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111 condanne per la rivendicazione delle terre a Curuguaty
di Jean Georges Almendras
Ad Asunción, capitale del Paraguay, un Tribunale ha condannato undici campesinos a scontare pene tra i 4 ed i 35 anni di prigione per il massacro di Curuguaty, un fatto di sangue avvenuto nella zona rurale di Marina Kué, dove persero la vita circa 17 persone, tra campesinos e agenti di polizia nelle prime ore del mattino del 15 giugno del 2012 e che mise in evidenza la lotta campesina che rivendicava terre dello Stato, destinate proprio ai campesinos, e gli abusi della polizia coperta dalle autorità. Il fatto di sangue portò alla caduta del governo del presidente Lugo e fu avviato un processo che ha visto arbitrarietà e manipolazioni. La prima fase si è conclusa lo scorso 11 luglio con le condanne per gli undici accusati. Tutti esclusivamente campesinos. Infatti sono loro ad essere ritenuti colpevoli della morte degli agenti. Sembrerebbe che la morte dei campesinos quel fatidico 15 giugno non conti niente. Ed è proprio questo il punto che induce a pensare a tante persone che il processo è stato manipolato criminalizzando la classe campesina, colpevole di occupare (sarebbe più adatto dire di voler vivere) terre dello Stato destinate proprio a quell’utilizzo. E non solo, ci induce anche a pensare che nel Paraguay democratico di oggi le azioni di terrorismo di Stato ci sono ancora e che la giusta rivendicazione di terre sembra più un delitto che un diritto. Deplorevole, da ogni punto di vista, tutto fa sembrare che i campesinos abbiano vissuto il loro secondo massacro di Curuguaty, ma questa volta in un Palazzo di Giustizia.
Dal giorno stesso dei fatti, la classe campesina paraguaiana è stata letteralmente calpestata di fronte all’opinione pubblica locale ed internazionale. Da quel momento, dopo la morte di undici lavoratori rurali e di sei poliziotti - un episodio alquanto confuso, carico di irregolarità ad opera dalle forze di polizia -, una fascia del popolo paraguaiano ha dovuto sopportare lunghi e tortuosi giorni di incertezza, mentre erano in corso le indagini, fino alla risoluzione finale, arrivata precisamente lunedì 11 luglio 2016, quando il Tribunale che si è occupato del caso ha dettato sentenza contro gli accusati. Secondo le informazioni che giungono dal Paraguay attraverso i mezzi stampa locali e le agenzie internazionali, i giudici hanno deciso di addossare la responsabilità per la morte del commissario Erven Lovera al campesino Rubén Villalba, condannato a 30 anni di prigione e cinque a misure di sicurezza restrittive. È stato riconosciuto colpevole di omicidio colposo, di tentato omicidio, di invasione di immobile privato e di associazione criminale.

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Secondo l’accusa è stato lui, Villalba, a sparare uno dei tre colpi mortali contro il Commissario Lovera, a quel tempo Capo del Gruppo di Operazioni Speciali. L’accusato, secondo le indagini, era inoltre armato di un fucile.
I membri della Corte, che hanno condiviso appieno la posizione del giudice (il magistrato Jalil Rachid, nominato dall’attuale presidente paraguaiano Horacio Cartes), hanno riconosciuto come coautori dell’omicidio del Commissario i campesinos Luis Olmedo (condannato a 20 anni di prigione), Arnaldo Quintana e Néstor Castro (entrambi condannati a 18 anni). Testualmente sono stati riconosciuti colpevoli di atti punibili come omicidio colposo in qualità di coautori, e di associazione criminale.
Inoltre la Corte ha sostenuto la tesi dell’accusa e ha quindi condannato a 6 anni di prigione per complicità di omicidio, per essersi posizionati in prima linea insieme a bambini e anziani in modo da mostrare una tranquillità apparente di fronte ai poliziotti giunti per imporre l'abbandono delle terre di Campos Morombí, a  Lucía Agûero, María Fany Olmedo e Dolores López. Mentre Felipe Benítez Balmori, Adalberto Castro, Alcides Ramírez e Juan Tillería sono stati condannati a 4 anni ciascuno per invasione di immobile.

