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catalogna help c ansaI reati imputati sono ribellione, sedizione e malversazione. Il giudice: possono fuggire. Choc a Barcelona per gli arresti
di Francesco Olivo

La rivolta della Catalogna finisce in carcere. È durissima la decisione dell’Audiencia Nacional, il tribunale che giudica i reati commessi in tutto il territorio nazionale: carcerazione preventiva per tutti i ministri dell’esecutivo di Puigdemont, che hanno sfidato le leggi spagnole per tentare di fondare un nuovo Stato. Una svolta drammatica di una crisi che la politica non riesce ad affrontare, e che consegna a un movimento indipendentista diviso, dei martiri da vendicare politicamente alle elezioni del 21 dicembre.
La Catalogna è sotto choc e non solo la metà secessionista. Colpire la Generalitat, dopo il commissariamento della scorsa settimana, viene vissuta come un’umiliazione pesante da molti. Appena si sparge la notizia, vengono rispolverate categorie che suonano vintage nell’Europa del XXI secolo: «Libertà per i prigionieri politici», recita uno striscione esposto dal Comune di Barcellona.
Dopo giorni di smarrimento, gli indipendentisti tornano in piazza: alle sette della sera, in tutta la Catalogna si radunano decine di migliaia di persone che restano in silenzio davanti ai municipi. Le proteste, come sempre da queste parti, sono pacifiche, ma la tensione aumenta e i leader, attraverso gli avvocati, fanno un appello «alla tranquillità».
In manette finiscono il vicepresidente (decaduto) Oriol Junqueras, e sette «ministri»: Jordi Turull, Raúl Romeva, Josep Rull, Dolors Bassa, Meritxell Borrás, Joaquim Forn e Carles Mundó. Sfuggono alla detenzione, almeno per ora, l’ex presidente della Generalitat Carles Puigdemont e i quattro «consellers» che hanno trovato, con lui, rifugio in Belgio. Si salva anche Santi Vila, il ministro che si è dimesso il giorno prima della dichiarazione di indipendenza, in forma di protesta, per lui viene decisa libertà dietro il pagamento di una cauzione.
Il giudice Carmen Lamela, accogliendo la richiesta della Procura generale, ha riscontrato forti indizi di ribellione, sedizione e malversazione. Si tratta, nei primi due casi, di reati politici praticamente inediti in tempi di democrazia. Per giustificare la misura cautelare estrema, la magistrata intravede il rischio di fuga e di reiterazione del reato. Rimanda il suo destino la presidente Carme Forcadell, che, essendo ancora coperta da immunità, è stata ascoltata dal Tribunal Supremo, i cui giudici si sono mostrati più garantisti dei colleghi e hanno concesso ai legali una settimana di tempo per studiare le carte, visto che gli avvisi di garanzia sono arrivati a meno di 48 ore dalla convocazione. Stessa decisione per i membri della «mesa» del Parlamento, la commissione che decide l’ordine dei lavori della Camera catalana.
A tutti vengono contestate le votazioni in parlamento, quelle del 6 e del 7 settembre, con le quali veniva istituito il referendum e la road map della secessione. E soprattutto la dichiarazione unilaterale di indipendenza di venerdì scorso.
La mano pesante della giustizia era attesa, la giudice Lamela è la stessa che aveva inviato in carcere preventivo i due Jordi, i leader della società civile indipendentista, Cuixart e Sànchez, in cella ormai da più di due settimane per aver organizzato una manifestazione, mettendo a repentaglio la sicurezza degli agenti della Guardia Civil impegnati in una perquisizione.
Le incognite sul futuro sono tante, fra meno di 50 giorni si vota e i partiti indipendentisti imposteranno tutta la campagna elettorale sulla repressione spagnola. Un voto dove l’indipendentismo si presenterà unito, magari allargando il campo al partito di Ada Colau e a Podemos. Un terreno scomodo per chi pensava alle elezioni come la fine della sfida all’unità di Spagna.
