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video poker da espressodi Fabrizio Gatti
Anziani, adolescenti e perfino bambini. Poveri e ricchi. Tutti appassionati dall'azzardo. Viaggio in un affare da decine di miliardi che lo Stato continua a favorire. Incassando però sempre meno

La mattina in classe. La sera a scommettere soldi fino a tardi. Noia e slot-machine. L’avvicinamento tra scuola e luoghi del gioco d’azzardo sembra rendere bene. Stasera, un mercoledì qualunque tra le undici e la mezzanotte, è strapieno di ragazzini e ragazzi da spennare. I minorenni si accalcano intorno alle “ticket redeption”, gli apparecchi mangiasoldi per bambini che in Italia hanno invaso i centri commerciali: macchine della fortuna che incassano monete e, quando si vince, sputano metri di cartoncini. I premi li hanno pensati proprio così: metri di scomoda carta in modo che siano ben visibili.

Avvolti come piccoli Rambo nelle cartucciere, i vincitori si mettono poi in coda al “ticket eater”, il mangia biglietti che dopo molti secondi e qualche lampo di luce restituisce un voucher (accessorio sempre più diffuso nella nostra società). Ed ecco il punteggio totale della vincita da incassare: di solito un minuscolo, inutile oggetto di plastica made in China del valore di pochi centesimi, per il quale ogni baby giocatore ha però speso fino a 10 euro. Gli studenti maggiorenni appena usciti dal cinema multisala saltano invece i preliminari. E, sotto la sguardo del buttafuori senegalese, si infilano direttamente nella porta a vetri del “Luckyville”, la sala del gioco per adulti. Domani mattina non hanno lezione?

Siamo a Lissone, provincia di Monza e Brianza, lungo la superstrada che da Milano sale a Lecco. Qui la rivoluzione post industriale ha già demolito il mito del lavoro, della fatica, del risparmio: vent’anni fa nessun impiegato, nessun agricoltore, nessun meccanico brianzolo e nemmeno i loro figli avrebbero usato così i loro soldi. Adesso li vedi fino a notte fonda. Giovani e meno giovani, uomini e donne. Più uomini che donne. Da come sono vestiti, non se la passano al massimo. C’è un’asimmetria spaventosa tra il dominio delle macchine e la sottomissione solitaria dei giocatori. File di dita illuminate dagli schermi battono svogliate sul tasto play. Sono nuovi operai di una catena di montaggio retribuita al contrario: pagano per far andare la linea. Ma non si danno per vinti. E, nella monotonia ipnotica dei gesti, continuano a bussare alla stessa illusione.

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RECORD ITALIANO
Sono loro e quelli come loro, dal Friuli alla Sicilia, ad aver buttato nel gioco d’azzardo novantacinque miliardi in un anno. Nel 2016 l’Italia ha battuto il record dei record, uno schiaffo alla crisi. Fanno la bellezza di 7,9 miliardi al mese, 260 milioni al giorno, quasi 11 milioni l’ora, 181 mila euro al minuto: cioè il 4,7 per cento del nostro Pil. È come se ogni persona, neonati compresi, avesse puntato e magari perso 1.583 euro. Ci siamo bevuti molto più del fatturato annuale di Mercedes auto (83,8 miliardi), o di Amazon (sempre in euro, 83,6 miliardi) e perfino della Boeing che costruisce e vende aerei nel mondo (90,2 miliardi).

Lotto, scommesse ai cavalli, bingo, poker? Svaghi passati di moda. Più della metà delle puntate, com’era prevedibile, è stata bruciata nella solitudine degli apparecchi mangiasoldi. Secondo i risultati anticipati dall’agenzia specializzata “Agipronews”, 26,3 miliardi li hanno inghiottiti le famigerate slot-machine, che incassano monete e pagano vincite fino a cento euro. E 22,8 miliardi le videolotterie, che deglutiscono banconote e restituiscono fino a cinquemila euro ma, in caso di jackpot, anche oltre. Risultato: quasi 50 miliardi in contanti, il 2,7 per cento del Pil.

Prendiamo l’Abruzzo, dove turisti e residenti muoiono sotto le valanghe perché nessuno riesce a pulire le strade di montagna quando nevica. Gli abruzzesi non hanno spazzaneve efficienti, ma hanno a disposizione 11.154 slot-machine: una ogni 119 abitanti. È il primato europeo, condiviso con il Friuli Venezia Giulia. Eppure sia il numero di spazzaneve, sia il numero di slot-machine con i relativi contratti di concessione dipendono sempre da enti dello Stato. C’è qualcosa che non funziona nella testa delle istituzioni, se siamo arrivati a questo punto.

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È infatti lo Stato a permettere e sostenere l’overdose collettiva di giochi a pagamento. Perché da un lato favorisce la raccolta di incassi che finiscono puntualmente a società con sedi fiscali fuori confine: Londra, Lussemburgo, o Cipro. Ma allo stesso tempo preleva dalle giocate tasse ridicole. Giusto per ricordare: elettricità, gas, farmaci, ristoranti, teatro, uova, carne ci costano il dieci per cento di imposte, vestirci addirittura il ventidue per cento.

