militari durante il colpi di stato uruguaydi Jean Georges Almendras
A 45 anni dal colpo di Stato in Uruguay, repressori e complici camminano ancora liberi e impuniti
È scontato.
Che una società in democrazia non può compiere seri passi avanti se ha ancora sulle spalle il pesante manto dell’impunità che favorisce i repressori e i loro complici dei giorni della dittatura militare.
Il 27 giugno di 45 anni fa, un presidente costituzionale - Juan María Bordaberry, del partito colorado - scioglieva il Parlamento uruguaiano e cedeva ai militari la guida del paese. Nelle prime ore del mattino di quel giorno, i militari fecero irruzione armati nello storico Palazzo Legislativo, dando inizio al periodo più buio della storia uruguaiana. Il periodo della dittatura militare.
È scontato.
Che una società in democrazia, se si vanta di esserlo, non può permettersi certe incongruenze o certe incoerenze. E una delle più ignobili incoerenze dei nostri giorni è pretendere di voltare pagina sui circa 200 desaparecidos e andare avanti come se niente fosse accaduto, ostentando l’indifferenza come stendardo della vita nazionale e istituzionale, per dare le spalle alle legittime rivendicazioni dei familiari dei detenuti desaparecidos e, come se ciò non bastasse, lasciare i responsabili dei reati di lesa umanità, sia militari che poliziotti o civili, camminare liberamente per le strade di Montevideo e delle città del territorio uruguaiano, voltando le spalle alla giustizia ed ai cittadini che consapevoli di tanta ipocrisia e tanta manipolazione del sistema politico continuano a scrivere in silenziose marcie il motto: “Impunità. Responsabilità di Stato. Ieri e oggi”.
È scontato.
Che non possiamo continuare così.
Sebastián Artigas, familiare di detenuti desaparecidos e militante di Tesis XI e giornalista de La Izquierda Diario, in occasione di un evento presso la Facoltà di Lettere legato alla marcia indetta per il 27 giugno alle sei del pomeriggio (dall’Avenida Garibaldi e Pando fino alle porte del Comando Generale dell’Esercito, al grido di “Nessun militare nelle strade. Nessun impunito senza condanna”), ha aperto l'incontro parlando del significato di questa data e della lotta sempre viva contro l’impunità e la repressione. Ha segnalato inoltre il ruolo delle Forze Armate attraverso il Piano Condor, che intendevano imporre un modello sociale ed economico, sottolineando che l’impunità per i crimini commessi durante la dittatura fu accordata nel Patto del Club Naval al fine di preservare l’apparato repressivo per azioni future.
“Attualmente assistiamo ad una politica di potenziamento delle forze di sicurezza a livello regionale e la militarizzazione di Rio di Janeiro è uno degli esempi più chiari. Gli adeguamenti in corso in Brasile e Argentina sono la strada che toccherà anche all’Uruguay, ed è per questo che c’è bisogno di forze repressive rafforzate. Con la scusa della lotta contro la droga, il regime politico destina fondi per rinnovare l’apparato repressivo e renderlo più efficace. Si tratta di una politica adottata da tutti i partiti, anche se con sfumature diverse. Il governo del Frente Amplio ha adottato le iniziative proposte da Mario Layera (Director Nacional di Policía), ed ha autorizzato l’intervento delle Forze Armate in zone di frontiera, sono state inasprite le pene e incrementato il controllo statale; mentre l’opposizione raccoglie firme affinché i militari possano esercitare opere di repressione interna o chiede di ritornare a provvedimenti di sicurezza di immediato intervento”, ha concluso Artigas alla Facoltà di Lettere, rappresentando a La Izquierda Diario, Agrupación Pan y Rosas y Tesis XI, convocanti alla marcia del 27 giugno.
Nelle marce del silenzio degli ultimi anni, i giornalisti di Antimafia Duemila, i membri del Movimento Culturale Internazionale di Giovani Our Voice e dell’Associazione Culturale Un Punto en el Infinito hanno esibito un cartellone additando il tiepido impegno dei presidenti dei governi democratici post dittatura riguardo il tema delle violazioni dei Diritti Umani, ed in particolare l’azione della giustizia contro i repressori per i lavori di scavo nei terreni militari alla ricerca di resti di detenuti desaparecidos: “I responsabili dell’impunità. Silenziano la verità”.

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I presidenti Julio María Sanguinetti, Luis Alberto Lacalle, Jorge Battle, Tabaré Vázquez e José Mujica, nelle loro rispettive amministrazioni, hanno fatto poco per fare giustizia e molto per voltare pagina. E l’aspetto più degradante per la democrazia che rappresentavano con le loro rispettive investiture, è stato voltarsi dall'altro lato ogni qual volta le organizzazioni che lavorano per la salvaguardia dei diritti umani faceva notare loro la propria indifferenza.
