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centrali nuclearidi Bruna Sironi
L’ambizioso programma sudanese di sviluppo del nucleare civile ha ripreso a correre, grazie ad accordi siglati con Russia e Cina, nonostante la recente scoperta di “radiazioni pericolose” a Port Sudan e il precedente interramento di decine di container di scorie radioattive a Merowe, sul fiume Nilo
Negli ultimi giorni due notizie hanno confermato che il Sudan è ormai ben avviato sulla strada dell’avventura nucleare. Venerdì a Mosca è stato definito l’accordo per la costruzione del primo impianto per la produzione di energia nucleare a scopi civili nel paese.
L’idea di coprire il gap energetico con la produzione di energia nucleare non è nuova. Se ne parla da alcuni anni. Ma il progetto ha preso forma nello scorso novembre, entrando a far parte di un pacchetto di iniziative di cooperazione con la Russia, che rinnovava così il suo impegno a sostegno del regime di Khartoum. Allora il ministro sudanese per le Risorse idriche e l’Energia elettrica, Muataz Musa, fece sapere che il supporto russo avrebbe permesso di costruire l’infrastruttura e preparare i tecnici necessari alla gestione dell’impianto.
Il progetto si inquadra in un ambizioso programma governativo che prevede di produrre 5.000 megawatt di energia da impianti nucleari entro il 2030. Venerdì a Mosca è stato firmato l’accordo dettagliato, che impegna all’inizio dei lavori entro la metà dell’anno prossimo. La centrale nucleare dovrebbe essere poi messa in funzione nell’arco di un anno e mezzo, dunque entro il 2020.
Contemporaneamente alla diffusione, con tono trionfale, di questa notizia, la Commissione per l’energia atomica sudanese e l’Amministrazione federale per la sicurezza - dunque due istituzioni ufficiali - hanno confermato di aver rilevato “radiazioni nucleari pericolose” nella zona di una discarica nella parte settentrionale di Port Sudan, il principale porto del paese. La zona è stata cordonata e chi vi lavora è stato informato della pericolosità dell’area. Per ora, però, non si sa che cosa stia emanando radiazioni.

Inquietanti precedenti
Non sarebbe però la prima volta che a Port Sudan arrivano scorie nucleari. Dopo anni di illazioni, nel 2015, durante una conferenza tenutasi a Khartoum, capitale del Sudan, l’ex direttore della Commissione per l’energia atomica sudanese, Mohamed Siddig, dichiarò che negli anni precedenti la Cina aveva importato almeno 60 container di scorie nucleari, provenienti quasi certamente dai suoi impianti atomici, insieme ai materiali da costruzione per la diga di Merowe, sul Nilo, poco a nord della capitale. I container furono interrati con ogni probabilità proprio nella zona di Merowe, durante i lavori di costruzione dell’infrastruttura, tra il 2004 e il 2009. Mohamed Siddig nella stessa conferenza, affermò che il governo aveva autorizzato l’importazione ad occhi chiusi, senza l’ispezione del contenuto, e forse anche senza il controllo della destinazione finale.
Sta di fatto che il ministero della Sanità sudanese e l’Organizzazione mondiale della sanità, con una ricerca effettuata tra il 2009 e il 2013, hanno rilevato un aumento considerevole dei casi di cancro - soprattutto leucemie - in certe zone del paese. Quello con la più alta percentuale rispetto alla popolazione è risultato proprio lo Stato del Nord, dove si trova la diga di Merowe e dove diverse altre sono in costruzione o allo studio.
Se tanta disinvoltura è stata usata con le scorie nucleari cinesi, si può immaginare cosa potrebbe succedere con quelle prodotte dai propri impianti, in un paese gravemente insicuro, dove la pratica della pulizia etnica, anche attraverso la mala gestione del territorio, è stata applicata in tutti i numerosi conflitti che lo hanno insanguinato a partire dall’indipendenza (nel 1956) e soprattutto dopo il colpo di stato militare che, nel 1989, ha portato al potere il regime islamista che ancora governa il paese.
Un esempio di quanto potrebbe succedere sono gli impianti petroliferi che ora si trovano in Sud Sudan, le cui scorie sono state gestite in modo tale da inquinare gravemente le falde idriche di vastissime regioni, come hanno dimostrato diversi studi. Tra gli altri quelli di una ong tedesca, Sign of Hope, che ha pubblicato le sue ricerche in un libro, Oil, Power and a Sign of Hope, che è stato recensito da Nigrizia.

Tratto da: nigrizia.it

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