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di Monica Ricci Sargentini
Turchia, un collega dell’avvocata Timtik continua lo sciopero della fame da 209 giorni

«Non siamo riusciti a far vivere Ebru, ora speriamo di salvare Aytaç ma il tempo sta scadendo». Çigdem Akbulut ha 33 anni e un peso enorme sulle spalle. È lei l’avvocata di Ebru Timtik, la collega, condannata nel 2018 a 13 anni di reclusione per appartenenza a un’organizzazione criminale, morta giovedì scorso dopo uno sciopero della fame durato 238 giorni. «Le abbiamo tentate tutte. Ma quello che è accaduto non ha nulla a che fare con la giustizia, è stata una decisione politica».
Akbulut fa parte dello studio legale del popolo (Haikin Hukuk Burosu) come Didem Baydar Ünsal, la moglie di Aytaç Ünsal, l’altro avvocato compagno di digiuno di Timtik, che ora giace nell’ospedale Kanuni Sultan Süleyman di Istanbul in condizioni disperate. Non mangia dal 2 febbraio. «Mi ha detto: “Questo potrebbe essere il nostro ultimo incontro”. Sta perdendo peso molto rapidamente e non è seguito adeguatamente» dice con un filo di voce Didem, 32 anni, dopo aver incontrato il marito. «Non riesco a parlare, le parole mi si fermano in gola. Mia “sorella” Ebru è morta. Ma devo essere forte. Se cedo io perderanno tutti». I due si sono incontrati all’università e si sono sposati sei anni fa, «ma lui è in prigione da tre! - esclama lei - La lotta per i diritti e per la libertà è parte del nostro matrimonio».
A differenza di quel che si potrebbe pensare Aytaç, 32 anni, non vuole che la moglie sia al suo fianco nella stanza d’ospedale dove sta perdendo le forze: «Quando ha saputo che Ebru era morta si è infuriato. Ha detto che ora è ancora più convinto di quello che sta facendo. E vuole che io corra fuori e porti avanti la nostra battaglia. Ma io temo che muoia, il mio cuore non regge. Vorrei essere degna di loro, mi sento egoista».
Una cosa è certa. Il decesso di Timtik poteva essere evitato. «Le autorità turche - dice Akbulut - volevano la morte della mia assistita e stanno aspettando quella del mio collega visto che hanno ignorato il rapporto dell’Istituto di medicina legale che, lo scorso 29 luglio, aveva stabilito l’incompatibilità con la prigione. Invece di rilasciarli il 30 luglio il tribunale li ha trasferiti in un ospedale che era ed è molto peggio della prigione. Non ci è stato permesso di far seguire i miei assistiti da medici indipendenti. Così le condizioni di Ebru sono precipitate: era in una stanza gelida a causa dell'aria condizionata, con la luce sempre accesa, senza la possibilità di aprire una finestra. Non le davano zucchero e l’acqua era razionata. In questo modo è morta molto prima che se fosse rimasta in cella».

La moglie
Ebru e Aytaç non hanno chiesto un processo equo solo per loro ma per tutti Non sono un’eccezione

Aytaç, Didem, Çigdem, Ebru fanno parte dell’Associazione contemporanea degli avvocati, un gruppo specializzato nella difesa di casi politicamente delicati. Cause perse, direbbe qualcuno: operai e minatori, contadini e donne vittime di violenza, manifestanti arrestati ingiustamente, come quelli di Gezi Park, vittime di tortura nelle carceri e nelle stazioni di polizia, imputati per reati di opinione, lavoratori e militanti politici. Alla fine sotto processo ci sono finiti loro, gli avvocati: in diciotto sono stati condannati a un totale di 159 anni, 1 mese e 30 giorni di reclusione per «appartenenza a un’organizzazione terroristica». «È incredibile a dirsi - dice Akbulut, la voce indignata - ma tra le prove d’accusa c’è il fatto che gli avvocati abbiano parlato con i loro clienti, gli abbiano ricordato che avevano il diritto a non parlare. Quello che prevede il nostro lavoro! I testimoni, poi, erano tutti anonimi e già in carcere, quindi ricattabili. Le loro dichiarazioni non erano supportate da alcuna prova. In più, quando lo abbiamo fatto notare, ci hanno cacciato dall’aula. E poi è stato clamoroso il cambio dei giudici che, in una prima udienza, avevano decretato il rilascio. Basta questo a dimostrare che non è stato un processo equo».
Il «digiuno fino alla morte» è una forma di protesta estrema. Ad iniziarlo erano stati in otto ma sei lo hanno interrotto in primavera per motivi di salute. È veramente l’unico modo? «Sì. Ebru e Aytaç non hanno chiesto un processo equo solo per loro ma per tutti - spiega Didem -. Purtroppo non sono l’eccezione ma la regola. Persino il presidente della Corte Costituzionale dice che il 52,9 per cento delle sentenze in Turchia si basa su procedimenti ingiusti. Per questo continueremo a lottare. Ebru si aspetta questo da noi».
Può servire a qualcosa la pressione internazionale sul governo turco? L’Unione Europea ha invitato Ankara ad intervenire sulle gravi carenze del sistema giudiziario: «Purtroppo nulla viene preso in considerazione. L’unica cosa che conta per i tribunali è seguire i voleri del partito politico che è al potere. Il fatto che degli avvocati digiunino fino alla morte rivela il punto in cui l’illegalità è arrivata in questo Paese».

Tratto da: Il Corriere della Sera del 30 agosto 2020

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