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agricoltura-balle-fienoda clarissa.it - 2 agosto 2015
Pubblichiamo l'intervento di Gaetano Sinatti, in qualità di presidente dell'Associazione Terre dell'Adriatico - Adrialand, al convegno "Dal caso Mattei alla Globalizzazione dell'Agricoltura" del 23 maggio 2015, Fano (PU).

Dal punto di vista agro-alimentare, globalizzazione significa avere realizzato per la prima volta nella storia dell'umanità un ciclo chiuso della produzione e del consumo delle risorse alimentari mondiali.
Non ci sono altre risorse oltre quelle del pianeta. Questo vuol dire che i popoli della Terra condividono un insieme limitato di suolo, acqua, specie vegetali e animali. Questo significa, sul piano del consumo globale, che non solo siamo seduti alla stessa tavola ma che, volenti o nolenti, mangiamo anche tutti nello stesso piatto.
Le cifre ufficiali ci dicono che 805 milioni di persone soffrono ancora la fame e che, mentre 2 miliardi di persone soffrono ancora della cosiddetta "fame nascosta", vale a dire di gravi carenze di micro-nutrienti che li espongono a malattie, 500 milioni di persone hanno gravi problemi di obesità, mentre oltre 1,5 miliardi di persone sono in sovrappeso. Dunque, tutti mangiamo nello stesso piatto, ma alcuni si servono di porzioni eccessive, a scapito degli altri.

Mentre, per iniziare a risolvere il problema della fame, la produzione agricola deve aumentare di circa il 60% entro il 2050, sappiamo che circa un terzo del cibo prodotto viene sprecato o danneggiato, per un valore di oltre 1000 miliardi di dollari, il che vuol dire quasi l'intero prodotto di un anno di lavoro dell'Italia. Se poi dobbiamo aumentare la produzione agricola, dovremo anche preoccuparci del fatto che oltre il 30% dei terreni agricoli mondiali è oggi soggetto a forme di degrado che ne rendono problematica la coltivazione: ne sappiamo qualcosa nel nostro Paese, dove l'abbandono della capillare presenza contadina nelle campagne nel corso dell'ultimo mezzo secolo ha prodotto una crescita esponenziale del dissesto idro-geologico, causando danni per miliardi di euro.
Si ritiene che, oltre il miliardo e mezzo di ettari oggi coltivati, la Terra potrebbe fornirne altri 4,4 sui quali realizzare quell'incremento di produzione che si ritiene indispensabile per assicurare cibo sufficiente all'umanità. Ecco dunque che il miliardo circa di agricoltori oggi attivi, distribuiti in 450 milioni di aziende agricole, delle quali oltre l'85% opera su piccola o piccolissima scala, è posto difronte a scelte che hanno una portata strategica per il futuro dell'intera umanità. In questo momento della sua storia multi-millenaria, gli agricoltori hanno infatti davanti a sé due modelli di sviluppo alternativi.
Il primo deriva direttamente da quella rivoluzione verde che ha caratterizzato il primo periodo della decolonizzazione dei Paesi del cosiddetto Terzo Mondo, negli anni Sessanta: un modello che, dopo gli iniziali successi quantitativi, ha progressivamente iniziato, nell'arco di vent'anni, a manifestare limiti sempre più gravi in termini di distruzione della biodiversità, fragilità agli eventi climatici, erosione dei suoli, disgregazione delle comunità rurali locali, dipendenza commerciale dalla agro-industria mondializzata - tutto questo senza riuscire a risolvere il problema della fame nel mondo. Anche nei Paesi industrializzati, il modello legato alla monocoltura, alla meccanizzazione sempre più spinta, alla concentrazione su poche varietà industriali di sementi, all'utilizzo massiccio degli input chimici ed energetici esterni, ha dimostrato i suoi limiti: dalla distruzione dell'85% dei raccolti maidicoli statunitensi a causa dell'utilizzo di un unico ibrido nel 1970, alla cosiddetta mucca pazza, dalla resistenza agli erbicidi manifestata in modo crescente dalle colture più importanti, alla crescente riduzione dell'humus, all'inquinamento da nitrati delle falde acquifere, ai residui di metalli pesanti negli alimenti.
