore, indignazione e senza mezzi termini. “Dal 1948 i palestinesi vivono una condanna all’umiliazione perpetua. Senza permesso non possono nemmeno respirare. Hanno perso la loro patria, la loro terra, l’acqua, la libertà, tutto. Già non ne resta molta, di Palestina. Passo dopo passo Israele la sta cancellando dalla mappa. I coloni invadono, e dietro di loro i soldati modificano la frontiera. I proiettili sacralizzano il furto, in legittima difesa. Non c’è guerra aggressiva che non dica d’essere guerra difensiva. Hitler invase la Polonia per evitare che la Polonia invadesse la Germania. Bush invase l’Iraq per evitare che l’Iraq invadesse il mondo. In ognuna delle sue guerre difensive Israele ha inghiottito un altro pezzo di Palestina, e il pasto continua”, scriveva Galeano.

E i “pasti” sono andati avanti al punto che, dal 1948, il numero di vittime - uomini, donne e bambini - è aumentato dovunque. Sotto gli occhi di tutti, perché l’esercito israeliano si sente e sa di essere impunito. I soldati continuano a sacralizzare il saccheggio, non importa se bagnano le loro mani (e la loro anima) nel sangue di innocenti che difendono il diritto ad essere liberi. “A Gaza, su ogni dieci danni collaterali tre sono bambini. E sono migliaia i mutilati, vittime della tecnologia dello squartamento umano che l’industria militare sta saggiando con successo in questa operazione di pulizia etnica. E come sempre, è sempre lo stesso: a Gaza, cento a uno. Per ogni cento palestinesi morti, un israeliano. Gente pericolosa, avverte l’altro bombardamento, quello a carico dei mezzi di manipolazione di massa, che ci invitano a credere che una vita israeliana vale quanto cento vite palestinesi. Questi media ci invitano a credere che sono umanitarie anche le duecento bombe atomiche di Israele, e che una potenza nucleare chiamata Iran è stata quella che ha annichilito Hiroshima e Nagasaki”, scriveva ancora Galeano.
Eduardo Galeano aveva detto la verità. Così come Vittorio Arrigoni, l’attivista italiano che un giorno lasciò l’Italia e andò in Palestina sposando la causa di quel popolo. Per diventare un
palestinese anche lui. Per essere anche lui una vittima, quando fu sequestrato e poi ucciso da un gruppo di jihadisti salafiti, si pensa manovrati dai servizi segreti del Mossad, il 15 aprile del 2011.
Ma prima di lasciarci, oltre a lasciare il suo esempio di vita e dedizione al mondo con il suo operato e dedizione, Vittorio Arrigoni scrisse nel suo libro “Gaza. Restiamo Umani” (2008), nel
capitolo Guernica a Gaza: “Avete presente Gaza? Ogni casa è arroccata sull’altra, ogni edificio è posato sull'altro, Gaza è il posto al mondo a più alta densità abitativa, per cui se bombardi a diecimila metri di altezza è inevitabile che compi una strage di civili. Ne sei cosciente, e colpevole, non si tratta di errore, di danni collaterali. Bombardato la centrale di polizia di Al Abbas, nel centro, è rimasta seriamente coinvolta nelle esplosioni la scuola elementare lì a fianco. Era la fine delle lezioni, i bambini erano già in strada, decine di grembiulini azzurri svolazzanti si sono macchiati di sangue. Bombardando la scuola di polizia Dair Al Balah, si sono registrati morti e feriti nel mercato lì vicino, il mercato centrale di Gaza.
Abbiamo visto corpi di animali e di uomini mescolare il loro sangue in rivoli che scorrevano lungo l'asfalto. Una Guernica trasfigurata nella realtà. Ho visto molti cadaveri in divisa nei vari ospedali che ho visitato, molti di quei ragazzi li conoscevo. Li salutavo tutti i giorni quando li incontravo sulla strada recandomi al porto, o la sera camminando verso i caffè del centro. Diversi li conoscevo per nome. Un nome, una storia, una famiglia mutilata. La maggior parte erano giovani, sui diciotto vent'anni, per lo più non politicamente schierati, nè con FatahHamas, ma che semplicemente si erano arruolati nella polizia finita l'università per avere assicurato un posto lavoro, in una Gaza che sotto il criminale assedio israeliano vede più del 60% della popolazione disoccupata.
Mi disinteresso della propaganda, lascio parlare i miei occhi, le mie orecchie tese dallo stridulo delle sirene e dai boati del tritolo.
