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di Samantha Lee
Dalla fine degli anni Settanta due figure sono emerse come i più potenti e pericolosi signori della droga del mondo.
Pablo Escobar, figlio di un agricoltore della Colombia rurale, e Joaquín “El Chapo” Guzmán, originario delle aspre montagne della Sierra Madre del Messico, durante i rispettivi regni hanno inondato il mondo con quantitativi incalcolabili di cocaina e altre droghe.
Nel farlo, hanno accumulato scandalose quantità di ricchezze — e esposto il mondo a un livello di terrore inimmaginabile.
Mentre un paragone diretto tra il cartello di Medellin di Escobar e La Federación de Sinaloa di Guzmán è difficile —prodotti diversi, diversi i concorrenti e i mercati — un’osservazione congiunta dei capi dei due gruppi rende l’idea del loro potere e della loro influenza.



Samantha Lee/Business Insider


Pablo Escobar

Nato da una umile famiglia della provincia di Medellin, nella Colombia centro-settentrionale, Pablo Escobar inizia la sua carriera con reati minori. Si dedica quindi al contrabbando e presto inizia a trasportare carichi di marijuana.
Nei tardi anni Settanta, insieme ad altri soci, si dà al traffico di cocaina al di fuori della Colombia (che resta uno dei principali produttori di cocaina al mondo), e agli inizi degli Ottanta, il loro cartello di Medellin trasporta cocaina per un valore di centinaia di milioni di dollari all’insaziabile mercato statunitense.



Pablo Escobar con il figlio, davanti alla Casa Bianca nel 1981.
Sebastian Marroquin/Sins of my Father


Mentre è difficile calcolare i guadagni e le ricchezze di Escobar, si stima che a metà degli anni Ottanta rastrellasse 420 milioni di dollari alla settimana, approssimativamente 22 miliardi all’anno. Alla fine del decennio, forniva l’80% della cocaina al mondo — contrabbandandone 15 tonnellate al giorno negli USA.

Spendeva generosamente per sé e la propria famiglia, ma finanziava anche iniziative locali — costruendo abitazioni, campi da calcio, e distribuendo soldi ai poveri. Atti di carità che gli guadagnarono il sostegno popolare e rafforzarono la sua immagine di uomo del popolo.

“Pablo stava guadagnando così tanto, che ogni anno stimavamo che il 10% dei soldi fosse irrecuperabile perché se lo mangiavano i topi nei depositi o veniva danneggiato dall’acqua o perduto”, scrisse il fratello Roberto in un libro del 2009.

L’impero illegale di Escobar attirò l’attenzione del governo colombiano, che cercò di bloccare le sue attività. Gli scontri tra il governo e i trafficanti di droga scatenarono anni di violenza in Colombia.
Il governo colombiano, con il sostegno USA, dispiegò una forza speciale per deporlo (anche se tale forza è stata malamente decimata nei primi scontri con il cartello). A metà del 1991, la campagna governativa costrinse Escobar a cedere. Negoziò un patto che gli permise di rinchiudersi in un carcere da lui progettato negli altopiani presso Medellin.



Colombian Government Photo


A metà del 1992, le prove che Escobar stesse guidando l’attività del cartello dalla sua prigione costrinse il governo a cercare di arrestarlo. Invece, scappò dalla prigione e si diede alla macchia.

In questo periodo, insieme alla sua famiglia viaggiò da un nascondiglio all’altro senza fermarsi per più di due giorni nello stesso luogo. Una volta, Escobar diede fuoco a 2 milioni di dollari per proteggere la famiglia dal freddo.
Finì per separarsi dalla famiglia per nascondersi da solo; ma il 2 dicembre 1993 la sua fortuna finì. Le forze di sicurezza colombiane — con la presunta collaborazione di Los Pepes, un gruppo paramilitare che dava anch’esso la caccia a Escobar — circondarono la casa di Medellin in cui si nascondeva.

LEGGI QUI LA STORIA DI “MI SANGRE” L’EREDE DI ESCOBAR

Quando fecero irruzione dalla porta Escobar tentò la fuga dal tetto. Come in molti dettagli della sua vita, non è ancora chiaro chi esplose il colpo che uccise il più potente — e più pericoloso — signore della droga al mondo.

Joaquín ‘El Chapo’ Guzmán



Joaquin “El Chapo” Guzman scortato da soldati durante una deposizione nell’hangar del Procuratore Generale a Città del Messico, Messico, 8 gennaio 2016
. REUTERS/Edgard Garrido


Anche se Joaquín “El Chapo” Guzmán non è il primo barone della droga a emergere dalle montagne della Sierra Madre nello stato messicano nord-occidentale di Sinaloa, sotto il suo controllo l’omonimo cartello guadagnò una reputazione globale.

Come capo del cartello di Sinaloa, Guzmán sovraintende alle coltivazioni di marijuana e papaveri da oppio che ricoprono circa 6 milioni di ettari all’interno del Messico, una superficie più estesa del Costa Rica, come anche a una rete di spaccio in 17 dei 32 stati messicani, e opera presumibilmente in 50 nazioni.

Si stima che il cartello controlli il 35% della cocaina prodotta in Colombia e, secondo fonti DEA, nel 2013 abbia rifornito “l’80% dell’eroina, della cocaina, della marijuana e metamfetamina” che inondava il mercato della regione statunitense di Chicago.



