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montdi Massimiliano Ferraro
Quali sostanze pericolose sono state occultate ventidue anni or sono nella “cava dell’Orco” di Montanaro? Sono state tutte asportate? L’area della cosiddetta cava Borra è stata bonificata? Sono queste alcune delle domande girate alla Procura della Repubblica dal sindaco del piccolo comune in provincia di Torino, Giovanni Ponchia, in seguito a una lettera inviata all’amministrazione da alcuni gruppi ambientalisti locali.

La storia ci riguarda direttamente visto che tutto è cominciato, o meglio è ricominciato, proprio sulle pagine di Narcomafie. Nel giugno del 2014, infatti, il nostro mensile ha pubblicato un’inchiesta, in cui si provava a ricostruire la storia dimenticata e nebulosa di una cava dismessa sita in località Pratomoriano, a due passi dal torrente Orco. Proprio in seguito agli interrogativi proposti dal nostro articolo, gli ambientalisti di Montanaro hanno deciso di vederci chiaro. A preoccupare è lo stato di salute dei terreni della cava, al centro oltre vent’anni fa di un traffico illecito di rifiuti tossici dai contorni inquietanti.

Un giacimento di misteri. Nel novembre del 1994, proprio nei giorni della terribile alluvione che colpì il Piemonte, la polizia rinvenne a Montanaro, all’interno di una cava dismessa, una grande quantità di rifiuti speciali sparsi in un’area di circa 20mila metri quadrati. «Siamo andati sul posto – disse al Corriere della Sera Aldo Faraoni, a quei tempi a capo della Criminalpol torinese – e abbiamo visto qualcosa che ribolliva nel laghetto della cava, macchie rossastre e gas maleodoranti, sparsi su un’enorme area piena di rifiuti solidi urbani e prodotti chimici. Tutto materiale tossico».

Si parlò di tir “fantasma” arrivati nelle stradine di campagna che si dipanano oltre l’antico pilone votivo di Pratomoriano, terminando il loro viaggio in quella cava sperduta.

Nel dicembre 1994 il Centro Analisi Conal, chiamato ad esprimersi in merito al materiale sotterrato nella cava, riscontrò massicce tracce di solventi clorurati e di idrocarburi nei campioni di terreno prelevati nei pressi del sito. «In considerazione del fatto che le analisi sono state effettuate nelle immediate vicinanze della cava, si può supporre che la situazione all’interno, nella zona sequestrata, sia più allarmante», affermò il rapporto. Anche le successive analisi eseguite dall’USSL 24 di Collegno-Grugliasco indicarono che nel giacimento erano state occultate centinaia di tonnellate di rifiuti tossico nocivi e sostanze pericolose, tra cui residui di vernici, inchiostri tipografici, scorie di materiale sintetico, solventi, polveri di alluminio provenienti dalle fonderie, ammoniaca, residui oleosi e catramosi. Tutti i rifiuti erano stati poi mescolati con della terra di riporto per nasconderne la presenza.

Ma chi, come e perché aveva interrato quella mole di veleni in una isolata frazione di Montanaro?

Nell’agosto del 1995 sulle colonne de la Repubblica arrivò un primo tentativo di risposta: “Era nascosta vicino a Torino la discarica tossica della mafia”. Secondo il quotidiano, il giacimento di Montanaro sarebbe stato uno dei siti scelti dagli uomini di Cosa Nostra per venire incontro alle esigenze di alcuni industriali del Nord senza scrupoli. Improvvisamente si cominciò a mettere a scorgere una sospetta girandola di rifiuti e miliardi gestiti delle cosche, con la complicità di alcune società di smaltimento.

A dare il via alle indagini sarebbero state infatti le rivelazioni di un pentito della mafia trapanese, Pietro Scavuzzo. Quell’inchiesta, partita dalla Sicilia, arrivò quindi fino al torinese seguendo il filo delle stupefacenti rivelazioni dell’ex picciotto riguardo all’esistenza di una rete di trafficanti dedita allo smaltimento di rifiuti in cave in disuso. La primula rossa dell’organizzazione sarebbe stato un faccendiere, il quale successivamente risultò coinvolto nell’indagine della Dda di Palermo su questi traffici sospetti. Il nome del soggetto inquisito, benché noto dalla stampa, venne segretato nel resoconto della seduta del 19 febbraio 1998 della Commissione Parlamentare d’inchiesta sul Ciclo illecito dei Rifiuti presieduta da Massimo Scalia, che lo identificò come “OMISSIS 3”. All’epoca dei fatti quarantasettenne, siciliano trapiantato in Liguria, “OMISSIS 3” venne descritto dal pentito Scavuzzo come un «personaggio dedito alla commissione di fatti delittuosi nel mondo affaristico-economico». Ecco così che nel novembre del 1994, dopo aver attivato le intercettazioni sull’utenza di “OMISSIS 3”, l’indagine di Palermo arrivò ad interessate anche la procura di Torino per via dei un traffico di rifiuti destinato proprio alla miniera di Montanaro.

