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di Jean Georges Almendras
Non posso non citare le parole pronunciate di recente in Italia dal consigliere togato Sebastiano Ardita in riferimento al giudice assassinato da Cosa Nostra il pomeriggio del 23 maggio 1992. Alla vigilia di una nuova commemorazione, la ventottesima, della strage di Capaci, nella quale persero la vita saltando in aria Falcone, sua moglie e tre agenti della scorta, Ardita ha detto: “Dobbiamo essere coerenti e non ipocriti ricordando Falcone. Quella di Giovanni Falcone fu una storia di solitudine, di sconfitte, di tradimenti subiti dentro e fuori la magistratura. Dovette difendersi dal Csm. Venne isolato, calunniato, accusato di costruire teoremi, mentre svelava i rapporti tra cosa nostra ed il potere. Gli venne contestato protagonismo, presenza sui media, di collaborare col governo, non fu eletto al Csm. Subì le stesse critiche che oggi si contestano ai magistrati più esposti. Dovremmo fare in modo che, se rinascesse, Falcone non si ritrovasse in quelle stesse condizioni. Ma ho motivo di temere che oggi, con la gerarchia del nuovo ordinamento, Falcone non potrebbe neppure essere quello che è stato. Questo dobbiamo dire e fare, se vogliamo rimanere distanti dall'ipocrisia di certe commemorazioni ufficiali, alle quali oramai alcuni di noi preferiscono non andare più”.
Mi associo alle parole di Ardita, non solo perché in diverse occasioni mi sono recato - costernato - in visita a Palermo, nei luoghi che videro cadere le vittime di Cosa Nostra, negli anni 90 e anche in quelli precedenti, ma anche perché sento nel più profondo del mio essere che quest''uomo non è morto invano, anche se la mafia ha proseguito con le sue attività erosive della democrazia italiana, fino ai nostri giorni.
Ma lasciamo da parte i sentimentalismi che nascono inevitabilmente da un evento del genere e passiamo ai fatti, 28 anni dopo. Le parole di Ardita mi hanno fatto venire in mente il volto di Nino Di Matteo, e dico, senza timore di sbagliare, che è esattamente il Giovanni Falcone del 2020. Se osserviamo attentamente il contesto della situazione di entrambi troveremo delle somiglianze ben definite, dei profondi parallelismi, ma il loro comune denominatore è la solitudine. La solitudine in cui viveva Falcone è la solitudine in cui vive oggi Nino Di Matteo, importante togato del Consiglio Centrale della Magistratura (CSM).
Ardita, ricordando Giovanni Falcone, lo descrive e mette in risalto con convinzione, senza però nominare espressamente la figura di Di Matteo, tutti quei magistrati maggiormente esposti. Perché 28 anni dopo Capaci, in certi ambiti, le amnesie sul significato e il lavoro di Falcone, si sono acuite e potenziate. O peggio ancora: sono state lacerate dal vertiginoso e dannoso peso dell'indifferenza. L'indifferenza di chi fa parte di un sistema politico e giudiziario, inquinato.
Così inquinato che dal 23 maggio del 1992 ad oggi, in Italia, non sono mancate le dimostrazioni di spregio verso il lavoro onesto e rilevante di Falcone, di Borsellino (e dal contemporaneo Nino Di Matteo).
Vale a dire che ancora oggi, nonostante siano trascorsi 28 anni, i legami tra il sistema politico e il sistema mafioso si sono rafforzati in modo tale che persino dopo le sentenze del processo sulla trattativa Stato-Mafia, ottenute grazie al perseverante lavoro del magistrato Nino Di Matteo e dei colleghi della sua squadra, gli intrighi di potere (mafia-stato-sistema politico) hanno continuato il loro corso e, nonostante Nino Di Matteo sia stato nominato a uno dei principali incarichi del CSM, da dietro le quinte molti personaggi hanno continuato a generare bufere e tsunami. Il più recente, quello che coinvolge niente meno che il Ministro della Giustizia Alfonso Bonafede e il movimento politico 5 Stelle, in tempi di Coronavirus, tempi che hanno visto trasferire dei mafiosi agli arresti domiciliari. Tempi in cui la mafia è sempre lì. Come lo siamo anche noi dell'antimafia.
Questo il quadro generale che questo 23 maggio fa da cornice alla nuova commemorazione di Falcone, giorno in cui nelle nostre redazioni di Antimafia le domande non mancano, come non mancano le incoerenze e le ipocrisie.
Perché furono uccisi Giovanni Falcone, prima, e due mesi dopo Paolo Borsellino? Perché? Per quale motivo? Perché furono lasciati soli 28 anni fa? Quale connubio di circostanze e avvenimenti per toglierli di mezzo? Cosa avevano scoperto quei magistrati? Quali timori si celavano tra le ombre dello stato e della mafia per decidere senza esitazione a farli saltare in aria? Come vengono interpretate quelle morti e quei martiri 28 anni dopo, collegandoli agli eventi dei giorni nostri?
Quasi duecento anni di mafia. L’eterno braccio di ferro non è più solo tra uomini. Non più solo di idee. Siamo arrivati a un punto in cui la simbiosi tra Stato-mafia è così grande che ricordare uomini come Falcone o come Borsellino fa venire la nausea, non perché ricordarli sia banale o effimero, ma perché penso che quando il ricordo viene sommerso dalle ipocrisie degli uomini di Stato, stiamo arrivando al punto in cui ricordarli sia blasfemo.

Foto © Shobha

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