Non ho visto terroristi fra le vittime di quest'oggi, ma solo civili, e poliziotti. Solo ieri notte li prendevo in giro per come erano imbacuccati per ripararsi dal freddo, dinnanzi a casa mia. Vorrei che almeno la verità donasse giustizia a queste morti. Non hanno mai sparato un colpo verso Israele, nè mai lo avrebbero fatto, non è nella loro mansione. Si occupavano di dirigere il traffico, e della sicurezza interna,  tanto più che al porto siamo ben distanti dai confini israeliani. Ho una videocamera con me ma ho scoperto oggi di essere un pessimo cameraman, non riesco a riprendere i corpi maciullati e i volti in lacrime. Non ce la faccio. Non riesco perché piango anche io. All'ospedale Al Shifa con gli altri internazionali dell'ISM ci siamo recati a donare il sangue. E lì abbiamo ricevuto la telefonata, che Sara, una nostra cara amica è rimasta uccisa da un frammento di esplosivo mentre si trovava vicino alla sua abitazione nel campo profughi di Jabalia. Una persona dolce, un'anima solare, era uscita per comprare il pane per la sua famiglia. Lascia 13 figli. Poco fa mi invece mi ha chiamato da Cipro Tofiq. Tofiq è uno dei fortunati studenti palestinesi che grazie alle nostre barche del Free Gaza Movement è riuscito a lasciare l'immensa prigionia di Gaza e ricominciare altrove una vita nuova. Mi ha chiesto se ero andato a trovare suo zio e se l’avevo salutato da parte sua, come gli avevo promesso. Titubante mi sono scusato perchè non avevo ancora trovato il tempo. Troppo tardi, è rimasto sotto alle macerie del porto insieme a tanti altri.
Da Israele giunge la terribile minaccia che questo è solo il primo giorno di una campagna di bombardamenti che potrebbe protrarsi per due settimane”.
Oggi Gaza è ancora assediata. I palestinesi continuano ad essere codardamente uccisi. So che molti israeliani lapideranno le mie espressioni. Ma non mi importa, perché sto dicendo la verità.
Una verità che non si può nascondere con un dito, nè con la diplomazia corrotta o asservita agli interessi economici di non pochi poteri, sparsi nel mondo.
Quell’orribile verità che viene giustificata e anche nascosta. Bisogna nasconderla perché i danni sono enormi. Un danno genocida. Sorprendentemente ad opera di coloro che a loro volta sono
state vittime di un genocidio, che sembra non aver lasciato alcun insegnamento. Adesso che tutto è stato devastato dalle bombe, e che la repressione contro i fratelli palestinesi è una terribile quotidianità, il recente riconoscimento da parte degli Stati Uniti di Gerusalemme, come capitale di Israele, è stato un nuovo saccheggio. Un nuovo attacco che va ad aggiungersi a quelli iniziati nel 1948, e che viene lanciato dalla Casa Bianca. Un missile con un nome e un cognome: Donald Trump.
A qualche settimana da quella dichiarazione di riconoscimento, lo scorso 15 dicembre, la Striscia di Gaza e la Cisgiordania hanno reagito ancora una volta. Le organizzazioni palestinesi
hanno chiamato alla mobilitazione e alle proteste. Ad un nuovo “venerdì di ira”. Gaza ha avuto dei buoni motivi per reagire.
Le notizie che ci giungono dalla scena delle proteste riferiscono di migliaia di palestinesi che lanciavano pietre e “cocktail” molotov contro i soldati israeliani al di là del muro. I soldati non hanno risposto con pietre. Hanno aperto il fuoco. Hanno vomitato piombo. Hanno risposto con pallottole. Il saldo? Quel giorno fu di tre morti. Uno di loro, Ibrahim Abu Turaya, era su una sedia a rotelle.
L'umiliazione perpetua alla quale sono condannati i palestinesi quel venerdì ha registrato altri morti. La mappa politica della regione, da tempo e a livello internazionale, risulta sommamente
complessa.
Le testimonianze di Galeano ed Arrigoni lo riassumono magistralmente. E ci chiamano alla riflessione, alla lotta. Le armi dei soldati, quel venerdì e nei giorni precedenti, dimostrano che niente è cambiato, benché si dica che ci sono dialoghi pacifisti. Pacifisti? Neanche lontanamente.

La foto di un uomo senza gambe, con un colpo di arma da fuoco alla testa da parte dei soldati israeliani, ha fatto il giro del mondo. Esprime come ci sia un popolo che vuole farne scomparire
un altro. Per questo ci troviamo ancora una volta a dire: “Restiamo umani”, come Vittorio Arrigoni: “L’adagio con cui firmavo i miei pezzi per Il Manifesto e per il blog è un invito a ricordarsi della natura dell’uomo. Io non credo nei confini, nelle barriere, nelle bandiere, credo che apparteniamo tutti indipendentemente dalle latitudini e dalle longitudini alla stessa famiglia che è la famiglia umana. RESTIAMO UMANI, diventa un libro. E all'interno del libro il racconto di tre settimane di massacro, scritto al meglio delle mie possibilità, in situazioni di assoluta precarietà, spesso trascrivendo l'inferno circostante su un taccuino sgualcito piegato sopra un'ambulanza in corsa a sirene spiegate, o battendo ebefrenico i tasti su di un computer di fortuna all'interno di palazzi scossi come pendoli impazziti da esplosioni tutt'attorno”.
Ma fino a quando?

Foto di Copertina: www.elmundo.com

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