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nucleare-nonukedi Maurizio Tropeano - 9 settembre 2014
La Francia pretende una soluzione definitiva Proteste in Piemonte: non faremo da pattumiera
La storia del nucleare piemontese è raccolta in un film presentato nell’ultima edizione cinemAmbiente e intitolato Là suta (là sotto). La pellicola è il frutto del lavoro di Daniele Gaglianone, Cristina Monti e Paolo Rapalino. Giampiero Godio storico attivista No Nuke ed ex ricercatore Enea all’Eurex di Saluggia ha fatto da «Caronte» in questo viaggio tra Bosco Marengo, Saluggia e Trino Vercellese. Passato e presente si rincorrono mentre a turbare il silenzio che ha riavvolto la questione nucleare è arrivata Parigi. La Francia, infatti, ha deciso di bloccare il trasferimento del combustibile nucleare da riprocessare. Perché? Secondo Marco Grimaldi, capogruppo di Sel al consiglio regionale del Piemonte, «i francesi sono dubbiosi della nostra capacità di mantenere gli impegni presi e quindi di avviare il deposito nazionale di stoccaggio entro il 2025».

E così, le ultime 47 barre di combustibile nucleare esaurito aspettano nella piscina della Enrico Fermi e altre 13,2 tonnellate di combustibile irraggiato giacciono all’Avogadro. «Se il combustibile non parte lo smantellamento dei siti si ferma», denuncia ancora Grimaldi. Secondo Godio sarebbero necessari altri tre viaggi per ri-processare questo materiale.
I dubbi francesi non sembrano campati in aria visto che in base alla legge 368 del 2003 il deposito nazionale avrebbe dovuto essere operativo entro la fine del 2008. Così non è stato. Chi non si ricorda la rivolta di Scanzano Ionico che era stata indicata come possibile sito? Anni di silenzio poi ai primi di giugno qualcosa si muove. L’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale ha stabilito i criteri per l’individuazione del deposito nazionale.
Il centrosinistra piemontese, però, non si fida. E così domani in Consiglio regionale approverà una mozione per chiedere a Chiamparino di dare una sveglia al governo Renzi. Dal loro punto di vista il deposito nazionale deve essere individuato in tempi brevi altrimenti si corre il rischio che il Piemonte «dove è stoccato il 96% dei rifiuti radioattivi presenti a livello nazionale diventi la pattumiera nucleare italiana».
A Saluggia, infatti, la Sogin sta costruendo due depositi che dovrebbero essere temporanei ma che hanno caratteristiche tali, cioè sono bunkerizzati e con una funzionalità non inferiori ai 50 anni da poterli trasformare in sito definitivo. Godio, però, sottolinea come Saluggia è situata in un triangolo tra il fiume Dora Baltea e i due canali artificiali Cavour e Farini. Dunque non sarebbe idonea ad ospitare il sito. Stesso discorso vale per Trino. Legambiente, così, chiede al governo di «fermare gli inutili lavori per la costruzione dei depositi temporanei perché è assurdo che a pochi mesi dalla definizione del sito di stoccaggio nazionale si continuino a sprecare soldi per la costruzione di nuovi depositi nucleari temporanei, peraltro in siti totalmente inidonei».
In attesa di capire che cosa faranno il premier Renzi e i suoi ministri, la Sogin conferma il rispetto dei tempi, cioè ai primi di gennaio del 2015 consegnerà a Ispra e ai ministeri competenti la carta nazionale delle aree potenzialmente idonee. Serviranno tre mesi di verifiche per autorizzare la pubblicazione della mappa, prevista per i primi di aprile. Chiamparino, che ha già parlato con i vertici dell’azienda di Stato, prova a portarsi avanti con il lavoro: «Spero che la discussione per l’individuazione del sito sia contrassegnata da elementi di responsabilità e razionalità».

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“Metterle qui a Scanzano? No, abbiamo amici a Roma”
Il sindaco del paese scelto nel 2003: Bubbico è di qui

di Fabio Albanese - 9 settembre 2014

Quando nel novembre del 2003 il Consiglio dei ministri designò Scanzano Jonico come posto unico nazionale per il deposito di scorie nucleari, non solo i 7350 abitanti del Comune, ma tutta la Basilicata insorse. Una lotta pacifica durata oltre un mese, al termine della quale il governo Berlusconi fu costretto a fare marcia indietro e a cancellare il nome di Scanzano dal decreto sulla conservazione delle scorie nucleari. «Fu una vittoria di popolo che mise fine a una insensatezza, costruire un deposito geologico in una zona ad alta sismicità e vicino al mare», dice il sindaco di oggi di Scanzano, Salvatore Iacobellis, architetto, che fa il primo cittadino dal 2006: «La mia elezione nasce proprio da quella battaglia», spiega.

E ora? E se alla luce delle pressioni della Francia si tornasse a parlare di Scanzano come del deposito unico nazionale delle scorie nucleari?
«Credo di poterlo escludere. Naturalmente non ho notizie di prima mano ma, per logica, se alla base della decisione di allora c’è proprio la sismicità dell’area e la vicinanza al mare, queste sono condizioni che ovviamente non sono cambiate».

Non si è più parlato di questa questione?
«No, la considero una storia chiusa. E poi, abbiamo un amico al governo che se ci fossero movimenti ci terrebbe informati».

Un amico?
«Il vice ministro Bubbico è di queste parti. All’epoca era il presidente della Regione Basilicata e fu tra i principali artefici della protesta che portò il governo a fare dietrofront. Se ci dovesse essere un qualunque segnale, lo sapremmo e reagiremmo subito; ma non ci sarà, credo di poter dire di esserne sicuro».

