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armi-giocattolo-sarajevo-webdi Maurizio Chierici - 5 aprile 2012
Il 6 aprile di vent’anni fa Sarajevo comincia a bruciare, un assedio lungo 4 anni: 11 500 morti, centinaia di bambini. È la prima metropoli d’Europa sotto tiro dopo Stalingrado e come nel-l’evo di Hitler e di Stalin torna il ricatto militare della fame e del gelo. L’acqua viene chiusa, tagliate le fonti di riscaldamento che intiepidiscono gli inverni sotto zero di una capitale elegante dove resisteva l’armonia interculturale che mescolava nella convivenza serbi greco ortodossi, cattolici e musulmani.

Ma i nazionalismi distruggono ogni civiltà. Chi non si arrende deve morire, parola d’ordine di Radavan Karadavic, psichiatra montenegrino cresciuto all’Università Sarajevo e portabandiera della supremazia serba vaneggiata da Milosevic. Per scongiurare la follia della guerra civile gli studenti sfilano invocando “la ragione della pace”, e i cecchini cominciano a sparare.

La prima a morire è Suada Dilberovic, 22 anni, studiava Medicina: il 6 aprile una raffica l’abbatte sul ponte che oggi porta il suo nome. Attorno a questo ponte stamattina ricordano quel giorno scrittori, poeti, un grande fotografo, Danilo Krastanovic: hanno raccolto la memoria in Sarajevo, il libro dell’assedio, edizione italiana curata da Piero del Giudice il quale assieme a Daniele Onori, dell’ambasciata italiana, parlerà della lunga agonia col drammaturgo Dzevad Kahasan e poi Tvrko Kulenovic, filosofo; Itzet Sarajlic poeta e saggista; Margo Vesovic, scrittore che si sconsolava quando i governi d’Europa facevano finta di non sapere dei massacri: ironia rabbiosa di un saggio Scusate se parlo di Sarajevo. E poi Abdulah Sidran: poeta e sceneggiatore di Kusturica. Hanno vinto a Cannes e a Venezia con film dove l’angoscia per la barbarie annunciata e le purghe del partito unico lasciano capire in quale universo sono cresciuti. E come hanno provato a difendere l’ultimo paradiso. Uno spot disperato per fermare la guerra. Kusturica e Sidran ascoltano le campane delle chiese cattoliche e ortodosse e le preghiere dei mullah: “Assieme vogliamo la pace”. Poi Kusturica scappa a Belgrado e trionfa come “grande regista serbo”. Sidran non ne vuole più parlare.

Nei giorni dell’assedio li ho incontrati stremati, ma non disperati. Ascoltandoli mi sono convinto che per conquistare Sarajevo lo psichiatra dei bazooka avrebbe dovuto uccidere fino all’ultimo abitante. Perché intellettuali, impiegati, operai, studenti, architetti e donne di casa, mantenevano abitudini e curiosità come se il mondo attorno respirasse la noia dei giorni normali. Cinema ogni giorno nelle cantine. Teatro con le candele quando la luce si spegne. Perfino l’operetta. Una domenica li incontro al Club 99 dove continuavano a fantasticare “la nuova società”: mai più socialista, ma non perduta nelle tentazioni del consumismo. Devono decidere l’ammissione di aspiranti soci. Non arrivano all’ora stabilità. Mattina pesante, le artigliere non smettono di bombardare e la discussione comincia in ritardo. Discorsi sottili, analisi raffinate su vizi e virtù di chi vuole entrare nell’olimpo di Sarajevo . Sembrano seduti nelle poltrone dorate dell’Accademia di Parigi. Giro gli occhi sui veli di plastica che coprono finestre dai vetri in frantumi. Nemmeno una stufa. Discorrono avvolti in sciarpe e cappotti, guantoni di lana.

Il Pen Club è in cima alla scala sgretolata dalle bombe. Tvrko Kulenovic, presidente del Pen, aveva appena girato il film La morte a Sarajevo: una pallottola gli ha bruciato la giacca mentre era piegato sulla macchina da presa. “Vivere l’assedio sembrava un’ispirazione infinita, poi è venuta l’abitudine all’orrore”. Quattro ore di chiacchiere, due aspiranti sono stati accettati. Si brinda con la grappa che esce dalla tasca di un cappotto, bicchieri di carta. Kulenovic non nasconde la delusione “sul silenzio degli intellettuali italiani. Sono cresciuto nell’amore di Vittorioni, Calvino, Pasolini, Pavese. Possibile, mi chiedo, che la cultura che mi ha insegnato a vivere guarda e tace mentre gli altri ci fanno morire?”.

Nelle strade protette dai cecchini passano le gite scolastiche: ragazzi con zaino e libri in spalla ascoltano insegnanti che li sollecitano a immaginare, solo immaginare, come doveva essere la più importante biblioteca islamica d’Europa andata a fuoco. Mura annerite eppure i prof spiegano parete per parete quali manoscritti preziosi hanno abbracciato nei secoli. Vesovic mi invita nel ristorante in della città. Gazebo di cristallo coi riccioli del liberty, scuola di Vienna e architetti bizantini hanno mescolato le loro fantasie. Purtroppo è rimasto scheletro. Una bomba, un mattino. Lini divorati, posate disperse, lampade preziose in frantumi. Ma nessuno rinuncia all’appuntamento della domenica. Forchette scompagnate da impugnare coi guanti nell’aria che soffia. Brodo di verdura, un pezzo di formaggio eppure gli avventori sembrano felici.

Sono passati vent’anni, la guerra è lontana: hanno vinto.

“Purtroppo abbiamo perso”, risponde un amico al telefono. Le piccole patrie hanno distrutto la città delle culture che convivevano in armonia. Bosnia divisa in due territori: croati e musulmani (Chiesa di Roma e Islam) e serbi ortodossi. Dieci cantoni ognuno con regole diverse. Non esiste un sistema scolastico comune. Proibiti gli istituti misti. È ripartito il treno Sarajevo-Bel-grado. Ogni vagone tre scompartimenti rigidamente separati: croati, serbi, bosniaci. Divise anche le biglietterie. A ogni frontiera cambiano macchinista e locomotore. Il sogno è finito: non si muore, ma si vive così.

Tratto da: Il Fatto Quotidiano

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