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soldati-hebrondi Giovanni Vigna - 3 ottobre 2013
Scontri e arresti ogni giorno. Issa Amro (difensore diritti umani): "Praticare il boicottaggio dello Stato Ebraico". Le denunce dell'attivista italiana Sarha
«Da alcuni giorni a Hebron si respira una calma apparente, ma la situazione di questa città è folle. Non ci sono più stati scontri tra Shabab (giovani palestinesi, ndr) e soldati israeliani. Tuttavia le invasioni notturne nelle abitazioni dei palestinesi e gli arresti avvengono ancora quotidianamente». Lo scorso 22 settembre Sarha, attivista italiana che vive a Hebron, ha assistito molto da vicino all'uccisione del sergente Gabriel Kobi, 20 anni, militare dell'esercito israeliano. A differenza di quanto riportato dai media internazionali, la morte del soldato non è avvenuta nei pressi della Moschea di Abramo. «Questa versione è stata offerta dagli organi di stampa di tutto il mondo per dare più risalto alla notizia - afferma Sarha, la cui attività può essere seguita sul suo blog sarhainpalestine.com - in realtà non eravamo vicino a luoghi sacri ma in prossimità del check point 209, sul confine tra l'Area H1 e l'Area H2, i due settori della città sotto il controllo militare, rispettivamente, dei palestinesi e degli israeliani».

Il 27 agosto scorso, racconta Sarha, sono stati uccisi tre giovani palestinesi nel campo profughi di Qalandia: «Per reazione, gli Shabab hanno iniziato a tirare sassi mentre i coloni israeliani hanno utilizzato "live ammunition", pallottole vere. Gli scontri sono divampati. È stata un'escalation di violenze. I soldati sono saliti sui tetti e hanno sparato bombe sonore, lacrimogeni e proiettili veri ricoperti di gomma che se, vengono sparati a meno di trenta metri, come avviene di solito a Hebron, possono spezzare le ossa».
La settimana precedente l'omicidio del sergente Kobi sono stati registrati continui scontri. Quel giorno in città erano presenti 11mila israeliani che si erano recati nei luoghi sacri della città palestinese (Al Khalil in arabo) per celebrare il Sukkot, festa ebraica che ricorda il viaggio del popolo d'Israele nel deserto verso la Terra Promessa.
«Il 22 settembre, verso le 18 - spiega Sarha - ero impegnata, insieme ad altri due attivisti internazionali, in un'azione di interposizione perché, nella zona del check point 209, erano in corso scontri tra palestinesi e militari. Vicino a me c'erano anche due giornalisti di B'Tselem, organizzazione israeliana non governativa che rappresenta il "Centro di informazione israeliano per i diritti umani nei territori occupati". Uno di loro è stato arrestato e trascinato via. Quando mi sono seduta su un blocco di cemento, c'era silenzio. Gli Shabab si erano ritirati a duecento metri di distanza. Poi è arrivato questo giovane soldato, ho visto che all'improvviso si è portato le mani alla gola ed è caduto a terra. Non ho sentito spari. Pensavo che stesse soffocando. Gli altri soldati sono accorsi subito e gli hanno spostato le mani. A quel punto ho notato un piccolo foro sul lato sinistro della gola. Il sergente Kobi è stato caricato su una jeep e portato via».
Sarha è stata rinchiusa dentro una clinica che si trova nelle vicinanze del check point 209. I soldati hanno intimato al personale palestinese di chiudere l'entrata: «Sono rimasta dentro la clinica per tre ore insieme ad altri internazionali - sottolinea Sarha - dalla finestra abbiamo visto l'arrivo di moltissimi soldati e di un bulldozer per togliere i blocchi di cemento che chiudono la strada dal 2001. Poi i militari hanno cominciato una furiosa caccia all'uomo. Sono convinti che l'assassino sia un cecchino palestinese. Era già buio e non sono mai venuti a cercarci nella clinica». A Sarha, fino ad oggi, non è ancora stato chiesto di testimoniare sulla tragica morte di Kobi, sebbene fosse la persona più vicina al soldato ucciso. Forse uno dei motivi della mancata convocazione da parte delle autorità israeliane è il fatto che l'attivista italiana non compare nel video girato da B'Tselem, che circola in questi giorni nei media israeliani e mostra le immagini della zona dove è morto il soldato. «Nelle ore successive all'uccisione del militare - ricorda Sarha - Hebron è stata dichiarata zona militare chiusa. Non si poteva né entrare né uscire dalla città. Adesso (martedì scorso, ndr) la situazione è più tranquilla, da due giorni non ci sono più scontri ma non si può dire che Hebron sia tornata alla normalità. Le invasioni notturne nelle case dei palestinesi e gli arresti proseguono».


