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espinosa-ruben-almFotoreporter messicano, ucciso per le sue denunce, uno in più
di Jean Georges Almendras - 6 agosto 2015
È caduto uno dei nostri. Rubén Espinosa Becerril. Uno come noi. Come noi che crediamo nella verità e crediamo nella giustizia. Come noi che proviamo nausea di fronte alla corruzione, ripugnanza nel vedere la superbia ed il soggiogamento esercitato da criminali vestiti di Stato, abbigliamento che sa di opulenza, tinto nel sangue e celato dall’impunità. L'eterna impunità dei poteri politici e criminali. In Sudamerica come in Italia, ed in altri Paesi del pianeta. Un sistema di connivenza, mascherato da una democrazia insulsa e falsa, oltre che deviata.

Piangere, sarebbe poco.
Perché la rabbia vince il pianto e perché la forza per lottare aumenta. Cresce. Diventa più solida. E persino si moltiplica, sorprendentemente.
La notizia della morte di un giornalista, prima di tutto ci commuove. Dopo, ci indigna ed infine, ci induce a reagire.

Il sangue di un uomo del giornalismo è stato versato in solitudine. All’ombra dell'impotenza, dinnanzi a così tanta viltà. Dinnanzi a tanta malvagità. E lo immagino alla mercé delle fauci dei crudeli che lo hanno massacrato insieme a quattro donne e il pensiero mi fa rabbrividire. Perché quell'uomo sottoposto al tormento, che non si è venduto agli interessi criminali o economici, mi fa pensare al martirologio di altri uomini e donne, che hanno sposato una professione antica e verace. Mi fa pensare ad altri giusti che hanno camminato lungo le stesse sassaie, soffrendo gli stessi colpi e gli stessi dolori. Ricevendo anche eterne lodi e riconoscimenti sinceri, ma anche quelli ipocriti.

I suoi carnefici prima gli hanno teso un'imboscata e dopo lo hanno legato. Mani e piedi.
I suoi carnefici hanno fatto la stessa cosa con quattro donne. I suoi carnefici hanno colpito loro senza riguardi, come se ad ogni colpo dovessero cancellare dalla faccia della terra la malvagità che incarnano, generazione dopo generazione. I colpi devastano il fisico ma fortificano lo spirito. Fortificano l'anima e lo spirito di chi percorre lo stesso cammino, di chi rimane attonito di fronte al crimine. I colpi che hanno preceduto l'esecuzione a colpi di piombo. Quel piombo maligno che brucia la pelle, le ossa e la vita.

I suoi carnefici sapevano molto bene cosa stavano distruggendo. Stavano distruggendo delle vite preziose. Ma non così le loro idee, né i loro valori, né i loro insegnamenti. Né la loro innocenza.

Rubén era fotografo e giornalista autodidatta. Circa otto anni fa arrivò allo stato di Veracruz e nel 2009 fu assunto come fotografo di Javier Duarte, allora candidato a governatore. Ma un bel giorno, Rubén decise di abbandonare il settore pubblico per assumere una posizione critica rispetto alla violenza esercitata contro i giornalisti nello Stato. Come corrispondente di Proceso e Cuartoscuro, oltre a specializzarsi nella copertura di movimenti sociali, si occupò di denunciare i delitti contro i giornalisti e nel novembre del 2012, mentre si trovava a fare un servizio in diretta sulle proteste studentesche contro il governatore Javier Duarte, in seguito all’omicidio di un giornalista della rivista Proceso, gli fu impedito di scattare delle foto di una dura repressione da parte della polizia contro gli studenti che stavano manifestando. Ed in mezzo a quel caos, un uomo del governo lo minacciò sfacciatamente. Forse il segno che preannunciava la sua fine?

Nel settembre del 2013, mentre scattava immagini di un violento sgombero ad opera delle forze di sicurezza all'Università di Veracruz, lui ed altri fotoreporter furono aggrediti dai poliziotti di servizio sul posto.

Un mese dopo si trasferì nella capitale messicana alla ricerca di aiuto per sé stesso e per altri colleghi. In città del Messico partecipò a mobilitazioni, sempre rivendicando energicamente garanzie di lavoro per i fotografi locali. E gradualmente iniziò a dare fastidio al governo. Forse è stata proprio una foto scattata da Rubén al governatore Javier Duarte, a rendergli vulnerabile di fronte ai suoi nemici.
Nemici che ormai già negli ultimi tempi ostacolavano il suo ingresso negli eventi istituzionali. Ma Rubén si ingegnava sempre per trovare il modo di lottare contro l'impunità e per dirigere la collocazione di una targa, in una piazza, in onore di Regina Martínez, una giornalista assassinata tempo addietro.