E non per caso, negli ultimi tempi, il motto ufficiale della marcia del silenzio convocata da Madri e familiari dei detenuti desaparecidos in Uruguay alludeva sempre a una impunità praticamente patrocinata niente meno che dallo Stato: “Impunità. Responsabilità dello Stato. Ieri e oggi”. Uno Stato democratico ricco di promesse ma carente di azioni perché sia fatta giustizia. Carente e di conseguenza complice dell’impunità.
Un’impunità accordata nel Pacto del Club Naval dai tempi della dittatura, come affermò il collega Sebastián Artigas? Purtroppo sì. Un’impunità aggrappata al sistema politico e ai militari che vivono oggi nel 2018 con la mentalità degli anni settanta, fedeli al cronogramma stabilito in quel sinistro patto dove il leader politico Julio María Sanguinetti fu il mago nero di un vero abominio storico di cui ancora oggi paghiamo le conseguenze.
E sebbene siano state emesse sentenze contro dittatori, militari, poliziotti e un ex cancelliere per aver violato (in diverse modalità) i diritti umani durante la dittatura, ci sono responsabili, ancora oggi tra noi, che godono di un’impunità detestabile e obbrobriosa per la democrazia.
In materia di responsabili di delitti di lesa umanità, di torture e morti, alcuni hanno aggirato gli ostacoli, ovviamente molto ben protetti e assistiti, altri hanno optato per il suicidio (ci sono stati casi di militari che si sono autoeliminati) non senza prima spargere ogni sorta di ingiurie verso chi convocava la loro presenza in tribunale.
Ma concretamente, poco si è avanzato in materia di processi contro militari, poliziotti e civili che si sono sporcati le mani con il sangue di compatrioti o di combattenti di paesi interessati dal Piano Condor. E in materia di scavi, nel corso dei tre anni del governo progressista del Frente Amplio, sono stati recuperati soltanto resti ossei di quattro detenuti desaparecidos. Uno di loro era un combattente sociale, maestro e giornalista Julio Castro, il cui cranio presentava un colpo da arma da fuoco e altre evidenze che dimostravano che prima di morire fu vittima di torture.
Un contesto non tanto incoraggiante quando si anela la punizione dei colpevoli e non siamo pochi gli uruguaiani che vediamo come la cultura dell’impunità sia una costante nel corso dei decenni posteriori alla dittatura. E ci chiediamo e chiediamo allo Stato. E al Governo. Fino a quando? Fino a quando le marce del silenzio per i desaparecidos? Fino a quando ricordare la dittatura militare avvolti in una sfacciata ipocrisia attorno alla ricerca dei detenuti desaparecidos e il castigo dei colpevoli?
È scontato.
Che non possiamo continuare così.
E sebbene in quei giorni di dittatura i militari fecero sparire circa duecento persone, oggi, a distanza di 45 anni da quel 27 giugno, si arriva alla conclusione che non sono scomparse nè le strutture né le idee repressive. Molte sono rimaste intatte nell’anima e nella mente di molti civili. Di molti politici. Politici che militano nei partiti tradizionali e politici che militano niente meno che nella coalizione di sinistra. E questo fa ancora più male nel momento delle valutazioni e di ricordare quel 27 giugno 1973. Perché quando i politici che militano nel Frente Amplio non muovono un dito per capovolgere la situazione e fanno demagogia ipocrita sul tema dei desaparecidos e dei repressori liberi, il loro atteggiamento si identifica maggiormente con il tradimento che con i vaneggiamenti dialettici
È scontato.
Che non possiamo continuare così.
Nel mio caso in particolare - che quel 27 giugno avevo 18 anni- non posso dimenticare che mi sono recato al mio posto di lavoro, un ente statale (Consejo Central de Asignaciones Familiares, che anni dopo fu assorbita dal odierno BPS), in via San José, tra Ibicuy e Paraguay al centro di Montevideo. Ero assieme ad un amico di infanzia e compagno nella Colonia Estiva di Raigón (San José) che a quei tempi militava nel Partito Comunista. Come molti altri lavoratori abbiamo fatto l’occupazione seguendo la linea di lotta adottata dalla CNT. E quando l’occupazione venne interrotta dal violento ingresso delle forze repressive che eseguivano gli ordini del Ministro dell’Interno il Colonello Néstor Bolentini, dovemmo restare lì fermi per oltre dieci ore, in un clima tanto incerto in mano alla repressione delle ore successive al golpe. Il mio amico e compagno di lavoro e altri occupanti furono portati in un vicino commissariato, e duramente percossi durante il tragitto in un veicolo della polizia. Finalmente, a notte inoltrata, ci comunicarono che la maggior parte dei lavoratori, dopo essere stati schedati, poteva ritornare nelle proprie case con la minaccia di poter essere arrestati in qualsiasi momento.
