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di Francesca Paci
La temperatura sale a una velocità del 20% superiore alla media e l’acqua continua a diminuire. Dopo l’Artico è il Mediterraneo il più colpito dal surriscaldamento

Roma. La Libia investita dall'infinita proxy war intra-sunnita, il nuovo protagonismo russo nella zona Mena (Medio Oriente e Nord Africa), la questione israelo-palestinese alla prova della diplomazia trumpiana e poi, neofita nella galassia geopolitica, l'ambiente, il paradigma su scala globale di tutte le sfide del presente.
Dopo anni di panchina, il clima entra in campo da titolare in questa quinta edizione dei Med Dialogues, sul cui sfondo, minacciosi quanto i mille focolai di conflitto, si proiettano l'ombra del disimpegno americano dall'accordo di Parigi, la disarmata Conferenza di Madrid, il pressing della generazione Greta Thunberg.
«Le grandi civiltà sono fiorite nel Mediterraneo anche grazie alla particolare stabilità climatica garantita da due anti-cicloni» ragiona, tra l'andirivieni dei rappresentanti di molti Paesi, il segretario generale dell'UfM (Union for the Mediterranean) Nasser Kamel. Vale a dire che nulla di quanto accade nella regione, dallo sviluppo economico alle guerre fino alle grandi migrazioni, prescinde dalle repentine variazioni del meteo. Kamel mostra le bozze di uno studio realizzato per l'UfM da 80 scienziati internazionali e prossimo alla pubblicazione: «Dopo l'Artico, il Mediterraneo è la seconda area del pianeta più colpita dal cambiamento climatico, dove la temperatura sale a una velocità il 20% superiore alla media e dove si trovano 20 delle città maggiormente interessate dal surriscaldamento». Sulla carta gli effetti sono spaventosi, a cominciare dalle già ridotte risorse idriche che, sebbene rappresentino appena il 3% di quelle mondiali a fronte di una popolazione pari a 500 milioni, diminuiranno di un ulteriore 15% nel giro di pochi anni.
Il Mediterraneo emerge da diversi panel come un «hotspot», un punto caldo dove oggi confluiscono tensioni antiche, sociali e politiche. Parlare di clima significa parlare di siccità e spopolamento di intere nazioni come «pull factor» per guerre, migrazioni, sostituzioni demografiche, rivoluzioni. A margine di una tavola rotonda sul futuro della Siria si osserva come, a conti fatti, la rivolta del 2011 sia iniziata in una regione meridionale e agricola come Daara, penalizzata oltre che dalla brutalità del regime anche dall'esodo verso le città di un esercito di contadini senza piu campi da coltivare.
Le migrazioni, lo spettro che si aggira per l'Europa, sono la cartina di tornasole. Intorno a un caffè, un diplomatico libico e un egiziano, discutono della pressione sull'Europa e di quella sui loro Paesi («L'Ue si blinda contro gli sbarchi, ma noi abbiamo milioni di esuli dall'Africa sub-sahariana»). Le ricerche ormai concordano sul rapporto tra cambiamenti climatici ed esodi di massa.
«Il Sahel coincide con la fascia di desertificazione, dove si sovrappongono ecosistemi fragili a società fragili, per questo 9 su 10 migranti vengono da lì» scrive Francesca Santolini in «Profughi del clima» (Rubbettino). Piu a Sud, denuncia Save the Children, 6,7 milioni di etiopi non possono piu pascolare il bestiame sulle terre ormai secche e hanno fame da morire. Il clima anche qui a Med è il banco di prova per i governi e per i necessari investitori privati.

Tratto da: La Stampa del 7 dicembre 2019