La rivolta della Catalogna finisce in carcere. È durissima la decisione dell’Audiencia Nacional, il tribunale che giudica i reati commessi in tutto il territorio nazionale: carcerazione preventiva per tutti i ministri dell’esecutivo di Puigdemont, che hanno sfidato le leggi spagnole per tentare di fondare un nuovo Stato. Una svolta drammatica di una crisi che la politica non riesce ad affrontare, e che consegna a un movimento indipendentista diviso, dei martiri da vendicare politicamente alle elezioni del 21 dicembre.
La Catalogna è sotto choc e non solo la metà secessionista. Colpire la Generalitat, dopo il commissariamento della scorsa settimana, viene vissuta come un’umiliazione pesante da molti. Appena si sparge la notizia, vengono rispolverate categorie che suonano vintage nell’Europa del XXI secolo: «Libertà per i prigionieri politici», recita uno striscione esposto dal Comune di Barcellona.
Dopo giorni di smarrimento, gli indipendentisti tornano in piazza: alle sette della sera, in tutta la Catalogna si radunano decine di migliaia di persone che restano in silenzio davanti ai municipi. Le proteste, come sempre da queste parti, sono pacifiche, ma la tensione aumenta e i leader, attraverso gli avvocati, fanno un appello «alla tranquillità».
In manette finiscono il vicepresidente (decaduto) Oriol Junqueras, e sette «ministri»: Jordi Turull, Raúl Romeva, Josep Rull, Dolors Bassa, Meritxell Borrás, Joaquim Forn e Carles Mundó. Sfuggono alla detenzione, almeno per ora, l’ex presidente della Generalitat Carles Puigdemont e i quattro «consellers» che hanno trovato, con lui, rifugio in Belgio. Si salva anche Santi Vila, il ministro che si è dimesso il giorno prima della dichiarazione di indipendenza, in forma di protesta, per lui viene decisa libertà dietro il pagamento di una cauzione.
Il giudice Carmen Lamela, accogliendo la richiesta della Procura generale, ha riscontrato forti indizi di ribellione, sedizione e malversazione. Si tratta, nei primi due casi, di reati politici praticamente inediti in tempi di democrazia. Per giustificare la misura cautelare estrema, la magistrata intravede il rischio di fuga e di reiterazione del reato. Rimanda il suo destino la presidente Carme Forcadell, che, essendo ancora coperta da immunità, è stata ascoltata dal Tribunal Supremo, i cui giudici si sono mostrati più garantisti dei colleghi e hanno concesso ai legali una settimana di tempo per studiare le carte, visto che gli avvisi di garanzia sono arrivati a meno di 48 ore dalla convocazione. Stessa decisione per i membri della «mesa» del Parlamento, la commissione che decide l’ordine dei lavori della Camera catalana.
A tutti vengono contestate le votazioni in parlamento, quelle del 6 e del 7 settembre, con le quali veniva istituito il referendum e la road map della secessione. E soprattutto la dichiarazione unilaterale di indipendenza di venerdì scorso.
La mano pesante della giustizia era attesa, la giudice Lamela è la stessa che aveva inviato in carcere preventivo i due Jordi, i leader della società civile indipendentista, Cuixart e Sànchez, in cella ormai da più di due settimane per aver organizzato una manifestazione, mettendo a repentaglio la sicurezza degli agenti della Guardia Civil impegnati in una perquisizione.
Le incognite sul futuro sono tante, fra meno di 50 giorni si vota e i partiti indipendentisti imposteranno tutta la campagna elettorale sulla repressione spagnola. Un voto dove l’indipendentismo si presenterà unito, magari allargando il campo al partito di Ada Colau e a Podemos. Un terreno scomodo per chi pensava alle elezioni come la fine della sfida all’unità di Spagna.

Tratto da: La Stampa

Foto © Ansa

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