Ad altri uruguaiani, in quegli stessi giorni, spettava un altro destino. Un destino di sofferenza e prigionia per alcuni, la morte per altri.
Oggi, 45 anni dopo il colpo militare, che aprì le porte ad una dittatura che seminò terrore e morte, l’unica cosa che possiamo fare è solo fare memoria?
Oggi vedo la popolazione che reclama con fermezza l'utilizzo del pugno di ferro per mettere un freno all’elevato livello di rapine e omicidi. Oggi l’insicurezza cittadina smuove menti e risorse di ogni tipo per spingere verso la mano dura contro i delinquenti. Richiesta che è stata ben assimilata dal sistema politico. Pretendono mano dura: presenza militare nelle strade, pene severe e quindi criminalizzazione dei settori vulnerabili della società. Una rivendicazione costante nella società uruguaiana e incentivata dai settori politici dell’opposizione. Inneggiata a voce alta e dai media fino allo spasimo.
Ma non vedo un solo reclamo a voce alta della società uruguaiana perché sia fatta giustizia nei casi di violazione dei Diritti Umani nei giorni della dittatura affinché siano buttati giù i muri dell’impunità dei repressori, e siano intensificati gli scavi per trovare i resti dei detenuti desaparecidos. E non vedo i mezzi di comunicazione informare su questi temi con la stessa intensità con cui si parla di altri fatti come una cassa di risonanza di una realtà sociale carica di inusitata violenza. Per alcuni, una violenza dei poveri e una violenza dei settori del narcotraffico locale insito di tensioni e di lotte interne. Per altri una violenza che porta dei vantaggi politici a diversi livelli. Una violenza che viene alimentata molto persino da file governative. Una violenza gestita nell'ombra e fomentata quando per esempio, dai vertici dei penitenziari o del governo, non si adottano o articolano misure urgenti per neutralizzare sanamente la tesa convivenza della popolazione reclusa in strutture sovrappopolate scenario quotidiano di morti in un contesto di corruzione carceraria dove reprimere e punire con violenza facendosi scudo dell’uniforme e del potere è la norma.
I manifesti per i desaparecidos li vediamo solamente alla marcia del silenzio ogni 20 maggio ed in altre due o tre date legate ai Diritti Umani. E basta. Sono già 23 anni di questa routine. Perché la marcia del silenzio si è istituzionalizzata. Ormai è parte del sistema politico. E favorisce il governo. Perché il tema dei desaparecidos è una materia in sospeso per il governo, ma è allo stesso tempo un sasso nella scarpa. In definitiva è un male necessario. Necessario per chiudere la bocca di coloro che reclamano giustizia e di chi dice che i governanti della Sinistra uruguaiana - legge Tabaré Vázquez e José Mújica - non hanno fatto niente. Un male necessario e basta. Nient’altro, così traspare dai circoli del governo e del Potere Giudiziario (e ovviamente dalle file militari e dei partiti tradizionali) l’impunità bisogna proteggerla. Preservarla. Perché bisogna voltare pagina. E quanto prima è meglio.
È questo il contesto in cui come nazione dobbiamo fare memoria di quel 27 giugno del 1973? È sufficiente farlo lasciando da parte il nostro legittimo diritto a distruggere o abbattere i muri dell’impunità di cui godono i repressori e i mandanti del sistema politico che ne presero parte attiva?
Come atto dovuto di rispetto e riconoscenza verso le vittime della dittatura argentina ed uruguaiana, con il proposito di ricordare che sono già trascorsi 45 anni dal colpo di stato militare in Uruguay, riporto l’opinione sul tema di Victoria Moyano Artigas, nipote recuperata e figlia di una donna uruguaiana desaparecida a Buenos Aires, la stessa sorte toccò al padre. Victoria, che oggi vive a Buenos Aires, nacque in prigionia nel Pozo di Banfield negli anni settanta ed è una donna che merita tanto rispetto, non solo per la sua storia personale ma perché la sua voce e la sua lotta sono un punto di riferimento, nella vicina sponda ed in Uruguay, del sentimento delle persone che oggi devono convivere con il loro passato violentato dal terrorismo di Stato e dell’impunità che oggi è ancora un cancro nella nostra società.

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Victoria Moyano Artigas, dialogando con Antimafia Dos Mil, a conclusione dell’ultima marcia del silenzio dello scorso 20 maggio, nella Plaza Cagancha, è stata categorica: “Per me è molto importante essere qui e soprattutto quest’anno, in cui sono previsti dibattiti importanti. È un anno complicato che ci trova a denunciare da più parti l’impunità; da una parte l’impunità di tutti i governi che abbiamo avuto fino ad oggi, incluso quello attuale, che permette che ci sia un pugno di repressori genocidi dietro le sbarre, ma che godono anche dei benefici degli arresti domiciliari ed altro; abbiamo un Potere Giudiziario che evidentemente ha una lettura conservatrice dei reati commessi durante la dittatura.
