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14318736607233di Javier Brandoli
Padre Marcelo è minacciato di morte. Le miniere e la droga sono l’unico sostegno per oltre 40mila persone. Gli imprenditori cinesi acquirenti di resina sconvolgono la zona.
A Simojovel, nelle impervie montagne del Chiapas, c’è un sacerdote la cui testa ha un prezzo, un milione di pesos. Ci sono anche politici accusati di corruzione e di collaborazione con il traffico di droga e armi; e miniere nel sottosuolo dove una schiera di poveri perdono la vita cercando l’ambra, e cinesi arrivati per acquistarla, facendo così salire vertiginosamente il prezzo; e minatori che consumano cocaina per resistere più ore nelle viscere di questo redditizio affare; e nuovi narcos sorti per la nuova domanda; e bambini che perdono la vita con il tesoro della resina trovata nelle loro mani; e artigiani locali che non riescono più a comprare materia prima di buona qualità perché non possono permettersela; e discoteche appena inaugurate per i trafficanti; e proteste; e minacce; e povertà; e morte. “Qui presto ci sarà un nuovo Iguala se nessuno trova una soluzione”, riassume padre Marcelo, colui per il quale, dicevamo, i narcos sono disposti a pagare un alto prezzo per ucciderlo. “Se per evitarlo devo morire, metto la mia vita a disposizione del mio popolo”, dice serenamente a El Mundo.

“I narcos e la corruzione sono sempre esistiti. È la legge del più forte. O semini o ti uccidono”, spiega Claudia Ituarte-Núñez, una dottoressa in scienze antropologiche che ha realizzato l’unica tesi esistente sull’ambra di Simojovel.

Perché in questa crudele storia la preziosa resina che estraggono i minatori ha buttato ancora legna sul devastante fuoco. “Sono arrivati i cinesi tre anni fa ed hanno iniziato a comprare l’ambra pura, quella che non ha macchie. I prezzi si sono alzati ed è quindi aumentata la manodopera disponibile.

“Generalmente si lavora quattro ore ma adesso ne fanno fino a nove, perché consumano cocaina che in molte occasioni pagano con la stessa ambra che trovano”, afferma Antonio, un minatore della zona. I narcos iniziano anche a usare l’ambra per riciclare denaro.

In poche parole, l’arrivo dei cinesi ha alimentato un circolo vizioso già deteriorato: “Vivono tutti chiusi nell’unico hotel di Simojovel. Non escono mai, hanno i loro intermediari che sono quelli che acquistano i pezzi migliori ed escono soltanto a fare cena in un ristorante cinese che ha appena aperto”, ci spiega Elías, un altro minatore del paese.

Lavorare solo con l’ambra
Questa inflazione ha lasciato fuori gioco tutta una schiera di artigiani locali che non hanno più accesso all’ambra pura. “Tutto è per i cinesi. Adesso un grammo costa fino a 350 pesos, mentre prima costava intorno ai 30”, dice Roberto Dìaz, un artigiano con 23 anni di esperienza alle spalle. “Io stesso nel 2014 sono ritornato in miniera, che era più redditizia dell’artigianato”. Le 80 corporazioni della città si sono mobilizzate, e lamentate, per una situazione che obbliga loro a lavorare soltanto l’ambra con macchie. Non molto lontano, nelle buone gioiellerie di San Cristobal de las Casas, il commercio, tuttavia, è avvantaggiato da questa inflazione, e sono i turisti a pagare. Alcuni guadagnano, altri perdono.

Il lavoro nella miniera di Simojovel, insieme alle nascoste e protette coltivazioni di papaveri e marijuana, costituiscono la fonte di ricchezza del territorio. Pedro e Manuel lavorano nella peggiore parte della catena, sono i minatori di second’ordine. “Frantumiamo le rocce che scartano dalla miniera”, raccontano senza smettere di martellare sotto il sole cocente, con i piedi fermi su una collina di calcinacci. Loro guadagnano 200 pesos al giorno (12 euro) per lavorare da lunedì a venerdì. Il loro lavoro consiste nel cercare tra i resti dei “rifiuti” della pietra già scartata dai minatori di prima, che nei casi più fortunati possono guadagnare 500 pesos al giorno. “C’è ogni sorta soluzione. Le miniere, in alcune occasioni, vengono sfruttate dal proprietario, altre volte vengono affittate per qualche mese e altre ancora impiegati lavoratori, che possono essere pagati anche 150 pesos al giorno”, spiega Claudia.

Nelle miniere esiste anche il lavoro minorile, ci ha rimesso la vita il cugino di Elías, 14 anni, studente delle medie: “Aveva trovato un pezzo di 900 grammi che portava nelle mani e usciva sorridente quando una pietra lo schiacciò”, ci racconta un familiare. “Ci sono bambini che a 7 anni lavorano nelle miniere durante le vacanze. Io ho iniziato a 9 anni”, dice. “I bambini generalmente fanno i lavori meno duri e vengono da famiglie molto disgregate. Le donne lavorano nelle miniere quando non riescono a sposarsi”, puntualizza Claudia.

Entriamo in uno di quei buchi scuri, le viscere di quel sottomondo proibito. Non sono vicine alle zone delle coltivazioni narco e ci permettono di entrare previo pagamento di un biglietto di ingresso per la comunità. Il caldo all’interno è intenso. Si scava tutto con le mani. Pablo picchetta illuminato dall’unica luce che proviene dalla sua lanterna frontale. “Stai estraendo qualcosa?”. “Sono settimane che non viene fuori niente”, risponde mentre prosegue con il suo duro lavoro. Fuori, altri tre giovani minatori, i peggio pagati e che per primi cadono nella tossicodipendenza, riposano esausti. “A volte non guadagniamo niente”, raccontano al riparo dell’ombra.

