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Epilogo

Sono nel Sundarbans, tra le isole di mangrovie dell'immenso delta del Gange, nel Golfo del Bengala. Ci sono arrivato di notte, stanco morto dopo un viaggio dall'Italia costellato da ritardi. La barca che mi portava alla mia isola procedeva quasi senza rumore, senza luci e fari tra canali illuminati dalla più grande Luna piena degli ultimi anni (così mi hanno detto). In quello scenario la stanchezza del viaggio si è trasformata in uno stato di semi allucinazione, cullato dal dondolio della barca. I giorni seguenti non vedrò tigri. Vedrò coccodrilli, varani, daini, scimmie, uccelli di ogni tipo. Quelli sì, ma non tigri. Eppure le "video traps" hanno mostrato che ci sono cuccioli e che la popolazione di tigri del Bengala è stabile. Ma sono elusive. Fin quando non decidono che un pescatore che sta raccogliendo granchi e gamberi è più comodo da prendere che non un daino o una scimmia. 50 è la media annuale del numero delle vittime.  
Dopo qualche giorno mi sposterò a Santiniketan, dove Rabindranath Tagore stabilì la sua università, la Visva Bharati il cui motto è "Yatra visvam bhavatyrkanidam", che in Sanscrito significa "Dove il mondo fa la sua casa in un solo nido". Lì andrò a un matrimonio, il motivo che mi ha portato in India. Avverrà con un rito non consueto, quello appunto che si rifà alle indicazione di Tagore, nume tutelare di ogni bengalese che si rispetti, di destra o di sinistra, capitalista o comunista. Un'eredità enorme, incombente. Passerò le mie notti nel dormitorio del laboratorio teatrale di Abani, un artista gentile e geniale, in mezzo al bosco tra i cui alberi ragni enormi tessono le loro grandi tele. Buon per noi, meno zanzare. Tanto in un villaggio vicino mi accorgerò subito che una delle cose peggiori è il morso di un tipo particolare di formica. Sissignori, non una puntura di scorpione da raccontare con particolari esotici e un po' eroici, non il morso di un ragno tropicale, di una scolopendra o di un serpente, ma l'umiliante morso di una modestissima formica. Un male che non vi dico e un gomito gonfio per giorni.
Specialmente imponenti sono i ragni che sorvegliano l'entrata all'edificio della cucina-refettorio, dove mi preparo un tè e lo sorseggio rimirando manifesti di rappresentazioni passate e di Jerzy Grotowski, il grande regista polacco che rimase colpito dalle performance del living theatre di Abani nelle strade di Calcutta, negli anni Sessanta, e divenne suo mentore.
In quella sorta di ashram teatrale condividerò la stanza con un ospite particolare: un membro del Comitato Centrale del Partito Comunista Indiano Marxista-Leninista, CPI(M-L), da non confondersi col sopra citato CPI(M). Il CPI(M-L) è infatti un'organizzazione politica composta dai reduci (e superstiti) della rivolta naxalita degli anni 60-70, mortalmente avversata dal CPI(M). Con questo compagno di stanza saranno, per forza di cose, due notti di discussioni, intervallate da una caccia a un grosso ragno impiccione, da me delicatamente sfrattato dalla stanza, incolume (sia io che il ragno).
Anche nel PCI(M-L) ritengono che il pericolo principale sia oggi l'aggressività dell'imperialismo statunitense e stanno a vedere che cosa combinerà Trump, senza essere troppo interessati a quel che dice e a quel che dicono di lui. E per validi motivi.
Perché a proposito di razzismo e maschilismo, questo partito è impegnato in lotte che noi nemmeno ci immaginiamo. Altro che le parole non ortodosse ed estremiste del president-elect e il suo poco rispetto per le donne! Qui si parla di stragi di tribali, si parla di donne a cui massacrano il seno perché è simbolo di fertilità, per umiliare e terrorizzare la loro comunità e che vengono violentate e spesso uccise dalle forze di sicurezza e dagli sgherri dei latifondisti e delle multinazionali, si parla dello stupro come arma di repressione legalmente protetta da leggi speciali. Un'arma utilizzata metodicamente.
Come avrebbe detto Marx, qui tutto è in dimensione asiatica rispetto all'Italia, anche razzismo e femminicidio. Le accuse di "trumpismo" contrapposte alle rivendicazioni di "antirazzismo" o di "femminismo" che si fanno da noi, in India verrebbero viste come esotismi poco capibili.
Attenzione ai pensieri politicamente corretti! Sono trappole in cui si può cadere senza rendersene minimamente conto e quando ce ne rendiamo conto è troppo tardi. In Occidente il pensiero politicamente corretto è una melassa che impiastriccia tutto e tutti, che ormai cola da sola senza nemmeno che ci sia bisogno della presenza costante del pasticciere. Si autoriproduce.
Tiro fuori dalla valigia il kurta pajama, la Jawahar coat e lo shawl che ho preso a Calcutta per il ricevimento del secondo giorno. La giovane amica che mi consigliava aveva un ottimo gusto, specialmente in fatto di abbinamento dei colori. Ma il primo giorno ho deciso che mi metterò in ghingheri all'occidentale: giacca e cravatta. E siccome il pranzo che precede il matrimonio è all'insegna dell'ecumenismo socialista - nessuna barriera etnica, di classe o di casta - in quella mise mangerò assieme ai contadini e ai tribali di tutti i villaggi del circondario. Rigorosamente alla bengalese, cioè con la mano destra, su piatti di foglie di banana intrecciate. Nella variopinta pluralistica comunità che si forma attorno ai tavoli nessuno farà caso a come sono vestito; è un abbigliamento come un altro. Mi sento a mio agio. Incrocio l'anziana vedova che molti anni prima mi curò una brutta ferita con delle erbe (in questo villaggio non ci sono farmacie). L'abbraccio, mi riconosce e si commuove. Mi sento a mio agio ma non sono antioccidentale. Anzi, amo la civiltà occidentale. L'Occidente mi fece e l'Occidente mi disferà. Ma ogni tanto devo scappare in India a disintossicarmi dalla melassa di una civiltà in fase di putrescenza e che rinnega se stessa, per cercare di sottrarmi al suo lavaggio del cervello, alla sua candeggiatura di neuroni, alla sua strage di sinapsi, alle sue equazioni superficiali, preconcette e ideologiche ma all'apparenza tanto razionali e progressiste.

Tratto da: megachip.globalist.it

Foto © Shobha

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