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di Alessio Pracanica
This is what you get
when you mess with us

Questo è quello che ti succede
quando ti metti contro di noi
(Radiohead - Karma Police)

In tutti questi anni, abbiamo imparato che al mondo esistono paesi buoni e stati canaglia, luoghi di diritto e plaghe senza regole.
E poi ci sono gli Stati Uniti.
A parole, prima democrazia del mondo, pietra su cui misurare la legalità altrui. In pratica, nazione caratterizzata da profonde discriminazioni, economiche e razziali.
In cui, con allarmante frequenza, succedono episodi come la morte dell’afroamericano George Floyd, ucciso da un poliziotto che per bloccarlo a terra, ha pensato bene di piantargli un ginocchio sul collo.
I can’t breathe, sono state le sue ultime parole.
Non posso respirare.
Una scena che ricorda l’analogo di caso di Eric Garner, morto a New York nel 2014. Anche lì, poliziotti bianchi e vittima di colore.
Distinzione inesistente per l’umanità, ma indispensabile per la cronaca.
A dispetto di ogni evidenza, insieme alle prevedibili condanne, capita di leggere tentativi di excusatio abbastanza risibili, a fronte di una vita umana, che chiamano in causa lo stress di un mestiere rischioso e la paga troppo bassa.
Partiamo dai pericoli connessi all’attività di poliziotto.
Secondo il Bureau of Labor Statistic, costola del Dipartimento del Lavoro, il tasso di fatality injury rate (mortalità sul lavoro) dei poliziotti americani è di 10,6.
Per fare un paragone, nei pescatori è di 75,0, quello dei boscaioli sale a 91,3, e perfino i miti agricoltori possono vantare un rischio superiore, con un’incidenza del 21,9.
Venendo allo stipendio, il solito Bureau of Labor classifica questo tipo di lavoro nella fascia più alta di remunerazione per i non laureati.
Un semplice agente di polizia guadagna in media circa 54mila dollari l’anno (più o meno 47mila euro) a cui vanno aggiunti gli straordinari e un bonus, per il mantenimento di divisa ed equipaggiamento, tra i 1500 e i 2000 dollari.
In un paese con il 20% di disoccupati, dove metà dei lavoratori percepisce annualmente meno di 30mila dollari, non è malaccio.
Precisazione forse superflua, rispetto all’enormità degli eventi, ma comunque utile a sgombrare il campo da leggende, mistificazioni e convinzioni errate.
Ammesso e non concesso che stress e basso salario possano fornire spiegazione, se non giustificazione di certi crimini, non sono invocabili dalla polizia americana.
Con buona pace dei repubblicani d’oltre oceano e dei nazisti dell’Illinois d’ogni latitudine. Quelli che, tanto per capirci, mostrando con orgoglio il loro ferro, ripetono in continuazione il mantra idiota di un brutto processo è meglio di un bel funerale.
Il rapporto annuale del FBI enumera una media di 400 uccisioni giustificabili (justifiable police homicide) operate da agenti di polizia, ma inchieste condotte privatamente, da testate come il Washington Post, raccontano una verità ben diversa. Moltissimi casi sfuggono a inchieste e registri.
Il 69,3% dei crimini statunitensi è commesso da individui di etnia bianca, eppure l’86% delle persone uccise dalla polizia è nera o latino-americana.
Qualche esempio?
Seattle, 18 giugno 2017. L’afroamericana Charleena Lyles, 30 anni, madre di quattro figli e incinta del quinto, chiama la polizia per denunciare un furto con scasso nel proprio appartamento.
Due agenti si recano sul posto e avendola trovata con in mano un coltello, le sparano per sette volte, uccidendola.
St. Louis, Missouri, 9 agosto 2014. Il diciottenne afroamericano Michael Brown viene ucciso a sangue freddo da un poliziotto, in mezzo alla strada, perché sospettato di aver commesso un furto.
Sacramento, California,18 marzo 2018. Stephen Clark viene ucciso da due agenti con ben venti colpi di pistola, mentre si trova nel cortile della casa di sua nonna. Gli agenti avevano scambiato per un’arma il telefono cellulare che teneva in mano.
Ah, Clark era nero, ovviamente.
Gli agenti no.