Un altro testimone delle ingiustizie alle quali sono sottoposti quotidianamente i palestinesi a Hebron è Issa Amro, 34 anni, uno dei fondatori dell'organizzazione Youth Against Settlements (Giovani contro gli insediamenti), gruppo di attivisti palestinesi apartitici che cerca di porre fine alla costruzione e all'espansione delle colonie israeliane in Palestina, attraverso la lotta popolare non violenta e la disobbedienza civile.

«La situazione dei palestinesi a Hebron è molto dura, a causa delle forze di occupazione israeliane, della violenza dei coloni e delle restrizioni che vengono messe in atto ovunque in città - afferma Amro - i soldati si danno molto da fare per sfollarci dalle nostre case, dalle nostre strade e dai negozi. La situazione, in questi giorni, è peggiorata a causa delle feste ebraiche, duranti le quali arrivano a Hebron migliaia di coloni. In questi frangenti i soldati arrestano, invadono le nostre case e attaccano la gente».
In questa fase l'esercito ha dunque occupato le case e chiuso le strade. I coloni hanno presidiato la zona che dovrebbe stare sotto il controllo dei palestinesi. Poi i due fronti si sono scontrati e si sono dati battaglia, fino alla morte di Kobi. «Il motivo dell'uccisione del soldato non è chiaro - sottolinea Amro - qualcuno dice che la causa è da ricercare all'interno dell'esercito: potrebbe essere stato "fuoco amico". Altre fonti sostengono che sono stati i palestinesi. Fatto sta che, dopo la morte del sergente israeliano, centinaia di palestinesi sono stati fermati e le case perquisite. I checkpoint sono stati chiusi e i coloni ci hanno attaccato».
Nonostante alcuni analisti israeliani abbiano dichiarato che forse l'uccisione del soldato è da imputare al "fuoco amico", i militari hanno comunque attaccato le case dei palestinesi. Secondo Issa, ogni scusa è buona per fare la guerra ai residenti di Hebron. «Al momento non ci sono novità sulla ricerca del responsabile dell'uccisione - ricorda Amro - gli inquirenti stanno indagando a tutto campo».
A questo punto la conversazione con Issa si sposta sulla sua attività a difesa dei diritti umani. L'attivista di Hebron è stato preso di mira dall'esercito israeliano diverse volte. «I coloni chiedono che io venga ucciso - accusa Issa - sono stato arrestato in numerose occasioni. Le accuse erano false e, a volte, l'arresto era finto, per fare felici i coloni. Se cerchi su Google la frase "kill Issa Amro" (uccidi Issa Amro), puoi trovare molte notizie sulle minacce di morte che ho ricevuto e sulle campagne di diffamazione nei miei confronti. Sui siti ebraici puoi vedere la mia faccia incorniciata in un cerchio rosso. Cinque relatori dell'Onu per i diritti umani hanno inviato una lettera al Governo israeliano per chiedere che io venga protetto».
L'anno scorso Issa è stato arrestato più di venti volte, quest'anno finora "solo" otto volte. «Mi hanno imposto molte restrizioni nei movimenti. Nelle Corti israeliane sono stati aperti quindici procedimenti giudiziari contro di me», rivela Amro che deve affrontare due processi, uno alla fine di quest'anno e un altro nel 2014. Issa è in attesa che i giudici decidano sugli altri casi che lo riguardano.
«La sede della mia organizzazione "Youth Against Settlements" - rammenta l'attivista - si trova a Hebron, una delle zone più duramente colpite dall'occupazione israeliana. Per proteggere circa seicento israeliani fondamentalisti, che risiedono nel cuore di Hebron, lo Stato di Israele ha imposto ai residenti palestinesi un regime di sfratto forzato, coprifuoco, chiusura dei mercati, chiusura delle strade, checkpoint militari, assoggettamento alla legge militare incluse le frequenti perquisizioni casuali, che si sommano alle detenzioni senza accuse e alla mancanza di protezione dalla dilagante violenza dei coloni che ha spinto circa 13mila civili palestinesi a lasciare le loro case situate nel centro di Hebron, trasformando la città in una città fantasma».