Tutte queste criticità hanno portato ad un'ulteriore intensificazione del modello tecnologico, imperniato su genetica e chimica, realizzando pacchetti tecnologici (semente geneticamente modificata più erbicida totale) che legano sempre di più il produttore agricolo alle grandi aziende chimico-sementiere: è il modello biotech (biotecnologico) che ha avuto una rapidissima crescita a partire dagli anni Novanta, diffondendosi soprattutto nel continente americano, per giungere oggi ad una diffusione globale di oltre 180 milioni di ettari, anche se con un ritmo più rallentato negli ultimi anni. È un modello fortemente spinto dal "complesso agro-industriale" soprattutto nordamericano, che ha investito risorse finanziarie enormi nel suo sviluppo, e che ha saputo creare intorno a sé un orientamento scientifico favorevole, soprattutto presso le università che beneficiano dei fondi di ricerca profusi da quelle grandi aziende trans-nazionali.
Il secondo modello, viceversa, è un modello "povero", che non beneficia cioè della stessa disponibilità di mezzi tecnico-scientifici del modello biotech: ma sta trovando sempre maggior consenso presso i consumatori, soprattutto nel continente europeo. È il modello dell'agricoltura biologica e biodinamica, che ha cominciato ad affermarsi fin dagli anni Venti del secolo scorso. Si basa sull'idea che la terra è un organismo vivente, come tale profondamente legato all'organismo umano, con il quale condivide l'esigenza di un equilibrio di forze e risorse per restare sano ed efficiente. Cerca quindi di conciliare la produttività necessaria a soddisfare i bisogni umani, e dunque la quantità, con la qualità dei prodotti in termini di caratteristiche organolettiche, capacità e vitalità del nutrimento. Non si affida alla sintesi chimica ma alla ricerca di un corretto rapporto fra agricoltura, ambiente ed organizzazione produttiva: rotazione delle colture, utilizzo degli eco-tipi locali, fertilizzazione organica, prevenzione di infestazioni e malattie delle piante, condizioni di vita quanto più possibile naturali per gli animali, conservazione degli elementi del paesaggio - un complesso di pratiche che richiedono un approfondimento continuo delle conoscenze e delle tecniche. Oggi il modello dell'agricoltura biologica / biodinamica certifica 43 milioni di ettari, rispetto ai soli 11 milioni di ettari del 1999, ed è seguito da 2 milioni di operatori agricoli; comincia a valere anche commercialmente una cifra importante, 72 miliardi di dollari di fatturato.
La restante agricoltura del mondo è dunque posta al bivio fra questi due modelli. Si tratta tuttavia di una competizione assolutamente ineguale, perché l'agricoltura biotecnologica si appoggia ad un insieme di forze per le quali l'unificazione a livello mondo dell'economia ha voluto dire un'enorme crescita di potenza economica e di capacità di influenzare i decisori politici - dunque di potere. Questo fenomeno si riassume in una parola, concentrazione: secondo gli studiosi, infatti, quando quattro aziende controllano più del 40% di un mercato, siamo già in una condizione di monopolio. Ecco qui, nudi e crudi, i dati che dimostrano l'altissimo livello di concentrazione delle aziende dell'industria mondiale agro-alimentare:
sementi (inclusi OGM): le 3 più grandi industrie sementiere controllano oltre il 53% del mercato mondiale; le prime 10 ne controllano il 76%;
pesticidi e fitofarmaci: solo 6 multinazionali controllano il 76% del mercato mondiale. Le prime 10 controllano il 95% del mercato;
fertilizzanti: le prime 10 aziende controllano il 41% del mercato mondiale;
farmaci per animali: 3 aziende controllano il 46% del mercato; 7 aziende, controllate dalle multinazionali farmaceutiche, controllano il 72% del mercato;
genetica animale: 4 aziende da sole controllano il 97% della ricerca e sviluppo nel settore del pollame. Nel settore dei suini, la ricerca e lo sviluppo sono controllate per 2/3 da solo 4 aziende.
L'agricoltore oggi è quindi condizionato fortemente da queste condizioni "di mercato" che contraddicono tutti i dogmi del liberismo. Ma non è il solo condizionamento: infatti, se a monte della produzione i mezzi tecnici che servono ai produttori sono in mano a pochi gruppi industriali, non è diversa la situazione a valle della produzione. Vale a dire che quando il produttore vende i propri prodotti, egli entra in un giro economico altrettanto strettamente concentrato. Pochi sanno, infatti che le 4 compagnie "ABCD" (Archer Daniels Midland, Bunge, Cargill, Dreyfus) controllano da sole il 75% del mercato mondiale dei cereali, il che significa che sono loro a "fare il prezzo" che il produttore riceve al raccolto: attraverso mille rivoli di intermediazione, il "mercato" si riduce anche qui al controllo delle "quattro sorelle" del cibo.
