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di Marta Capaccioni - Foto
Intervista a Derlis Lopez, leader della comunità Takua'i

Loro, i popoli nativi, erano in armonia con il Sole, la Terra e la Luna. Ascoltavano il cinguet-tio degli uccelli e aspettavano il loro ritorno per la primavera. Sorridevano agli animali e li accarezzavano come bambini. Respiravano all’unisono con gli alberi e il vento. Tutto gioiva nel veder danzare le loro grandi piume colorate. Tutti s’inchinavano davanti alla loro saggezza.
Nessuno si era mai permesso di turbare la pace e la tranquillità che avevano trovato nelle loro case e nelle loro comunità. Ma poi arrivarono, arrivarono in quel fatidico 1492, cavalcando, con cappello e grandi stivali, agitando corde e puntando i fucili contro tutto ciò che appariva ai loro occhi nemico. Una pallottola contro una pietra. Le due Americhe si tinsero di rosso, si bagnarono di un sangue puro e la terra pianse per il dolore. Tribù per tribù, sterminarono e distrussero. Tenda per tenda, saccheggiarono e incendiarono. Piuma per piuma, violentarono e uccisero.
Sono ormai più di 500 anni che i popoli nativi americani combattono per i loro boschi, per le loro terre e per la loro vita. È una lotta che continua ancora oggi, contro il nuovo impero. Un impero che, nonostante abbia cambiato colore o bandiera, è rimasto spietato come nel passato.
Questo sta succedendo anche in Paraguay, dove le popolazioni indigene, insieme a centi-naia di contadini, vengono ogni giorno brutalmente espropriate dai loro territori. Non è ri-masto più nulla: non ci sono foreste, non c’è biodiversità, non ci sono più quegli unici paesaggi invidiati dal mondo intero. Rimangono solo distese di campi, campi di soia, di marijuana e di grano, campi intensivamente sfruttati dall’oligarchia potente che governa e dalle multinazionali statunitensi.
Il paese infatti, non appartiene al popolo paraguayo, ma al 2% dell’intera popolazione, che in poche parole, si riduce a qualche migliaio su 7 milioni di abitanti. Il popolo paraguayo è schiavo all’interno di una grande casa, di proprietà di qualcun altro.

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Lo scorso 11 ottobre abbiamo incontrato Derlis Lopez, il leader della comunità Paraguaya Takua’i, de Corpus Cristi, Canindeyú, situata a meno di 1 km dal confine con il Brasile, vicino al fiume Piraty. Eravamo affascinati da quell’uomo che raccontava l’esistenza del suo popolo e addolorati nell’ascoltare la sua voce spezzata dalla tristezza. Ricorda l’assassinio di uno dei suoi compagni Isidoro Barrios, avvenuto solo un anno fa, il 16 settembre 2018, per cui ancora nessuno ha potuto piangere sul suo corpo. Poco dopo l’accaduto, come se non bastasse, la comunità di Takua’i venne spogliata dei suoi territori: incendiarono case, uccisero animali e torturarono donne e bambini. Violentavano e palpeggiavano le bambine. Le bambine. Davanti a sorelle, fratelli, davanti al padre e alla madre. Vergogna! Colpevole lo Stato, colpevole il governo, colpevole la polizia nazionale.
Chi sopravvisse al massacro manifestò 7 mesi davanti al Congresso Nazionale e in quel periodo altri furono uccisi. Poi, chi restò in vita, si disperse nei quartieri poveri di Asuncion, per le strade, nelle capanne, dove vivono tuttora. 160 famiglie sotto la soglia della povertà, in condizioni subumane.
Derlis Lopez si accende di rabbia e di dolore nel ricordare tutto questo: “Come popolo ori-ginario vogliamo essere trattati come voi, perché anche noi siamo umani, siamo fatti di carne e di sangue, e soprattutto non possiamo essere trattati così da un Presidente che dovrebbe salvaguardare il popolo, servirlo. E invece il governo si serve del popolo, lo di-scrimina e lo uccide”.
E continua, con le lacrime agli occhi, senza riprendere fiato: “Chiediamo rispetto, chiedia-mo che ci ridiano le nostre terre e la tranquillità che desideriamo come popolo originario. Necessitiamo dei nostri boschi, degli animali che ci danno la carne, necessitiamo dei campi che ci danno da mangiare, dei nostri territori. Necessitiamo tranquillità, equità ed econo-mia. Vogliamo giustizia e pace”.
Il popolo indigeno perde le terre con il sangue, perde la vita difendendo la famiglia e perde la casa difendendo la vita. Questo è il ciclo, questa è la vita, e così deve andare.

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Ma adesso basta! Il leader indigeno viaggerà in Cile, precisamente a Santiago del Cile, dove presenterà Il Manifesto del Gruppo di articolazione indigena del Paraguay al Forum mondiale indigeno per la difesa climatica e del territorio, rivendicando a livello internazio-nale la condanna dei colpevoli dei massacri, i loro diritti, violentati ogni giorno, e la loro vita, vergognosamente ingiusta.
Il popolo indigeno continua a lottare. Lotta per vedere il verde degli alberi e per sentire di nuovo il fruscio delle foglie. Lotta per i suoi pappagalli giganti, per i puma e i giaguari. Lotta per respirare ancora aria pulita. Lotta per il coraggio dei fratelli, martiri e perché la sua anima saggia non abbandoni l’umanità. Lotta infine, per vedere di nuovo la Terra sorridere, perché l’uomo comprenda che viviamo tutti sullo stesso Pianeta.

Foto © Our Voice

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