Nei mesi seguenti la Procura della Repubblica di Palermo ordinò l’arresto di sette persone con la pesante accusa di associazione mafiosa e per altre ipotesi di reato, compreso il riciclaggio. Le indagini sulla cava di Montanaro, sostenne la procura di Palermo, rivelarono «l’esistenza di un’articolata associazione, formata dagli odierni indagati e da altre persone non ancora completamente individuate, collegata a personaggi di spicco dell’organizzazione mafiosa “Cosa Nostra” ed operante nel territorio nazionale. Detta organizzazione dedita allo smaltimento dei rifiuti tossici è connotata da estrema pericolosità e dal metodo mafioso adottato da taluni degli indagati per penetrare all’interno anche delle pubbliche istituzioni allo scopo di accaparrarsi i siti ove occultare i rifiuti stessi» (op. cit. Tribunale di Palermo, Ufficio del GIP).

Sospetti che sembravano portare a scoprire l’esistenza di una sorta di massoneria deviata, in grado di gestire i grandi traffici di rifiuti. Una pista che però non fu mai adeguatamente scandagliata, anche perché gli indagati di maggior spessore vennero prosciolti in seguito per mancanza di prove. Fu la stessa procura di Palermo a ritenere che fosse venuto meno l’anello che teneva in piedi l’indagine a causa di alcuni contrasti emersi tra due pentiti, uno dei quali mise in dubbio l’appartenenza dell’altro a Cosa Nostra.

Ciò nonostante, ancora nel 1998, la relazione sulla Liguria e sul Piemonte del “Documento sui traffici illeciti e le ecomafie” stilata dal Parlamento dichiarò che la magistratura riteneva veritieri «i collegamenti tra criminalità comune e criminalità organizzata nel settore dei rifiuti e la sussistenza di un fitto intreccio di interessi in questo ambito tra la Sicilia ed in Piemonte, con ipotesi di traffici illeciti e di riciclaggio di denaro proveniente da reato».

“La cava è pericolosa?”. I documenti ora nelle mani della procura. Dopo l’articolo di Narcomafie dedicato alla “cava dell’Orco”, i nuovi dettagli emersi sulla vicenda hanno, come detto, suscitato molto interesse negli ambientalisti di Montanaro. La cronaca di quanto accaduto negli scorsi mesi la apprendiamo dal sito del giornale canavesano La Voce (http://12alle12.it/montanaro-cava-borra-a-che-punto-e-la-bonifica-169440 ), che a settembre del 2015 ha citato il nostro articolo chiedendosi a che punto fosse la bonifica della cava Borra. Ad oltre vent’anni dai fatti, la mancanza di dati recenti sullo stato dell’area, gli enigmi, i faccendieri occulti, i molti omissis e una verità che stenta ancora ad emergere, non fanno dormire sonni tranquilli agli ambientalisti di Montanaro. Così, meno di due mesi più tardi, a novembre, un secondo articolo de La Voce riporta la foto di alcuni attivisti canavesani intenti a leggere Narcomafie durante un sopralluogo alla cava. Il titolo è eloquente: “La cava dell’Orco è pericolosa?” (http://12alle12.it/montanaro-la-cava-dellorco-e-pericolosa-177482).

«La cosiddetta “cava Borra” in località Pratomoriano contiene ancora i veleni scoperti nel lontano 1994? E se sono ancora lì non bisogna portarli via? Ecco perché la settimana scorsa Restiamo Sani, Terrasana e Pro Natura hanno mandato al sindaco Giovanni Ponchia una lettera per sollecitarlo a prendere “tutti i provvedimenti che deve assumere nella sua qualità di responsabile della salute dei cittadini di Montanaro”. E di segnalare al più presto la questione “alle autorità competenti, fra cui quelle a cui spetta l’individuazione dei siti da bonificare”, e se necessario alla Procura della Repubblica. Nella lettera le associazioni elencano i fatti preoccupanti di cui sono a conoscenza. […] Vedremo se qualcuno si muoverà».

Si muove solerte il sindaco Ponchia che, il 29 dicembre 2015, sempre sullo stesso giornale (http://12alle12.it/montanaro-il-sindaco-ponchia-segnala-la-cava-borra-alla-procura-185364), risponde di «avere subito inoltrato la documentazione alla Procura della Repubblica di Torino e a quella di Ivrea, all’ASLTO4, all’ARPA e alla Città Metropolitana».

Dunque, sembrerebbe evidente a questo punto che effettivamente non esistano a disposizione delle autorità dei dati relativi al presunto inquinamento dell’area della cava successivi a quelli forniti dal Centro Analisi Conal: dati non proprio rassicuranti e per di più vecchi quasi 22 anni. Tanto più che, secondo l’articolo, il sindaco Ponchia avrebbe chiesto il supporto tecnico dell’Arpa per svolgere delle nuove analisi sui terreni. Certamente una verifica che fughi ogni dubbio è quanto mai opportuna, soprattutto alla luce dell’interrogazione parlamentare presentata nel 1996 dalla Lega Nord in cui si lamentava la mancata bonifica della cava: “I rifiuti tossico-nocivi sono sottoposti al continuo dilavamento delle piogge con ulteriore aggravio dell’inquinamento del territorio circostante”.

Per quanto ci riguarda, seguiremo l’evoluzione di questa vicenda, rinata quasi due anni fa sulle pagine del nostro giornale.

Non capita spesso, ma a volte succede che quello che scriviamo sia utile perché altri si pongano delle domande, perché si riprenda in mano il filo di una storia ancora senza un finale, e che quindi gli articoli non rimangano soltanto dei pezzi di carta.

Tratto da: narcomafie.it