Se poi scendiamo ancora a valle lungo la filiera agro-alimentare, vediamo che la grande distribuzione organizzata ha assunto caratteristiche simili di concentrazione e di potenza economico-finanziaria: le grandi catene della vendita al dettaglio, Wallmart, Carrefour, Tesco sono economicamente più forti di molti Stati. Citiamo solo il caso della Wallmart che, con 2,1 milioni di dipendenti, ha un fatturato annuo di 449 mld dollari (2013), maggiore del prodotto interno lordo di nazioni come l'Austria e l'Iran, per esempio.
In tal modo, la quota che il produttore percepisce sul prezzo finale di quel che ha prodotto è andata sempre più riducendosi: se negli anni Trenta in Italia il contadino percepiva più del 30 per cento del prezzo finale del pane realizzato con la sua farina, oggi arriva a poco più, forse, del 10 per cento.
È a questo livello che si è creato, durante la Grande Depressione americana, uno dei più singolari "inganni" nel ciclo economico agricolo: fu proprio la Cargill a proporre al governo Roosevelt il modello dei sussidi agli agricoltori, poi fatto proprio dalla politica economica britannica subito dopo la guerra e da qui trasferito pari pari nella Politica Agricola Comunitaria europea. Un modello contro il quale ci si scaglia, senza però averne ben compresa né l'origine né il meccanismo: proponendo sussidi governativi (cioè pagati con le tasse) agli agricoltori in modo da poter ridurre il prezzo ad essi pagato, Cargill aumentava i propri margini, riuscendo a ridurre i prezzi al consumatore finale e favorendo l'aumento dei consumi in un momento di depressione. Così, quello che il cittadino crede di risparmiare sui prezzi del cibo, lo paga in tasse, tramite i sussidi; così, quel che più importa, si spingevano a chiudere i piccoli agricoltori e si favorivano le politiche agricole di estensivizzazione, di alti input energetici e di progressivo abbandono delle campagne. L'agricoltore che resta lavora alle condizioni dettate dalla grande industria e dalla grande distribuzione.
Spostando la nostra attenzione al mezzo di produzione per eccellenza dell'agricoltura, la terra, vediamo che anche qui, soprattutto negli ultimi anni, assistiamo ad un fenomeno di accaparramento delle terre a livello mondiale, il cosiddetto land grabbing: un recente rapporto di Land Matrix (1) ci dice che, nei paesi in via di sviluppo, nel quadro di 1.217 grandi transazioni internazionali, sono stati ceduti complessivamente 83,2 milioni di ettari di terreni agricoli, ossia l'1,7 % della superficie agraria utile mondiale (per avere un'idea: la superficie agricola coltivata in Italia è di poco meno di 13 mln di ha). Del resto, in Europa l'estensione della superficie agricola si va complessivamente riducendo e la proprietà agraria è sempre più concentrata nelle mani di poche grandi imprese: l'1% delle aziende agricole controlla il 20% della superficie agricola dell'Unione europea; il solo 3% ne controlla ben il 50%, mentre l'80% delle aziende agricole controlla solo il 14,5% della superficie agricola totale. Dunque assistiamo anche in Europa ad un fenomeno piuttosto macroscopico di concentrazione della proprietà della risorsa base dell'agricoltura.
Ma non possiamo fermarci qui, perché la fame di energia e la limitatezza delle risorse di combustibili fossili hanno creato un'ulteriore gigantesca distorsione del "libero" mercato, quella che si è realizzata ponendo in competizione sui terreni agricoli la produzione di energia con quella del cibo (food, feed, fuel): con la crescente utilizzazione di terreni agricoli per produrre carburanti, il gap di calorie per alimentazione umana di qui al 2050 potrebbe crescere dal 20 al 30%, al punto che secondo alcune stime l'energia richiederebbe da 40 a 100 mln di ha. di terra entro il 2050 (2). Possiamo immaginare gli effetti distorsivi sui prezzi, che hanno già prodotto, in coincidenza con le recenti crisi speculative, delle fiammate di prezzi al consumo, provocando rivolte e disordini in molti dei Paesi più poveri del mondo.