Poi il suo nemico ha iniziato ad accerchiarlo, principalmente dopo che Rubén aveva immortalato una repressione molto violenta contro otto studenti ad opera di incappucciati che apparentemente lavoravano per la Segreteria di Sicurezza Pubblica. Fu il primo atto del suo stesso martirio, perché da quel momento Rubén iniziò ad essere seguito da persone armate che addirittura gli scattavano delle foto.

Rubén viveva letteralmente sotto pressione, e finì per abbandonare Veracruz trasferendo la sua residenza a Città del Messico all'inizio di giugno. Ancora visibilmente sotto stress e terrorizzato cominciò a denunciare la forma in cui la stampa critica era fatta tacere, gridando ai quattro venti che continuava ad essere costantemente minacciato da elementi del governo di Veracruz. L'ombra di Javier Duarte non era assente.

In Città del Messico diffidava delle autorità e non presentò denuncia alla Fiscalía Especializada para la Atención de Delitos (Procura Specializzata in Delitti) contro la Libertà di espressione. A quel punto, i pericoli raddoppiarono. Rubén si espose ancora di più. Senza protezione. Isolato dallo Stato. Come avviene normalmente, prima di un omicidio. Come avvenne con Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Come avvenne con il giornalista paraguaiano Santiago Leguizamón ed il suo collega Pablo Medina. Come avvenne con il Generale Alberto Dalla Chiesa. E anche con l'ambientalista brasiliano Chico Méndez.

Il 31 Luglio di quest’anno 2015, Rubén è stato sorpreso dai suoi assassini in un appartamento del quartiere Narvarte, della capitale messicana, dove ha perso la vita insieme a quattro donne. Rubén Espinosa è stato letteralmente massacrato davanti al naso delle organizzazioni dove aveva denunciato le minacce di cui era vittima, e che avrebbero dovuto organizzare la sua protezione. E non lo hanno fatto.

A cosa sarà dovuto che da un tempo a questa parte si continua a ripetere - nella nostra America Latina e fuori da essa – la stessa storia di imboscate e di morti? A cosa sarà dovuto che gli assassini finiscono sempre dondolandosi nella culla dello Stato? A cosa sarà dovuto che quanto avviene in Messico ha troppi parallelismi con quello che succede in Paraguay? A cosa sarà dovuto che i gruppi mafiosi della Sicilia e di altre regioni di Italia, finiscono anche loro sempre dondolandosi nella culla dello Stato o viceversa? A cosa sarà dovuto che l'impunità è un gravoso carico nel nostro presente? Sarà perché sono in molti ad appoggiarla?

L'umanità si sente costernata di fronte agli emigranti africani si lanciano in mare, dove alcuni trovano la morte ed altri l’indifferenza europea; nella Striscia di Gaza un bambino palestinese muore bruciato e la comunità Israeliana prende le distanze dal fatto, libero sfogo ai risentimenti genocidi contro un popolo castigato dalla criminalità sionista; in Grecia, le economie naufragano come una chiatta in mezzo ad uno tsunami con la firma della banca europea che si compiace con la superbia dell'impero; negli Stati Uniti, la violenza razziale riacquista una forza inaudita, della mano di persone in divisa al servizio della Legge e dappertutto si lacerano le veste come se si trattasi di un fattore nuovo; in America Latina, il narcotraffico e la narco politica fanno il bagno nelle stesse acque, le acque putrefatte del caos e del terrorismo che superano gli argini, pronunciano belle parole e discorsi carichi di retorica ed ipocrisia; in Italia, in Sicilia, a Palermo, un pubblico ministero, Nino Di Matteo, cerca mettere le cose al suo posto e lo Stato fa di tutto per sminuire il profilo dei rischi che corre, perché Cosa Nostra è seduta alla destra dell'onnipotente potere politico.

E potremmo continuare con la lista delle atrocità di questo terzo millennio, seminando lacrime. Ma per il momento, è meglio fare nostro subito l’insegnamento di questo nuovo martire del giornalismo libero che sono sicuro, al momento di ricevere il primo colpo, consapevole che la morte lo stava abbracciando, non rinnegò le sue idee, perché nella solitudine del suo martirio ha sentito la consolazione della sua grandezza e del suo coraggio. Il coraggio dell'uomo libero. Dell'uomo pulito.

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