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papa francesco myanmar c max rossi pool photo via apOggi l’incontro con Aung San Suu Kyi
di AMDuemila
Ventitré minuti di colloquio nella sala del Corpo diplomatico del palazzo presidenziale della capitale Nay Pyi Taw. Tanto è durato l’incontro privato tra Papa Francesco ed il ministro degli Esteri e Consigliere diplomatico del Myanmar Aung San Suu Kyi. Il Pontefice ha ribadito all’autorità ed al Corpo diplomatico del Paese che "il futuro della Birmania deve essere la pace, una pace fondata sul rispetto della dignità e dei diritti di ogni membro della società, sul rispetto di ogni gruppo etnico e della sua identità, sul rispetto dello stato di diritto e di un ordine democratico che consenta a ciascun individuo e ad ogni gruppo, nessuno escluso, di offrire il suo legittimo contributo al bene comune”. “L'arduo processo di costruzione della pace e della riconciliazione nazionale - ha proseguito Francesco - può avanzare solo attraverso l'impegno per la giustizia e il rispetto dei diritti umani. La giustizia è volontà di riconoscere a ciascuno ciò che gli è dovuto". Parole che si infrangono su quanto avvenuto negli ultimi mesi. Più di 600mila persone appartenenti all’etnia musulmana dei rohingya (minoranza mai riconosciuta come parte delle 135 etnie registrate in Birmania) sono stati costretti a scappare dal Myanmar in Bangladesh a causa degli attacchi e delle persecuzioni delle forze militari governative, che l’ONU ha paragonato a una campagna di pulizia etnica. Il “Guardian” che ha svelato i contenuti del rapporto delle Nazioni Unite del 2017, riferisce ciò che è avvenuto ai Rohingya che sono rimasti in Birmania: uccisioni di massa e stupri di gruppo da parte delle forze armate in azioni che “molto probabilmente” equivalgono a crimini contro l’umanità.
Alla luce di queste denunce c’è grande attesa attorno alle parole che il Santo Padre dirà in questa visita in terra asiatica.
All’inizio della crisi in Myanmar, Papa Francesco aveva citato i rohingya in un’omelia definendoli “i nostri fratelli” e si era detto molto dispiaciuto per le violenze nei loro confronti. “Non sono cristiani, - aveva detto Papa Francesco - ma sono nostri buoni fratelli e sorelle. E da anni soffrono: sono torturati, uccisi, semplicemente per aver onorato e rispettato le loro tradizione e la loro fede musulmana”. Ugualmente il Santo Padre si era ripetuto ad agosto denunciando “la persecuzione della minoranza dei nostri fratelli Rohingya” e chiedendo che “tutti i loro diritti vengano rispettati”.
Per evitare casi diplomatici, però, la chiesa del Myanmar, e soprattutto l’arcivescovo Charles Maung Bo, ha suggerito al Pontefice di non usare il termine “rohingya” durante la sua visita ufficiale. “Ho avvertito il Papa - aveva dichiarato nei giorni scorsi - Gli ho detto che sia il governo che i militari, ma anche la gente in generale, soprattutto gli appartenenti alla polizia non gradiscono questo termine. Speriamo che non usi questa parola perché ha un’accezione molto politica. È un termine contestato”.
Ieri, durante l’incontro nell’arcivescovado di Rangoon con il capo delle forze armate, il generale Min Aung Hlaing, considerato responsabile dell’esodo dei Rohingya, è andata in atto l’autocensura. Oggi, durante l’incontro con Aung San Suu Kyi, già premio Nobel per la pace, consigliera di Stato e ministro degli Esteri, ma duramente criticata e accusata dalla comunità internazionale di ignorare la brutale repressione dei Rohingya, le parole di Papa Bergoglio hanno fatto riferimento al rispetto dei diritti umani per tutti i gruppi etnici, ma senza citare esplicitamente i rohingya. Così tornano le critiche. C’è chi parla di un’occasione persa. Chi ritiene che il Papa abbia sbagliato ad andare in Myanmar in un momento così delicato. Ed infine chi giustifica la scelta considerando il rischio di discriminazioni per la stessa comunità cristiana - circa 700mila persone - presente in un Paese che è appena uscito da una lunga dittatura militare. Dopodomani il Papa proseguirà il suo viaggio spostandosi in Bangladesh.

Foto © Max Rossi/Pool Photo via AP

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