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ebola-death-tolldi Laura Berti
40 giorni in Sierra Leone a curare i malati di ebola come medico di Emergency. Quasi altrettanti, (38) come paziente all’ospedale Spallanzani di Roma. Era partito il 15 ottobre per uno dei paesi dove ebola è più presente. E’ tornato in Italia a bordo di un aereo della aeronautica militare, trasportato con misure di sicurezza che sembrava di guardare un film di fantascienza.

Ma non chiamatelo eroe. Lo ha detto lui. Non sono un eroe, sono solo più sfortunato dei miei colleghi perché mi sono contagiato.

E a questo punto è difficile non cadere nella retorica parlando di medici come Fabrizio Pulvirenti (foto). Medici di Emergency, come lui, o di Medici Senza Frontiere.

Chi glielo fa fare, si potrebbe pensare. Una malattia così orribile come ebola, andarla ad inseguire lasciando casa, famiglia… Una malattia orrenda, mi ha raccontato uno di questi medici, soprattutto perché si muore in solitudine, senza poter essere accarezzati, perché anche un semplice atto di pietà umana può trasformarsi in contagio.

Un virus così tremendo che per parecchio tempo non abbiamo voluto neanche occuparcene, non abbiamo voluto ascoltare le grida di aiuto e di allarme che arrivavano proprio da volontari come Fabrizio.

Brutto affare l’Ebola, ma affare dell’Africa, dopotutto. Insomma, poco interessante in fin dei conti… L’ansia è arrivata solo quando il virus ha bussato alle porte dell’Occidente: USA, Europa… erano gli aerei che potevano portare quella peste, ma qualcuno quale preoccupazione ha avuto?

I barconi! Attenzione, ebola arriva con gli immigrati! Che sciocchezza, hanno risposto i virologi, ebola ha un periodo di incubazione  inferiore ai tempi che pretende un viaggio come quello dei migranti, arriverebbero già chiaramente malati e verrebbero isolati immediatamente …E infatti non abbiamo avuto infatti notizia di rifugiati malati di ebola…invece di adoperarsi per prestare aiuto o correre ai ripari, c’è chi si è preoccupato di fare anche polemiche di questo tenore… E poi però ci si è tranquillizzati, il cordone sanitario occidentale ha tenuto e l’attenzione sul virus è calata. Ed ebola è tornata ad essere affare dell’Africa.

Ma a riportarla sulle prime pagine della cronaca, Fabrizio, un medico italiano. E la paura è tornata insieme a lui, sigillato in una lettiga, e ai medici vestiti con tute da marziani.

38 giorni da incubo fra alti e bassi, fra febbri altissime e prostrazione. Bollettini medici allarmanti, un buco nero nei ricordi di Fabrizio, assistito da più di trenta fra medici e infermieri, ma solo nell’isolamento di una malattia che allontana il resto del mondo.

pulvirenti-fabrizioPoi la guarigione, la luce. E lui che fa? Dice che vorrà tornare in Sierra Leone, che donerà il suo sangue di convalescente per curare altri malati, come è stato per lui stesso. Dare il sangue. Un gesto anche simbolico. Equivale al darsi per intero.Incomprensibile per la maggior parte di noi. Già è difficile capire l’eroismo (o l’incoscienza, penserà qualcuno) di partire una volta, ma la seconda?

Fra l’altro è passato in secondo piano, ma Fabrizio, quando è arrivato allo Spallanzani, aveva anche la malaria…allora è proprio matto…

E sono queste considerazioni, forse, che dovrebbero farci riflettere. Viviamo in un mondo dove la normalità è cercare il proprio tornaconto (se poi è a scapito del prossimo tanto peggio), è ovvio che sentire il dovere di aiutare gli altri sembra follia.

Questi folli, questi medici che fanno turni massacranti con mezzi a disposizione limitatissimi, sembrano venire da un altro mondo.

Forse  in quelle tute bianche non ci sono terrestri, ma appartengono veramente a esseri che arrivano da un altro pianeta.

Un pianeta, forse, dove vivono esseri umani.

(3 gennaio 2015)

Tratto da: articolo21.org

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