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fiaccolata caso regeni lastampadi Francesca Paci
Parla il consulente della famiglia, in carcere dal 25 aprile per attività sovversive e liberato dalle autorità del Cairo: “Mi hanno picchiato, volevano il mio telefono”

Ahmed Abdallah è libero. Sabato, nelle ore in cui dall’incontro tra gli inquirenti del Cairo e la Procura di Roma emergeva un primo vero abbozzo di collaborazione da parte dell’Egitto sull’assassinio di Giulio Regeni, con l’ammissione di un’indagine a suo carico, il consulente legale della famiglia del ricercatore friulano a sorpresa è stato scarcerato. 

Abdallah, che è anche presidente della Commissione egiziana per i diritti e le libertà (Ecfr), era stato arrestato il 25 aprile scorso con una procedura di fermo da allora rinnovata di mese in mese. L’accusa ufficiale era quella di attività sovversiva e partecipazione a manifestazione non autorizzata (quella contro la cessione ai sauditi delle isole Turan e Sanafir a cui Abdallah non sarebbe mai arrivato) ma in un’intervista rilasciata a maggio a La Stampa da dentro la gabbia allestita nel tribunale di Abassya il ragazzo spiegava come gli ripetessero di continuo che era in cella per il suo impegno nel caso Regeni. Mentre si prepara a festeggiare l’Eid in casa della madre, Ahmed Abdallah ci parla al telefono con la foga di chi ha taciuto a lungo. 

Innanzitutto, come sta dopo quattro mesi e mezzo di carcere?
«Libero, ancora incredulo, ma bene. Ho avuto fortissime pressioni psicologiche e per settimane ho condiviso una cella di pochissimi metri quadrati con altre 13 persone. Mi hanno picchiato una sola volta, un mese fa, quando volevano che consegnassi loro il mio iPhone. Sapevano che ne avevo uno e lo nascondevo, colpivano duro sulle spalle, ma non hanno ottenuto nulla. Poi di colpo, la settimana scorsa, mi hanno trasferito in isolamento, stavo seduto sul pavimento, non avevo nulla tranne una t-shirt. E li, altrettanto a sorpresa, mi hanno annunciato che mi liberavano». 

Ha o ha avuto l’impressione che la sua scarcerazione sia legata agli ultimi sviluppi del caso Regeni, a partire dall’ammissione di un fascicolo aperto e chiuso su di lui all’inizio di gennaio che l’Italia legge come un passo avanti?
«Non sono stato arrestato perché colpevole di qualcosa e non sono stato rilasciato perché trovato innocente: nonostante le accuse formali restino in piedi, la mia vicenda giudiziaria è interamente politica. Hanno usato la scusa del mio impegno con l’Ecfr, un pretesto. Mi avevano cercato per arrestarmi anche a gennaio, erano venuti nel caffè che frequentavo senza trovarmi. Routine per noi. Succede di tanto in tanto. Sono tornati dopo tre mesi ma la novità era che mi occupavo di Regeni, mi hanno preso per Regeni. I poliziotti dell’ultima prigione in cui sono stato in isolamento non sapevano neppure cosa facessi o di cosa fossi presidente, menzionavano solo Regeni, esattamente come i talk show sul caso sulle tv governative». 

E’ stato interrogato in questi mesi e, se si, cosa volevano sapere?
«All’inizio si, tanto la State Security quanto la polizia. Poi meno. Mi facevano sempre la stessa domanda, volevano sapere cosa avessi a che fare con Regeni, dicevano che la mia relazione con lui faceva di me un soggetto pericoloso. Ma io non gli ho mai risposto, nulla». 

Che idea si è fatto delle ultime novità, il capo del sindacato degli ambulanti Mohammed Abdullah che ieri, nonostante alla Rai avesse detto il contrario, ha ammesso al giornale egiziano Aswat Masriya di aver denunciato Giulio Regeni alla polizia?
«Non ne so molto ma non mi basta. La polizia che finora ha sempre negato di seguire e controllare Regeni ora ammette di averlo “indagato”? Bene, è un passo avanti. E poi? Cosa è accaduto dopo? Perché loro lo sanno, devono saperlo, il 25 gennaio il Cairo era imbottito di polizia dovunque e Giulio è sparito. Sotto i loro occhi? E i cinque innocenti ammazzati per venderci la verità incredibile che fossero i colpevoli? Aspettiamo di sapere, ora che sono libero ricomincerò a chiedere». 

Di nuovo? Non ha paura?
«Andrò avanti finché non sapremo chi ha ucciso Giulio, lo merita e noi egiziani glielo dobbiamo perché era uno di noi».

Tratto da: lastampa.it

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