La rete di distribuzione negli USA del cartello di Sinaloa
. Business Insider/Andy Kiersz


Si crede anche che il cartello di Sinaloa abbia un immenso mercato internazionale. In anni recenti, l’attività del cartello è stata denunciata in Australia, a Hong Kong e nelle Filippine.

E, secondo l’Ufficio ONU sulle droghe e il crimine, le organizzazioni latino americane come il cartello di Sinaloa stanno cercando di espandere le proprie operazioni in nuovi mercati, usando le vie del contrabbando attraverso Africa e Asia.



Il flusso dei principali traffici di cocaina
. The World Drug Report


Anche “El Chapo” ha conosciuto il carcere. Nel 1993, poco dopo aver scalato le gerarchie del cartello di Sinaloa, Guzmán è stato arrestato in Guatemala — dov’era fuggito dopo che un cardinale cattolico era rimasto ucciso in una sparatoria del cartello — e rinchiuso in una prigione messicana dove restò fino al 2001, quando scappò, a quanto pare nascondendosi in un carrello della biancheria sporca.
È stato in fuga per tredici anni prima di essere arrestato a Mazatlan, sulla costa di Sinaloa, nel febbraio 2014. Diciassette mesi più tardi (un periodo di reclusione che non impedì le sue attività manageriali), riuscì in un’altra spettacolare fuga.
Dopo sei mesi alla macchia, Guzmám è stato ricatturato ai primi di gennaio a Los Mochis, una località dello stato di Sinaloa non lontana dal suo paese natale. Da quando è stato incarcerato, il legal thriller che lo vede protagonista non accenna a diminuire.
I suoi legali hanno presentato numerosi ricorsi alla sentenza nei suoi confronti, e sembra che lo stesso Guzmán abbia fatto delle aperture a un accordo con le autorità USA. La moglie ha denunciato il suo trattamento carcerario alla radio.
Tra le dispute legali, persistono le preoccupazioni circa un’altra fuga. A metà maggio, Guzmán è stato trasferito dalla sua cella di una prigione nel Messico centrale in un altro istituto furi da Ciudad Juarez.



Il ministro degli interni messicano ha tweettato questa immagine che mostra “El Chapo” Guzmán in carcere
. Twitter/@osoriochong


Pare che la mossa sia stata indotta da un improvviso blackout nel carcere in cui era detenuto, che probabilmente ha spaventato molti alti ufficiali messicani che sarebbero rimasti umiliati da un’altra fuga.

A fine maggio, il governo messicano ha approvato l’estradizione di Guzmán nei tribunali statunitensi del Texas e della California, e i suoi legali hanno reagito con ulteriori ricorsi.
A metà agosto, gli avvocati di Guzmán hanno vinto un ricorso per riportare il boss nel carcere del Messico centrale, da cui è già fuggito una volta.
Per il momento, Guzmán resta rinchiuso nei pressi di Ciudad Juarez, mentre è probabile che i riesami dell’ordine di trasferimento continuino almeno per altre settimane. Ma l’estradizione incombe e, mentre Guzmán è dietro alle sbarre, presumibilmente al sicuro, lo stesso potrebbe non valere per il resto del suo clan.
A metà giugno, molti uomini armati hanno circondato la casa della madre di Guzmán nello stato centrale di Sinaloa.



Uomini armati fanno irruzione in un ristorante a Puerto Vallarta durante il rapimenti di almeno uno dei figli di “El Chapo” Guzmán
. Omar Gonzalez/YouTube


L’assalto, che potrebbe essere stato lanciato da un cartello coinvolto in una faida con quello di Sinaloa, ha lasciato molti morti sul campo.
La possibilità che una guerra tra cartelli colpisca la famiglia Guzmán si è aggravata in agosto, quando uomini armati hanno assaltato un ristorante di lusso a Puerto Vallarta, sulla costa pacifica dello stato di Sinaloa, sequestrando il figlio più giovane di Guzmán, Alfredo.
Alfredo fu rilasciato indenne pochi giorni dopo. Ma probabilmente per “El Chapo” — dietro alle sbarre con poche risorse e con un controllo sempre minore sul suo cartello — il messaggio è stato forte e chiaro.
Negli ultimi mesi, il team legale di Guzmán ha continuato a opporsi all’estradizione, presentando ingiunzioni e ricorrendo ai tribunali messicani di grado superiore.
Ma eventi recenti suggeriscono che l’ultima risorsa cui i legali di Guzmán sono ricorsi — appellandosi alla corte suprema — possa non portare a niente, in quanto sembra che la corte sia riluttante ad accogliere il caso riguardante il boss.
Il trasferimento di Guzmán negli USA nei prossimi mesi appare sempre più probabile.
Ormai Guzmán è fuori dal gioco da molti mesi, e ha lasciato il proprio cartello senza una guida. Subito dopo la sua cattura agli inizi dell’anno, il Messico ha vissuto un picco di violenza. Con Guzmán negli Stati Uniti, e la criminalità messicana legata alla droga senza un leader riconosciuto, la violenza può solo aumentare.

(hanno collaborato Amanda Macias e Christopher Woody)

Tratto da: it.businessinsider.com

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