Noi, i familiari, vogliamo indagare ma non abbiamo accesso alle informazioni, quindi l’informazione che circola non corrisponde alla quantità di fascicoli giudiziari, denunce e condanne e, allo stesso tempo, ci troviamo a combattere non solamente qui in Uruguay ma anche a Roma o in Argentina. Stiamo vivendo un momento complicato. Sono venuta in questi giorni e non ho potuto fare a meno di sorprendermi ad esempio delle dichiarazioni del Comandante dell’Esercito, che fa un discorso non solo dal punto di vista della legalità che tanto difendono, sull’essere pronti per le minacce che possano venire da organizzazioni interne e questo mi è sembrato una barbarità e mi sembra anche una barbarità che nessuno si sia scandalizzato di fronte a simili dichiarazioni; nessuna responsabilità, nessuna conseguenza che il Capo dell’Esercito dica una tale barbarità”.
- Quindi, sarebbe ora di cambiare questa marcia del silenzio, renderla più rumorosa per dare un passo avanti più energico e non limitarsi ad un’attività militante una volta all’anno?
marcia a 45 dal colpo di stato montevideo“Io credo che è sempre meglio ci sia qualcuno che denunci. Credo che uno deve parlare, deve denunciare, pretendere soprattutto; oltre a denunciare bisogna pretendere delle risposte, credo sia questo il metodo. Ad ogni modo, aderisco alla marcia con tutte le sue caratteristiche, anche se ritengo che siamo in un momento cruciale dove vediamo che l’apparato repressivo continua ad attaccare –diciamo così- con dichiarazioni, difendendo la loro pensione, minacciando i manifestanti di diritti umani e con quei patti del silenzio che non hanno stretto solo tra loro, ma anche con il potere politico”.
Riportiamo anche l’opinione di Ignacio Errandonea, anche lui familiare di desaparecidos, a proposito della marcia del silenzio, ai microfoni del giornalista Sebastián Artigas de La Izquierda Diario: “Non c’è stato nessun progresso in quest’anno, e se ci troviamo come l’anno scorso significa che stiamo peggio. Quando parliamo di impunità o di ricerca dei desaparecidos non intendiamo cercare in qualche archivio, o aspettare qualche informazione su dove possano essere stati sotterrati i corpi. Occorre un’indagine, una decisione e un ordine dalla Presidenza affinché partano le indagini. Ci sono oltre 200 cause, una Procura con scarsi mezzi come può fare passi avanti?”
L'impunità è imperante forse perchè lo Stato ha altri interessi?
Sebastián Artigas, interpellato da noi sui motivi per i quali la sua famiglia si è svincolata dall’avvocato dello Stato nel processo del Piano Condor a Roma, ha affermato che effettivamente gli interessi dello Stato sono altri.
Interessi non compatibili con la libertà, né con la democrazia. Né con l'etica rivoluzionaria di coloro che sono scomparsi per la difesa delle proprie idee. O sopportando torture o violazioni, se erano donne.
È scontato.
Che non possiamo continuare così.
Non basta ricordare la dittatura militare, bisogna distruggere la cultura dell'impunità che ci attanaglia quotidianamente. Occorre spodestarla prima che i giovani siano divorati dalla mancanza di memoria.
Bisogna abbattere l'impunità perché senza renderci conto ci sta condizionando e dominando. Ci sta distruggendo. E sta distruggendo i nostri giovani, cioè il futuro.
Non basta ricordare la dittatura militare, bisogna denunciarla, e denunciare chi l’ha coperta allora e la copre oggi. Bisogna denunciare chi contribuisce con la cultura dell'impunità e chi tradisce chi ha dato la propria vita per affrontare i repressori. I repressori di ieri ed i repressori di oggi.
Non basta ricordare la dittatura e fare buon uso della pena dalla comodità della propria casa. Bisogna uscire dalle quattro pareti della vita comoda, allo stesso modo in cui si scende in strada per protestare contro l'insicurezza urbana. È ora di seguire le orme di chi fu fermato e poi è scomparso “desaparecido”. È ora di onorarli entrando in azione nelle strade, nelle piazze e nei posti di lavoro, a favore della giustizia e reclamando giustizia, e che gli orrori vedano la luce della verità e la condanna dei responsabili.
È ora. È il momento. È il tempo. Tempo di impegno e non di parole, perché le parole vengono portate via dal vento.
È tempo di impegno senza paure né egoismi, per rispetto di coloro, che furono torturati, che furono prigionieri politici e che oggi sono desaparecidos.
È scontato. No?

Foto di copertina: www.sdr.liccon.edu,.uy
Foto 2: Antimafia Dos Mil
Foto 3: www.laizquierdadiario.com

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