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Bisogna sottolineare che le indagini non hanno rilevato delle responsabilità, né tra le file della polizia, né dei campesinos, per la morte degli 11 campesinos durante l’occupazione delle terre, e che le organizzazioni di campesinos e militanti difensori dei diritti umani hanno accusato il giudice Rachild di occultamento delle prove.
Come si sono svolti i fatti in quel 12 giugno del 2012? Il massacro ebbe luogo in una tenuta rurale appartenente a “Campos Morombí”, a circa 1.600 metri della Ruta “Las Residentas”. Forze della polizia imposero l'abbandono delle terre occupate dai campesinos che consideravano, con fondamento di causa, di avere diritto al loro utilizzo perché di proprietà dello Stato. In quell’occasione, i repressori furono accompagnati dai giudici Diosnel Giménez e Ninfa Aguilar, i quali erano in possesso di un ordine di perquisizione firmato dal giudice penale di garanzia di Curuguaty, José Benitez.
Cosa è accaduto durante le fasi di sgombero? In un determinato momento scoppiò un'infernale sparatoria, tra urla e gente che scappava. La polizia accusò i campesinos di essere i responsabili della sparatoria e dopo circa 30 minuti di terrore caddero senza vita sotto gli spari undici campesinos. Undici vittime dell’irragionevole attacco della polizia che, secondo le autorità,  si svolse invece in modo pacifico. Davvero pacifico. Undici vite perse, alle quali si aggiungono i sei agenti morti per proiettili assassini.

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Colpi di arma da fuoco sparati dalle file dei campesinos? Impossibile. I proiettili erano di armi automatiche. I campesinos portavano pali, machete, zappe ed eventualmente qualche fucile di vecchia fabbricazione. Non erano in possesso di armi moderne. Ma secondo le forze della polizia ed i magistrati, e secondo quanto emerse nel processo che ne seguì, i campesinos erano ben attrezzati per difendersi. Una vera calunnia. Una vera farsa. Una vera manipolazione della verità che mirava a sconfiggere la lotta campesina. Distruggerla implacabilmente. E così è stato, a giudicare dalle sentenze dello scorso 11 luglio, mentre il 18 luglio ci saranno le motivazioni della sentenza.
Da dove sono partiti gli spari che uccisero campesinos e agenti? Né la Procura né la Polizia ha risposto doverosamente a questa domanda. Forse sicari occulti tra la vegetazione del luogo? Chi erano questi sicari? Che appoggio logistico avevano nella zona che era stata circondata dalle forze di polizia incaricate dello sgombero delle terre? I sicari hanno avuto difficoltà a fuggire del luogo, nonostante la forte presenza delle forze dell’ordine?

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Questa storia di sicari, sopraffazioni e impunità, purtroppo, è già nota ai paraguaiani. In particolare a coloro che sanno perfettamente chi ha la situazione in pugno nella democrazia del Paraguay di oggi, dove l’impunità e la prepotenza (che ha l’aria di sottile terrorismo di Stato) sembrano istituzioni intoccabili più che flagelli da combattere.
Preso atto delle sentenze le famiglie dei campesinos condannati e tutti coloro che hanno ben compresso la vera dinamica dei fatti accaduti durante lo sgombero delle terre di Campos Morombí non possono provare altro sentimento che quello dell’impotenza e della rabbia. Il minimo che possiamo fare è denunciare tutti quegli intrecci crudeli e il vero retroscena di un processo irregolare e tendenzioso, ma, soprattutto, di parte.
Non a caso, da quel 15 giugno 2012 al presente mese di luglio 2016, il processo contro i detenuti, oggi  condannati, si è svolto in un contesto di irregolarità indescrivibili, al punto che la sentenza è stata accolta da grida di protesta e di rifiuto dai presenti nell’aula del Palazzo di Giustizia, ad Asuncion, che hanno dato origine a incidenti. Più che giustificata la protesta di fronte ad uno Stato sfacciato.
Madri, padri, sorelle, fratelli, figli e figlie e amici dei condannati sostenuti costantemente da cittadini liberi hanno fischiato la Corte di Giustizia e tutti i rappresentanti del potere, consapevoli dell’enorme farsa legale che si stava consumando ancora una volta in Paraguay e che ha il sapore amaro dell’ingiustizia.
Da parte sua, Victor Azuaga, avvocato difensore dei campesinos – riferisce il quotidiano Última Hora - ha messo in luce punti critici precisi che potrebbero avere il loro peso nella richiesta di annullamento della condanna.
Azuaga puntualizza: 1 – Sostituzione di etichette. I pm modificarono la dicitura del fatto punibile omettendo di presentare la dovuta notifica agli avvocati difensori, affinché questi potessero preparare la propria difesa al riguardo. 2 – Insuficienze  di prove. La Procura non presentò alcuna prova eclatante in grado di dimostrare che i campesinos spararono contro gli agenti, e nemmeno un testimone affidabile. Un teste chiamato a dichiarare, la cui identità non è data conoscere, cadde in diverse contraddizioni al momento di “denunciare” le persone coinvolte. 3 – Ricusazione senza risposta. Presentata al Tribunale per la difesa dei campesinos. 4 – Assenza di Dolores López. La lettura della sentenza dovrebbe essere annullata, secondo l’avvocato, perché non era presente Dolores López, in quel momento in infermeria per un malore. 5 – Il Giudice era di parte. Il Giudice Liliana Alcaraz fece un gesto di “vittoria” e di gradimento per la decisione del Giudice. La difesa dei campesinos presenterà questo gesto come uno dei motivi per l’annullamento del processo. 6 – La sentenza non è stata letta in guaranì. Secondo l’articolo 399 del Codice Penale, la lettura della sentenza doveva avvenire in lingua guaranì, essendo una delle lingue ufficiali della Repubblica del Paraguay, oltre ad essere la lingua madre dei processati.