Questa fragile economia ha creato e potenziato l’affare della droga. “I due primi acquirenti che lavorarono con i cinesi a percentuale adesso sono i piccoli trafficanti del paese (narco al dettaglio). Uno prima era un semplice pittore. “Ci sono stati degli attacchi e diversi agguati tra loro che sono degenerati in sparatorie e morti”, racconta una persona che ci chiede l’anonimato per motivi di sicurezza.

Ci porta alla casa di uno di questi nuovi opulenti narcos che sta costruendo un’alta torre nel suo chalet, che spicca in mezzo a tanta povertà. “Vuole avere il segnale per il telefono, questo è il motivo della torre”. Sono già venuti alcune volte dei poliziotti ad indagare. In un anno, grazie ai cinesi, si sono arricchiti. Negli ultimi mesi hanno aperto cinque bar nella periferia, che rimangono aperti fino all’alba e gli abitanti di Simojovel ritengono siano la causa della situazione sempre più critica.

Padre Marcelo
Ed ecco che qui entra in gioco padre Marcelo. “Il problema non l’hanno generato i cinesi”, puntualizza il sacerdote minacciato di morte, da quattro anni in questa parrocchia, “c’era già prima”. Il parroco, a seguito dell’omicidio della signora Oliva Liébano, il 14 settembre del 2013, a casa sua, a mezzogiorno, decise di capeggiare le proteste contro le autorità locali insieme ad alcuni gruppi di cristiani. “Lo scorso 27 marzo abbiamo fatto un pellegrinaggio fino a Tuxtla, capitale del Chiapas, per chiedere la fine della corruzione, che fossero chiusi i bar e le autorità abbandonino il traffico di armi e droga”, spiega il coraggioso prete.
Lo accompagnarono 15mila indigeni che camminarono insieme al parroco per quattro giorni.

La risposta del Governo dello stato del Chiapas fu la promessa di intavolare un dialogo. “Il governo dello stato saluta il popolo credente della Diocesi di San Cristólbal di Las Casas e dell’Arcidiocesi di Tuxtla Gutiérrez, che realizzano un pellegrinaggio e una via crucis per la quaresima, partito qualche giorno fa dal municipio di Simojovel”, ha detto il portavoce di un Esecutivo indicato indirettamente dai manifestanti.

I nemici di padre Marcelo, secondo la sua versione, sono potenti, una famiglia facoltosa e con buone conoscenze nel mondo politico che usa come fosse una marionetta il presidente municipale. Alcuni membri del clan si presentano adesso alle prossime elezioni di giugno come deputati. “Loro hanno tutto il potere. Trafficano in armi e droghe. Lo stesso succede ad Iguala, tutto il mondo lo sa (quasi tutte le persone che abbiamo interpellato confermano la versione del sacerdote). Hanno comprato agenti di polizia, pubblici ministeri e giudici. Se qualcuno espone denuncia, 15 minuti dopo loro lo sanno e minacciano chi osa sfidarli. Sono narcopolitici”, spiega.

Tanto coraggio nel denunciare ha costato a padre Marcelo una taglia sulla sua testa. Hanno iniziato offrendo 150mila pesos e adesso offrono un milione a chiunque lo uccida. “Abbiamo saputo di qualche tentativo di agguato dal quale sono riuscito a fuggire e diverse volte abbiamo avuto degli inseguimenti”, spiega. “Io rifiuto la protezione che mi ha offerto la Polizia Federale per tre ragioni: godrei di una protezione che il popolo non ha, non mi fido della polizia, tutti sono “comprati” dai narcos, e siamo pacifisti, non voglio che nessuno muoia per colpa mia, preferisco morire io”.

Sa che è possibile che lo uccidano e lo accetta con un certo stoicismo. “Abbiamo fatto denunce a livello internazionale affinché qualcuno intervenga prima che ci sia una disgrazia. Lo Stato non farà niente finché non ci siano dei morti. Tutti sanno quel che succede e nessuno fa niente. Siamo in tempo per fermare questo”.

L’indifferenza da parte dello stato per quanto riguarda il territorio del quale parla padre Marcelo è qualcosa di endemico. “La sua priorità è che non contamini altre zone strategiche. È una regione controllata dallo Stato e circondata dall’esercito”, afferma Claudia. La realtà è che lungo le strade ci sono dei picchetti di movimenti zapatisti che esigono un compenso agli autisti. In determinati punti ci sono dei cartelli che avvisano che stai addentrandoti in territorio zapatista e che sono loro, il popolo, a governare lì e bisogna obbedire alle loro regole.

Quell’autogestione va di pari passo con una presenza statale e federale che sembra essere un testimonial, almeno nella fornitura dei servizi di base. Recentemente sono morti due neonati e altri 29 hanno dovuto essere ricoverati in ospedale per un vaccino in cattivo stato. Le ambulanze ed i centri di salute della zona erano fuori uso. Hanno tardato oltre 12 ore nel prestare assistenza ai bambini.

“I genitori cominciarono a coltivare droga ed oggi i loro figli la consumano”, conclude Claudia fornendo una chiarificatrice immagine del costante deterioramento. Simojovel, nel frattempo, attende qualcosa che colpisca il paese con forza, e che quindi potrebbe generare quella reazione, quel richiamo alla coscienza che porti a reagire, così da porre fine a tutto ciò.

La vita in questo posto se ne va nel silenzio, con la complicità di tutti, in uno degli angoli più remoti e dimenticati al mondo.

El Mundo ha cercato di contattare ripetutamente la Polizia messicana, che non ha risposto alle domande, nonostante siano aperte delle indagini sul coinvolgimento dei dirigenti politici, nel territorio, e sulle minacce di morte a padre Marcelo.

(18 Maggio 2015)

Fonte: elmundo.es

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