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afghanistan massimo eroinadi Paolo Salom*
Nel Paese la produzione di oppio è in aumento e raggiunge l’80 per cento del totale mondiale: in Europa l’emergenza cresce. Un poliziotto racconta la vita in prima linea: gli agenti afghani, gli agguati, i colleghi caduti sul campo

La guerra di Massimo contro i signori della droga afghani non ha orari, non conosce festività e si svolge, come in quei giochi di intelligenza dove bisogna indovinare una figura immersa in un’altra, sullo sfondo del conflitto contro i talebani. «Gli scontri armati sono un dato di fatto che non si può ignorare — ci dice, seduto su un divanetto nel suo ufficio a Kabul —. Può capitare che un’operazione pianificata per settimane venga interrotta da un attentato che investe l’area dove stai per agire. Oppure i sospetti che stiamo seguendo improvvisamente si facciano scudo dei combattimenti che sbarrano la strada a interi distretti di questo immenso Paese».

Massimo è vicequestore della Polizia in forza alla Direzione centrale servizi antidroga (Dcsa), ufficio interforze (Carabinieri, Polizia, Finanza) che porta la lotta al narcotraffico là dove ha origine. «Siamo in diverse sedi nel mondo — spiega al Corriere — e non svolgiamo soltanto un lavoro di prevenzione contro gli stupefacenti diretti in Italia ma siamo veri e propri esperti per la sicurezza che lavorano presso le rappresentanze diplomatiche». Massimo (per ragioni di sicurezza non possiamo indicare il cognome), un passato da «operativo» in Italia, ha quasi concluso la sua missione biennale in uno dei Paesi più pericolosi non soltanto per il conflitto che lo devasta da oltre un trentennio. Ma anche perché l’Afghanistan, al momento, è il centro nodale del commercio di oppio: qui viene prodotto l’80 per cento della componente fondamentale dell’eroina — droga che è tornata ad affliggere anche l’Italia — con un giro d’affari tra i 2 e i 4 miliardi di dollari (7-10% del Pil nazionale). Secondo i dati dell’ultimo rapporto delle Nazioni Unite (Unodc), nel 2016 le piantagioni distribuite soprattutto nelle regioni di Helmand, Badghis, Nangahar, hanno «regalato» il 43 per cento in più di oppio sull’anno precedente: da 3.300 a 4.800 tonnellate. Non solo, in barba a tutti gli sforzi per convertire i campi a coltivazioni «innocue» (principalmente zafferano), gli ettari destinati alla droga son passati da 183 mila a 201 mila.

Una guerra già persa? Il vicequestore, barba lunga («per rispetto alle usanze locali») precocemente imbiancata, capelli a zero e uno sguardo nervoso di chi è abituato a reagire agli imprevisti in una frazione di secondo, allarga le braccia: «Certo, qui si vanno a smuovere interessi enormi. Ma dobbiamo intenderci, in Afghanistan la droga non è qualcosa di estemporaneo, utilizzata per sballare e divertirsi, nonostante le conseguenze. Qui l’oppio spesso è una necessità». Infatti: chiunque sia passato dall’Afghanistan, sa che molte mamme arrivano al punto di fumarlo per poi soffiare in bocca ai loro bambini, perché non sentano i morsi della fame. Non solo: i proventi di questo commercio, in un Paese annichilito dalle guerre, portano un reddito minimo nelle case dei contadini che altrimenti non avrebbero che tè e pane per arrivare a fine giornata. «E non dimentichiamo poi l’intreccio con armi e contrabbando, le milizie che fanno il bello e il cattivo tempo. Questa è la situazione: e il mio compito qui è soprattutto quello di un osservatore che, in stretta collaborazione con gli uffici di altri Paesi e con i colleghi afghani, cerca di individuare i traffici verso l’Italia, dove si organizzano i carichi, quali rotte percorrono, dove arrivano a destinazione».

Massimo è appena rientrato da un «giro» ma è impossibile estorcergli particolari più precisi sui suoi «compiti». A Kabul, spiega, lavora per elevare il più possibile le capacità operative dei colleghi afghani: «Se partecipo ai loro blitz? La mia preoccupazione è soprattutto che gli uomini del ministero antinarcotici di Kabul assimilino gli standard internazionali, perché un domani dovranno fare tutto da soli. Io, quando sono con loro, devo essere invisibile. Così come avviene per i colleghi delle agenzie antidroga americana, britannica, tedesca. Un lavoro complesso, di squadra. Ma che la guerra rende imprevedibile: un giorno ti trovi in palestra con i colleghi che sono diventati tuoi amici, e poi, il giorno seguente, scopri che il tuo vicino è saltato su una mina, o è rimasto coinvolto in uno scontro a fuoco fatale. Di lui resta solo il ricordo e un funerale». Tra pochi mesi Massimo tornerà in Italia, con la sua pesante (e preziosissima) esperienza nella lotta alla droga. E poi? «Cosa farò? — sorride —. Mi taglierò la barba. Forse».

* inviato a Kabul

Tratto da: corriere.it

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