L'organizzazione di Issa promuove diverse attività come, ad esempio, la responsabilizzazione delle comunità rispetto alla causa palestinese, le azioni di boicottaggio ai danni di Israele, la protezione delle case e della terra dei residenti minacciati dai coloni, l'organizzazione di gruppi per i bambini: «"Open Shuhada Street ("Aprire Shuhada Street") è una campagna internazionale e locale che ha l'obiettivo di riaprire le strade e i mercati chiusi di Hebron, in particolare Shuhada Street, oggi sotto il controllo dei coloni e dei soldati».
"Youth Against Settlements" ha organizzato numerose azioni in tutto il mondo. In cosa consistono, chiediamo ad Amro, queste iniziative? «Manifestazioni di protesta, presentazioni, proiezioni di film su Hebron, mostre fotografiche, lettere ai diplomatici e ai parlamentari, chiusura di strade. E molte altre piccole azioni come disegnare graffiti, scrivere ai media informandoli sulla situazione a Hebron, campagne di sensibilizzazione su Facebook, conferenze, visite in città e speciali da trasmettere alla radio».
Cosa pensa Issa dei negoziati di pace ripresi di recente? «Tutti i palestinesi sono a favore di veri colloqui di pace ma non condividono le "barzellette" sulla pace. Ed è una barzelletta promuovere colloqui di pace, su uno stesso tema, per venti anni». Domandiamo a Issa qual è questo tema. «Nei colloqui di pace si parla solo della sicurezza di Israele, senza tenere in considerazione che la sicurezza è un concetto reciproco. I diritti dei palestinesi dovrebbero essere riconosciuti nella loro pienezza». Amro è pessimista sui negoziati di pace: «Non credo che otterremo niente di nuovo dai colloqui. Israele non rispetta i vecchi accordi. Allora perché affrontare nuovi argomenti se non troviamo l'intesa sui temi del passato? Questo rende tutto più difficile per i palestinesi». Una possibile via d'uscita da questa situazione, secondo Issa, è rappresentata dal boicottaggio internazionale di Israele inteso come Stato dell'apartheid. «Il boicottaggio deve essere praticato fino alla fine dell'occupazione - sostiene l'attivista - senza un vero boicottaggio internazionale contro Israele, lo Stato Ebraico non pagherà mai il prezzo dell'occupazione della nazione palestinese. Per produrre un vero cambiamento, gli occupanti devono essere puniti ed essere costretti alla pace, che deve essere imposta dalle leggi internazionali. Israele deve rispondere dei suoi crimini di fronte agli organismi giudiziari internazionali».
Cosa dovrebbe fare la politica, anche in Italia, per favorire la pace?
«Ai soldati israeliani non dovrebbe essere consentito di visitare l'Europa, loro ci uccidono durante la settimana e, poi, trascorrono il week end in Europa, che non deve accettare dei criminali di guerra. I politici dovrebbero obbligare Israele a fare la pace con i palestinesi e aiutare la Palestina a firmare il Trattato di Roma per far parte della Corte Internazionale. La politica dovrebbe fornire maggiore supporto alla nostra lotta all'interno dell'Onu e smettere di appoggiare Israele finché non cesserà l'occupazione».
Di recente Amro ha tenuto una conferenza a Ginevra presso il Consiglio per i Diritti Umani dell'Onu: «Ho parlato delle violazioni dei diritti umani a Hebron e del fatto che i coloni e i militari prendono come target delle loro violenze i difensori dei diritti umani. Ho partecipato a un evento dedicato alla Palestina insieme a Richard Falk, che ha il compito di fornire all'Onu dei rapporti sulla situazione dei diritti umani nei Territori Palestinesi Occupati dal 1967».

Tratto da: megachip.globalist.it

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