Cleveland, Ohio, 23 novembre 2014. Due poliziotti uccidono l’afroamericano Tamir Rice, pensando che stia per estrarre la pistola infilata nella cintura.
Episodio triste di per sé, a cui vanno aggiunti due piccoli, insignificanti particolari: la pistola è un giocattolo e Tamir ha dodici anni.
Voci a caso, estratte da una casistica che negli anni è diventata sterminata. Al punto che secondo uno studio dell’Accademia delle Scienze, un nero americano ha 1 possibilità su 5 milioni di morire per incidente aereo, 1 su 8 milioni di venire mangiato da uno squalo e 1 su mille di essere ucciso, durante la sua vita, da quella stessa polizia che contribuisce a mantenere con le proprie tasse e che dovrebbe proteggerlo.
Una statistica lusinghiera per gli squali e le compagnie aeree.
La verità è che esiste, o ovest del grande mare, un grave problema di legalità, originato da un mito e cristallizzato da una prassi.
Il mito, falso e cinematografico, della Frontiera. Prima l’impiccagione e subito dopo, un regolare processo.
Sommato a una Guerra di Secessione che ha affrancato gli schiavi dalle piantagioni, solo per trasferirli nelle fabbriche del New England.
Il risultato è un paese rudimentale, diviso in bianchi e neri, ricchi e poveri, buoni e cattivi. Senza ammortizzatori sociali, paracadute, sfumature tra il successo e il fallimento.
Perennemente alla ricerca di nemici, veri o presunti, molto spesso inventati. Da una cinematografia che ha osato riciclare anche un Abramo Lincoln, in versione cacciatore di vampiri, pur di battere il tasto ormai logoro dell’eroe a stelle e strisce che salva l’umanità
Con larghe fasce della popolazione ancora pervase da un razzismo strisciante, ma non per questo meno sottile.
Preda, dalle Torri Gemelle in poi, delle più profonde paure, spesso esacerbate artificialmente. Prima dalla presidenza Bush e poi dall’attuale inquilino della Casa Bianca.
L’uomo del muro al confine con il Messico e delle deliranti dichiarazioni in materia di Covid, che hanno condotto diversi suoi fedeli sostenitori al pronto soccorso, per intossicazione da candeggina.
Anche grazie a lui, gli Stati Uniti del XXI secolo sono un paese con alle spalle un luminoso futuro. Sorta di sceriffo planetario, unica superpotenza militare, eppure incapace di proteggere i propri cittadini dagli eccessi della sua stessa polizia.
Né di garantire loro uguali diritti in materia di assistenza sanitaria, scolastica e garanzie previdenziali.
L’uccisione di Gorge Floyd non è un caso isolato, risolvibile con la semplice punizione dei responsabili, per usare le parole di Trump.
Origina da una sottocultura che, in carenza di storia, l’ha sostituita con un mito fasullo e affonda le radici in una palude di tensioni e discriminazioni sociali, che permea larghi strati di una società così impaurita, da reagire alla pandemia triplicando l’acquisto di armi per difesa personale.
Sarebbe un grave errore, considerare tutto questo come cosa lontana da noi e dalle nostre più immediate preoccupazioni.
Ai tempi della schiavitù, gran parte dei proprietari terrieri trattava gli schiavi con paternalistica bonomia. In primis perché li considerava un investimento economico e poi perché molti di loro erano figli o fratelli naturali. Legami di parentela, frutto del clima promiscuo delle piantagioni.
I veri razzisti, allora come oggi, erano i bianchi poveri a cui, per manovrarne il consenso, gli imbonitori da piazza additavano il nemico nero, fonte di tutti i loro problemi.
Anche nel nostro paese non mancano i ferventi ammiratori degli Stati Uniti e del presidente Trump.
Forze politiche che indicano agli italiani un nemico, immigrato e rom, da odiare accuratamente.
Aizzando e giustificando ogni eccesso di difesa, salvo poi inginocchiarsi e pregare devotamente il Sacro Cuore di Maria.
Nel tentativo di realizzare, nell’occhio del ciclone economico ormai prossimo, quella tempesta perfetta che è la guerra tra poveri.
Dentro la quale, il prossimo a gridare I can’t breathe, potrebbe essere uno di noi.

Foto tratta da blogsicilia.it

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