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imputati egitto condanna mortedi Karim El Sadi - Video
Salgono a 15 le esecuzioni capitali nel paese in meno di tre settimane

Continua ad usare il pugno di ferro Abdel Fattah al Sisi. Dopo le condanne a morte delle scorse settimane, mercoledì, in Egitto sono stati impiccati 9 giovani accusati dell’omicidio del procuratore Hisham Barakat. L’uomo era stato assassinato la mattina del 29 giugno 2015, a due passi da casa sua a Heliopolis, con la detonazione di un’autobomba che investì la vettura sulla quale si trovava. L’attentato non è mai stato rivendicato ma Polizia e Procura hanno puntato il dito contro i “Fratelli Musulmani”, organizzazione islamista di opposizione. Secondo la magistratura il procuratore sarebbe stato ucciso per aver ordinato l’incriminazione di migliaia di presunti membri dell’associazione (considerata terroristica dal regime). Lo scorso novembre, per la morte di Barakat, la più alta corte d'appello d'Egitto ha confermato le condanne a morte per 9 giovani facenti parte di un gruppo di 28 imputati. Di questi, i giudici hanno commutato la pena capitale in ergastolo per 6 indagati, mentre gli altri 13 rimanenti, che sono ancora a piede libero, sono stati condannati in contumacia. Mercoledì, dunque, il boia ha azionato il meccanismo di morte che ha aperto la botola sulla quale 9 di questi imputati, tutti giovani, attendevano di esalare l’ultimo respiro. Poco tempo fa Mahmoud Al Ahmadi, uno dei processati, in aula aveva dichiarato: “Qui in questa corte, c’è un ufficiale di polizia che ci ha torturati in Lazoghli. Se lei vuole che io lo indichi lo farò. Ma non so cosa mi succederà dopo quando tornerò in prigione se lo faccio. Lui ha torturato me e mio fratello insieme a metà delle persone (imputati, ndr) qui presenti”. La testimonianza del ragazzo è solo l’ultima di una lunga lista di sospetti, condivisa anche dalle organizzazioni per i diritti umani, secondo la quale, le confessioni degli imputati sarebbero state ottenute grazie a pesanti torture. Dichiarazioni queste che non sono state prese in considerazione dai giudici egiziani che hanno comunque optato per la via della sentenza capitale. “Questo processo è stato il monumento della slealtà dei processi in Egitto - ha dichiarato Hussein Baoumi, di Amnesty International - come si può vedere molti dei condannati erano stati forzatamente fatti sparire già dall’inizio, poi torturati per avere confessioni”. Anche la figlia del procuratore assassinato Marwa Barakat scrivendo su “Facebook” aveva espresso i propri dubbi sulle responsabilità dei 9 giovani: “Questi giovani non sono quelli che hanno ucciso mio padre. Moriranno ingiustamente. Per favore salvateli e arrestate i veri assassini”. Inutili a far cambiare idea i magistrati anche le suppliche delle famiglie dei condannati a morte che avevano invocato la grazia.



Tutte parole cadute nel vuoto, coperte sotto la sabbia. Questo è solamente l’ultimo episodio di una giustizia che in Egitto lascia poco spazio a dibattimenti processuali, fondamentali per garantire la democrazia che per diversi motivi può considerarsi assente in un regime dittatoriale. L'uso della pena di morte, le sparizioni forzate e le torture sono aumentate da quando il presidente egiziano, Abdel Fatah al-Sisi, è passato al potere in un colpo di stato militare nel 2013. Già allora erano state numerose le condanne a morte rilasciate a civili sottoposti a processi militari. Ed è proprio dal golpe che bisognerebbe partire per avere una chiave di lettura su quanto accade nel paese in ambito dei diritti umani. Nelle settimane successive al golpe del 2 luglio 2013 contro l’ex presidente Mohamed Morsi (anche lui condannato a morte), le strade delle metropoli egiziane sono state protagoniste di violenze, stupri e accesi scontri armati. I combattimenti tra i sostenitori di al Sisi e del presidente destituito Morsi raggiunsero l’apice della violenza nell’agosto di quell’anno, quando polizia ed esercito sgomberarono con la forza piazza Rabaa al Adawiya al Cairo, facendo almeno 800 morti tra i simpatizzanti del leader dei "Fratelli Musulmani" Mohamed Morsi. Altre centinaia di manifestanti furono arrestati e condannati a morte o a pesanti pene detentive. Lo svolgimento di questi processi è stato fortemente criticato da organizzazioni a difesa dei diritti umani perché molte delle condanne a morte sono state emesse in processi sommari di massa che, in molti casi, sono durati solo pochi giorni. Una situazione processuale precaria che ha visto come principale obiettivo quello di castigare chiunque facesse parte dell’organizzazione dei "Fratelli Musulmani". Una situazione che è continuata anche dopo la rielezione di al Sisi, lo scorso marzo, dove, il dittatore ha vinto con il 90% dei voti ma con un’affluenza alle urne di appena il 40%.
L'Iniziativa egiziana per i diritti personali con sede nel Cairo ha stimato che almeno 201 persone sono state giustiziate nel 2018, con oltre 600 condanne a morte emesse nei primi undici mesi dello scorso anno. Le ultime condanne, prima di quella dei giovani accusati dell’omicidio del procuratore Hisham Barakat, risalgono a una settimana fa quando erano state condannate 3 persone per l’omicidio di Nabil Farag, un dirigente delle forze di sicurezza. Pochi giorni prima erano stati messi a morte tre uomini ritenuti colpevoli dell’assassinio, sempre nel 2013, del figlio di un magistrato. Quello che si evince da questa situazione è che la magistratura egiziana ragiona a due velocità. Sbrigativa e superficiale per condannare chi è considerato membro o vicino ai "Fratelli Musulmani", coloro che in partica sono contro il regime al Sisi, e lenta e macchinosa per accertare la verità su chi ha compiuto il proprio dovere di ricercatore. Come Giulio Regeni.

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