Infatti la globalizzazione, come sappiamo dalla crisi dei mutui del 2007, ha portato con sé la "finanziarizzazione" dell'economia, vale a dire lo spostamento crescente dei valori economici dalle merci ai prodotti finanziari (monete, azioni, assicurazioni, ecc.). L'agricoltura non è rimasta esclusa da questa gara speculativa, con i suoi inevitabili crolli periodici e ricorrenti: i derivati sui prodotti agricoli, sostanzialmente le scommesse sul valore futuro di questi prodotti, sono quadruplicati in quantità dal 2000 al 2013. Nel 2011 si sono scambiati alla Chicago Board of Trade, la principale borsa merci mondiale, più di 6.400 milioni di tonnellate di grano "virtuali", rispetto ad una produzione mondiale effettiva di 670 milioni di tonnellate nell'anno, un rapporto di quasi 1 a 10. Le banche anglosassoni ed i trader (intermediari) internazionali controllerebbero oggi quasi il 65% di un mercato che drena centinaia di miliardi di dollari: gli speculatori controllano ormai il 60% del mercato dei cereali, a fronte del 12% di 15 anni fa. Nel 2011, gli investimenti speculativi sui raccolti sono stati pari a 20 volte gli aiuti all'agricoltura nel mondo, a proposito della polemica sui sussidi all'agricoltura. E, giusto per avere un'idea dei guadagni della speculazione, basta ricordare che Goldman Sachs, una delle principali società finanziarie globalizzate leader nel settore, nel solo anno 2009 ha guadagnato oltre 600 milioni di sterline grazie alle speculazioni sul food.
Non da ultimo, sono gli stessi centri economico-finanziari che cominciano anche a scrivere le regole alle quali Stati, cittadini e produttori dovranno adeguarsi. Il tanto discusso e misterioso accordo commerciale trans-atlantico fra Europa e Stati Uniti (TTIP) è stato costruito ed opera, con un sistema a scatole cinesi, sulla pressione ben organizzata delle lobby dell'industria multinazionale. Volete un esempio? Chi ha promosso e sostiene il TTIP sulle due sponde dell'Atlantico è la Business Coalition for Transatlantic Trade (BCTT), nella quale, fra le altre lobby, troviamo la Food and Agriculture/SPS, finanziata dalla North American Export Grain Association (NAEGA) nella quale chi troviamo? Le 4 sorelle ABCD del commercio mondiale dei cereali, più le loro consociate. Sono queste le grandi aziende che lavorano anche a livello giuridico-politico per imporre ai governi addirittura, attraverso arbitrati internazionali, dei "tribunali privati" fuori dalla giurisdizione degli Stati, per risolvere eventuali controversie di valore miliardario.
Chi ha avuto la pazienza di seguirci fin qui, comprende che la questione di fondo torna ad essere quella di cui si discusse per qualche tempo animatamente ai tempi della costruzione della prima grande organizzazione mondializzata del commercio, il WTO, il cui ruolo nella regolamentazione a favore delle grandi concentrazioni multinazionali sarebbe tutto da studiare: si parlava allora della scelta tra sicurezza alimentare e sovranità alimentare. Non è una questione di lana caprina. Le grandi multinazionali e le grandi organizzazioni internazionali del commercio hanno sempre insistito sul concetto di "sicurezza alimentare" che in sostanza significa: "io ti garantisco il cibo, se non riesci a produrlo tu, te lo do io, perché io lo produco a poco e quindi tu spendi poco e sei sicuro di mangiare". Nel tempo ci si è resi conto che questo significa porre un potere sostanziale nelle mani di grandi aziende mondiali private: il controllo mondiale del cibo.
