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manif medina almadadi Jean Georges Almendras - Video
Fa parte della condizione umana piangere dopo un attentato mafioso, dopo la solitudine a cui sono state esposte le vittime che con il loro sangue hanno bagnato le strade, lacerando l’anima di una società che non sa fare altro che apprendere la notizia della tragedia con impotenza ed indignazione. Mentre sono pochi coloro che comprendono l'essenza del danno subito.
Quel 16 ottobre del 2014, giorno in cui il giornalista Pablo Medina e la sua assistente Antonia Almada hanno trovato la morte sotto i colpi di arma da fuoco, i due non avevano la scorta. La tragica notizia rigò di lacrime i volti di molti paraguaiani. Ma in alcuni casi erano solo lacrime di coccodrillo.
Fino a quel momento Pablo Medina era solo. Una solitudine propria di coloro che lottano forti delle proprie convinzioni e non del protagonismo della speculazione e della fama. Fino a quel momento la ola dei media, che poteva fare da scudo protettore, non aveva la portata dei nostri giorni. Oggi lamentiamo la sua perdita in ogni momento e commemoriamo la sua memoria ogni 16 ottobre, reclamando giustizia. Fino a quel momento Pablo era un emarginato dell’informazione, percorreva strade e zone rurali della sua terra natale portando avanti il suo lavoro di denuncia.
A due anni dalla scomparsa di Pablo Medina e Antonia Almada c'è chi porta avanti senza sosta il loro impegno per evitare che l’impunità faccia a pezzi nuovamente l’uomo incorruttibile, mentre altri mettono lo stesso impegno per far sì che avvenga il contrario. Nell’ombra fanno enormi sforzi per distruggere completamente la coscienza e la memoria nei confronti dei martiri. Quella memoria indispensabile per il risveglio dei popoli e per evitare che la lista dei martiri aumenti, ma sappiamo, se leggiamo i quotidiani e vediamo la televisione, che questo non avviene.
L’impunità nuoce quando, ad esempio, si dilunga all’infinito il processo contro il principale sospettato come mandante dell’omicidio di Pablo: Vilmar “Neneco” Acosta. O quando in Brasile viene fermato uno dei sicari e si aspetta un’eternità per il mandato di estradizione. O quando risulta ancora latitante il suo complice. O quando Acosta, rinchiuso nella sua cella nel carcere di Tacumbú, sorprendentemente ottiene il via libera dalle autorità per essere intervistato da una troupe televisiva per circa un’ora. Un tempo sufficiente affinché questo soggetto possa tutelare la propria immagine di fronte all’opinione pubblica, visto che le sue parole e la rivendicazione di innocenza non sono ancora state ascoltate dalle autorità giudiziarie. O per infangare la figura di Pablo Medina, riempiendolo di ogni sorta di espressioni ingiuriose.
A due anni da quella tragedia sappiamo che la sua morte era annunciata da tempo. C’erano le minacce e la paura che non lo lasciavano in pace. Sapeva di essere condannato, ciononostante non si arrendeva.
Pablo Medina, minacciato e sotto scorta per un periodo tempo, fu opportunamente consegnato ai suoi assassini, in un paese storicamente manipolato, divorato dalla corruzione e dalla criminalità, sul ciglio della strada, indebolendo le democrazie ipocrite e le speranze popolari.
Proprio per commemorare il secondo anniversario della scomparsa di Pablo e Antonia andavo in Paraguay, partendo da Montevideo (Uruguay). Lungo il tragitto, attraversandone i confini, ricordavo il nostro viaggio dell’anno scorso per il primo anniversario dell’attentato, fino al punto esatto in cui avvenne il duplice omicidio.
Non eravamo quel centinaio di persone che diedero vita ad una manifestazione in quel 16 Novembre 2014 nella Plaza de la Democracia, appena un mese dopo il mortale attacco. Non siamo riusciti nemmeno a raggiungere il numero di giornalisti presenti nel 2015. Ma eravamo lì, sebbene in pochi. Insieme alla famiglia di Pablo Medina, ai suoi tre figli, a Olga, la sua sposa, ai suoi fratelli e cognati, al padre, il cui sguardo fermo e il passo calmo non sono stati intaccati dalla scomparsa della sua compagna di vita, Angela. Siamo stati insieme agli amici di Pablo Medina di Curuguaty, città dove viveva fino al momento della sua morte. Con i cittadini, vite semplici che hanno capito il senso dei nostri viaggi e il rendere omaggio a chi è caduto sotto il piombo mafioso. Ma ancora di più, che hanno capito in quei giorni la solitudine della lotta di Pablo.
Per la sua commemorazione abbiamo anche presentato un documentario elaborato due anni fa ma aggiornato a quest’anno con gli ultimi fatti accaduti.
“Pablo”, questo il titolo, dura 59 minuti. Un tributo alla sua persona e a quella di ognuno dei 17 giornalisti paraguaiani uccisi in democrazia. La “democrazia” instaurata dopo la caduta dello stronismo.
“Pablo”, che denuncia la perversa trama del duplice omicidio, che rinnova il senso e l’essenza di una lotta a tutto spiano contro la corruzione, il narcotraffico e la narcopolitica in Paraguay, principalmente lungo la ‘frontiera seca’ con il Brasile, dove risiedeva Pablo. Una lotta che comporta sacrifici, delusioni e persino la morte come metodologia per ridurre al silenzio.
“Pablo” non rappresenta altro che un nostro granello di sabbia per prendere coscienza del vero - e molto grave - problema che devono affrontare i paraguaiani nella loro terra. Non si tratta di una produzione ai fini di marketing o a fini economici: la sua realizzazione è dovuta all’impegno condiviso tra molti collaboratori del Paraguay e dell'Argentina. Una raccolta di testimonianze, immagini, idee, vissuti.
Limitarsi a piangere una vittima, come se così potessimo esorcizzare i demoni del rimorso per non essere stati lì dove dovevamo, non è sufficiente. Bisogna agire in prima persona. E se siamo stati assenti prima della tragedia, ora deve essere diverso. Dobbiamo essere presenti, rendere loro omaggio oltre le parole e incentivare il nostro contributo. Perché solo così rispetteremo il sacrificio di Pablo.

*Foto di copertina: www.curuguatydigital.com


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