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Vale la pena ricordare che il caso Curuguaty è stato uno dei più complessi, che ha richiesto sette mesi, tra alti e bassi.
La difesa ha presentato ricusazioni fino al 15 Dicembre 2015 quando, finalmente, ebbe iniziò ufficialmente il processo. La stampa locale segnalava un particolare riguardante il processo che senza dubbio suscitò parecchio clamore, e cioè che non si fermò durante le ferie giudiziarie, cosa che non ha precedenti nella storia della giustizia paraguaiana. Per tutto il mese di gennaio 2016, per la prima volta, si è svolto un processo orale pubblico. Nel pieno delle ferie giudiziarie, la Corte ascoltò attentamente la testimonianza di vari agenti di polizia che parteciparono allo sgombero di Giugno 2012. Era evidente che si voleva accelerare il polemico processo e ascoltare una sola campana.
Anche alcuni giornalisti paraguaiani hanno espresso ulteriori critiche sul processo. Sorprende che durante le indagini condotte dall’ex magistrato del caso Jalil Rachid – oggi Vice Ministro di Sicurezza - fu presentato un certo tipo di prove contro gli accusati. Ad esempio lanterne, cinture, analgesici, fogli con numeri annotati, ago e filo, machete arrugginiti, rotoli di carta igienica, tagliaunghie, profumi e altri oggetti di uso quotidiano. “Ogni prova è importante. Questa è un’indagine seria e responsabile”, queste la parole del giudice Rachid. L’intera gestione del caso ha suscitato la perplessità dei cittadini, e gli studenti dell’Università Cattolica hanno chiesto formalmente che il pm in questione fosse destituito come docente dell’Università.
Perché tanto accanimento? Perché un così esasperato esercizio del potere contro persone che, nell’occupare le terre di proprietà della ditta “Campos Morombì”, hanno protestato sul loro uso ribadendo che in realtà erano di proprietà dello Stato? Forse dietro l’ordine di sgombero si celano potenti interessi, magari dei proprietari terrieri di sempre?
Sin dal primo momento, l’occupazione delle terre da parte dei campesinos ha disturbato alcuni settori della società paraguaiana che si sono inquietati. I campesinos si stavano intromettendo negli interessi del proprietario terriero. Quindi, bisognava toglierli di in mezzo.
E se quell’operazione, oltre ad avere un costo di vite umane, comportasse un qualche vantaggio  politico? Meglio. E se durante l’operazione si registrassero perdite anche tra gli agenti di polizia? Meglio ancora, le vittime diventerebbero eroi. Ed i morti, di fronte all’opinione pubblica, non dovevano restare impuniti. I colpevoli sarebbero stati individuati immediatamente  tra i campesinos, e prima o poi giustiziati. Come infatti sta succedendo.  
"Il massacro di Curuguaty" (titolo dell'eccellente libro-denuncia del giornalista paraguaiano Julio Benegas Vidallet), fu veramente un massacro, che generò e continua a generare più interrogativi che risposte.   
Un massacro sbocciato in un processo giudiziario che ha solo messo a nudo quanto può osare cinicamente la democrazia corrotta nel Paraguay di oggi.   
Il processo giudiziario e le condanne emesse non rispecchiano altro che la sfacciata ipocrisia “legale”, evidente a tutti, che sa di impunità e in definitiva rappresenta un secondo massacro per la classe campesina che ha lottato per le terre nel dipartimento di Curuguaty. Un secondo massacro, ma questa volta nello scenario del Palazzo di Giustizia di Asunción, lontano dalle terre di Marina Kue. Un massacro senza piombo dentro la "legge" (quale?) e le maldestre manipolazioni giuridiche.    
La difesa dei condannati, i campesinos ed i loro famigliari lottano con le unghie e i denti per ottenere l'annullamento delle condanne. Al momento di redigere queste linee attivisti dei diritti umani e avvocati hanno deciso di occupare – a tempo indeterminato – l’aula 12 del Palazzo di Giustizia. Gli occupanti sono 17 persone in tutto, circondate dalle forze di polizia, proprio in una delle sale dove teoricamente viene applicata la giustizia. Un Palazzo che dovrebbe essere denominato dell'Ingiustizia.

*Foto di copertina: www.monumental.com.py
*Foto 2: (Ruben Villalba) www.telemetro.com
*Foto 3:www.mundo sputniknews.com
*Foto 4: www.radio 970am.com.py
*Foto 5: www.telesurtv.net
*Foto 6: www.cinequo.com

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