L'Associazione Terre dell'Adriatico, nei primi anni 2000 fece un ciclo di incontri informativi intitolato appunto Cibo è Potere, non posso fare a meno che rivendicare l'esattezza di quelle analisi: sempre più da allora il concetto di "sicurezza alimentare" ha dato potere ad un ristretto circolo di "padroni dell'universo" (master of the universe), come immodestamente si auto-definiscono i grandi della finanza mondiale. Sempre più, soprattutto nei Paesi storicamente meno favoriti, si comincia invece a parlare della necessità di assicurare ai popoli la "sovranità alimentare", vale a dire il possesso di una base minima di produzione primaria in grado di assicurare il cibo ad un popolo, fuori dal controllo dei prezzi e dei mezzi tecnico-produttivi esercitato dalle aziende trans-nazionali. Se qualcuno ha voluto vedere in questo concetto di "sovranità alimentare" una deriva autarchica, è pur vero che questo principio, meglio, questo diritto di un popolo è fondamentale anche sul piano del lavoro, dato che in molti Paesi del mondo l'agricoltura rappresenta ancora una base essenziale di occupazione per larghe masse di persone, soprattutto su base familiare.
Ma sarebbe davvero ingenuo oggi parlare di un modello autarchico, per una differenza essenziale: non è più lo Stato politico l'organismo in grado di assicurare la "sovranità alimentare" di un popolo, almeno non nelle democrazie parlamentari di modello occidentale. In Italia potremmo fare un esempio semplicissimo ma molto calzante. Chi si ricorda più dello scandalo Federconsorzi, eppure è stato il più grosso crac di Mani Pulite: 4-6.000 miliardi di lire (1992) di ammanchi, a cui si aggiunse lo scandalo di asset valutati in oltre 4.000 miliardi, "privatizzati" a poco più di 2.000 miliardi, di cui in realtà furono pagati forse nemmeno 800. Il sistema dei partiti italiani ha distrutto un'intelligente ed efficace organizzazione creata in modo del tutto autonomo dagli agricoltori a partire dai cosiddetti "Monti frumentari", gli ammassi dei raccolti, che nel 1863 in Italia erano ben 2051. Questo meccanismo garantì per anni una più che buona gestione delle produzioni e sicuramente contribuì al miglioramento della produzione agricola nazionale: statalizzato dal fascismo, fu uno dei protagonisti della cosiddetta "battaglia del grano" che, pur molto discussa dagli studiosi, assicurò all'Italia la "sovranità alimentare" di cui necessitava in quel momento storico e geopolitico. In mano al sistema dei partiti, Federconsorzi, divenuta presidio di un sistema di finanziamento occulto di alcuni partiti, è stata mandata definitivamente in rovina in nemmeno mezzo secolo.
Questa breve digressione italiana per dire cosa? Semplicemente che, in un quadro globale così vasto e complesso, è l'ora che siano produttori, trasformatori e consumatori a diventare diretti ed autonomi protagonisti dell'organizzazione dell'agricoltura: non ci si può più attendere dallo Stato, per come esso è oggi concepito e organizzato, la difesa della nostra "sovranità alimentare", né a livello nazionale né europeo. All'organismo giuridico si deve richiedere una migliore regolazione della proprietà della terra, per evitare che essa diventi bene di rifugio per i grandi capitali invece che mezzo di produzione primaria. Il resto del compito spetta direttamente ai produttori, ai trasformatori, ai consumatori che devono organizzarsi, aggiornando e modernizzando i modelli consortili e cooperativi, sottraendoli alla presa dei partiti, e trasformandoli in associazioni inter-professionali in cui siedano intorno allo stesso tavolo le tre componenti già ricordate del ciclo economico di produzione, trasformazione/commercializzazione e consumo. A queste organizzazioni di lavoratori, imprenditori e consumatori, di tipo nuovo rispetto al poco che ha fatto finora il mondo sindacale agricolo italiano, deve essere riconosciuto il potere di indirizzare l'economia agraria, compreso il credito e l'allocazione della terra. A questa organizzazione spettano le scelte su di un modello di sviluppo la cui importanza, come spero di aver spiegato, è oggi di livello planetario.
Nel settore agro-alimentare questa esigenza è forse ancora più sentita ed urgente che in altri ambiti produttivi, per la lotta mondiale in corso per il controllo delle risorse alimentari del pianeta globalizzato. Più che su esibizioni come Expo 2015, è su questa autonoma riorganizzazione del mondo agricolo che l'Italia dovrebbe puntare per il suo futuro, come punto di riferimento internazionale.

(1) www.landmatrix.org/en
(2) J. Popp et al., "The effect of bioenergy expansion: Food, energy, and environment", in Renewable and Sustainable Energy Reviews, 32 (2014) 559-578.

Tratto da: clarissa.it

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