Perché fu scelta propria Scanzano, nel 2003?
«Per ragioni che nulla hanno a che fare con le caratteristiche del territorio. Si, qui c’è un deposito di salgemma a 800 metri sotto terra, ma per il resto il luogo non era, e non è, adatto».

E allora perché?
«Perché il sindaco dell’epoca, Mario Altieri, era uomo del centrodestra e vicino ad ambienti che hanno a che fare con la Sogin, la società di Stato che si occupa di scorie nucleari. Dopo anni lo ammise lui stesso».

E la Sogin perché avrebbe avuto interessi proprio su Scanzano?
«In quegli anni la Sogin vinse un mega appalto per lo smaltimento di cento missili nucleari russi. E aveva bisogno di un luogo dove andare a depositare quei rifiuti».

Vuole dire che il deposito non sarebbe servito solo alle scorie di casa nostra?
«Guardi, per le scorie italiane non occorre un deposito geologico ma basta un deposito all’aperto grande quanto un campo di calcio. Faccia lei».


Entro due anni la scelta del sito per interrare 90 mila metri cubi
Oggi il materiale radioattivo è sparso fra venti località diverse

di Roberto Giovannini - 9 settembre 2014

L’Italia ha abbandonato il nucleare, ma contando i residui delle vecchie centrali atomiche in corso di decommissioning e tutto il materiale radioattivo prodotto dalla normale attività industriale, di ricerca e ospedaliera a tutt’oggi ci sono 27.000 metri cubi di rifiuti radioattivi sparsi per il territorio del Belpaese. Oltre 25mila sono rifiuti a bassa e media radioattività, ma ce ne sono quasi 2mila ad alta radioattività. Oggi sono conservati in sicurezza, ma certamente in modo provvisorio e disorganico, in una ventina di siti. Una situazione che ci è vietata ormai da una direttiva europea del 2011, che obbliga gli Stati a predisporre una soluzione definitiva e assolutamente sicura. Costruendo un «Deposito nucleare nazionale» che funzionerà per almeno quarant’anni. Qui finirà l’«immondizia atomica» già presente in Italia. Successivamente, vi sarà immessa la produzione «normale» di materiale radioattivo di fabbriche, laboratori e ospedali (500 metri cubi l’anno, dai caricatori delle macchine a raggi X alle tute usate dal personale). Infine, potrebbe finirci dentro (ma non è certo) il combustibile nucleare «riprocessato» in Francia e in Gran Bretagna proveniente dalle centrali italiane attive in passato. Se non saranno trovate altre soluzioni, dopo il 2025 ci dovremo infatti riprendere indietro circa 800 metri cubi di materiale, contenuto all’interno di 24 grossi contenitori in lega di ghisa speciale, pesanti decine di tonnellate ciascuno. Va da sé che per questo materiale ad altissima e soprattutto molto persistente radioattività (migliaia di anni...) poi si dovrà trovare un’altra soluzione.
Tutto chiaro, sulla carta. Il problema - la cui delicatezza non sfugge - è dove verrà costruito questo benedetto deposito. Che dovrebbe accogliere fino a 90mila metri cubi di materiale radioattivo, e che sarà grande come un campo da calcio e alto quanto un palazzo di cinque piani. Lo scorso 4 giugno l’Ispra, l’Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, ha ufficializzato i criteri per la localizzazione dell’impianto, che successivamente sarà realizzato dalla società pubblica Sogin, azienda che gestisce lo smantellamento delle vecchie centrali, appena uscita da un cupo periodo di sprechi, scandali e indagini. Entro il gennaio del 2015 bisognerà così definire una mappa delle aree «potenzialmente idonee» per il deposito, che sarà di superficie (e dunque non sotterraneo come quello a suo tempo ipotizzato a Scanzano Jonico).
Non sono «idonee» le aree vulcaniche, quelle sismiche, quelle soggette a frane e inondazioni, quelle in fasce fluviali o in depositi alluvionali preistorici. Niente nemmeno per i siti con altitudine superiore ai 700 metri, quelli a meno di 5 chilometri dalla costa, quelli in zone carsiche o di sorgenti, i Parchi nazionali. Niente da fare nemmeno per le aree vicino a centri abitati, strade e ferrovie, attività industriali, aeroporti, poligoni militari, miniere. Non c’è nulla di ufficiale, ma alla fine secondo «chi sa» si finirà in una di queste quattro Regioni: Puglia, Lazio, Toscana, Basilicata. L’impianto dovrebbe essere molto sicuro, e ci saranno incentivi economici per la localizzazione. Ma c’è da giurare che non sarà facile conquistare il consenso delle popolazioni dell’area prescelta.
I tempi: secondo le previsioni, il sito si sceglierà entro la primavera del 2016; la costruzione si farà entro il 2022, e prevederà anche la creazione nell'area del Deposito di un «Parco Tecnologico», dedicato alla ricerca e alla formazione su decommissioning, gestione dei rifiuti e radioprotezione. Il costo complessivo, dicono alla Sogin, sarà di 1,5 miliardi di euro, che saremo noi italiani a pagare attraverso un (ennesimo) contributo sulla bolletta dell’elettricità. Altri osservatori però stimano la spesa finale in una somma più vicina ai 2,5 miliardi. Sempre che non ci siano ritardi, sovraccosti e pasticci all’italiana.

Tratto da: La Stampa del 9 settembre 2014

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