Indovinate quanto versano al nostro fisco i concessionari che gestiscono le videolotterie? Una minitassa del 5,5 per cento, che fino al 2011 era addirittura del 2 per cento. E le slot-machine a moneta? Il 17,5 per cento nel 2016, il 13 nel 2015, l’11,8 nel 2012. Nel frattempo il “pay out”, cioè la percentuale minima da destinare alle vincite, è stato ridotto dal 74 al 70 per cento della somma raccolta. Un ulteriore regalo alle poche società autorizzate, tra le quali il gruppo “Atlantis-BPlus” della famiglia Corallo (vedi articolo a pagina 48).

Dai novantacinque miliardi raccolti, vanno infatti sottratti i ricavi per gli operatori e le imposte: nel 2016 le società hanno incassato ricavi per otto miliardi e mezzo e versato imposte sulle giocate per dieci miliardi. Il resto viene distribuito come vincite.

La somma di ricavi e imposte costituisce la spesa effettiva sostenuta per il gioco d’azzardo, cioè quanto gli italiani hanno sicuramente pagato nel 2016 per giocare: 18,5 miliardi, sette volte il fatturato della Ferrari e quasi il doppio del valore della casa di Maranello. Le vincite vengono invece considerate una ricchezza restituita al Paese. Ma è così soltanto per la statistica. Nella realtà, chi ha perso non riavrà mai più indietro i suoi soldi. E chi ha vinto, molto raramente si ritrova in attivo. E tutti e due continueranno a giocare.

VITTIME COLLATERALI
Lo dimostrano le vittime collaterali della ludocrazia, questa nuova forma di potere economico esercitato attraverso l’illusione del colpo di fortuna: 790 mila italiani malati di gioco, un milione 750 mila a rischio patologia. Sono i dati raccolti da “Sistema gioco Italia”, la federazione di Confindustria, e ripresi dalla Camera in una mozione approvata due anni fa che denuncia il prezzo sociale e sanitario dell’epidemia: per curare i malati, si sfiorano i sette miliardi l’anno.

Anche perché, per ogni giocatore patologico grave, il costo annuale delle cure a carico dello Stato raggiunge i 38 mila euro. Sempre secondo i dati presentati alla Camera, gioca d’azzardo non solo chi se lo può permettere ma il 47 per cento degli italiani indigenti, il 56 per cento delle persone appartenenti al ceto medio basso. E il 47,1 per cento degli studenti tra i 15 e i 19 anni: oltre un milione e 200 mila ragazzi.

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Gli adolescenti sono i più esposti alla dipendenza: secondo una ricerca curata nel 2015 dall’Istituto di fisiologia clinica del Cnr, l’8 per cento dei giovani che giocano d’azzardo ha già comportamenti problematici. E l’11 per cento è a rischio: cioè, se lasciato solo, potrebbe superare la soglia della patologia. I ragazzi puntano ovunque: bar e tabaccherie (35 per cento), sale scommesse (28 per cento), il computer di casa (19 per cento).E, nonostante la legge lo vieti, il 38 per cento dei minorenni ha giocato d’azzardo durante l’ultimo anno. Molti di loro sono ancora bambini: l’8 per cento dei piccoli tra i 7 e gli 11 anni scommette soldi in Internet.

LA SCUOLA IN SALA GIOCHI
È la vicinanza ad attirare gli adolescenti. Lo denuncia la relazione 2016 al Parlamento sullo stato delle tossicodipendenze in Italia: «Il 48 per cento di chi non ha giocato d’azzardo durante l’anno riferisce di non avere contesti di gioco nelle vicinanze della propria abitazione o della scuola che frequenta. Circa il 44 per cento degli studenti giocatori invece abita e/o frequenta una scuola a meno di cinque minuti da un luogo dove è possibile giocare d’azzardo».

Per questo le Regioni per prime, tra le quali la Lombardia, hanno vietato l’installazione di slot-machine a meno di cinquecento metri da elementari, medie e superiori. A volte però sono le stesse scuole a portare i loro studenti proprio dove si scommette. Ecco cosa si legge sul sito governativo dell’Istituto comprensivo “Piazza Caduti di via Fani” di Lissone, sempre in Brianza : “Dopo le gare di selezione interne, il 14 aprile presso il Joyvillage di Lissone si è svolta la finale provinciale del torneo di bowling, che ha visto dominatrice la nostra scuola».

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Il bowling è certamente un passatempo sano, così come il “progetto bowling a scuola”. Il “Joyvillage” però è la stessa sala giochi lungo la superstrada Milano-Lecco in Lombardia con i “ticket redemption”, vere slot-machine per minorenni. Ed è anche l’anticamera, in tutti i sensi, di “Luckyville”: la sala per adulti volutamente allestita in mezzo agli spazi per famiglie con tavoli da biliardo, apparecchi mangiasoldi per bambini e, appunto, il bowling. Joyvillage, il villaggio della gioia, e Luckyville, la città della fortuna, appartengono a Maxbet, società partner di Lottomatica fondata in Ucraina, con sede legale a Cipro e sale giochi in Romania, Bielorussia e Italia.

Da quanto racconta il sito “tuttobowling.it”, le scuole della provincia di Monza ospitate da Maxbet sono molte di più. Un istituto superiore, il Mosè Bianchi. E addirittura sei medie inferiori: Bagatti-Valsecchi, Aldo Moro, Caduti via Fani, Mariani e due istituti intitolati a Edmondo De Amicis. Forse non è un caso che Joyvillage e Luckyville siano così affollati di adolescenti perfino il mercoledì sera tardi.

Un gruppo di studenti maggiorenni è appena entrato nella sala delle slot-machine e delle videolotterie. Sulle macchine lampeggia la scritta “Lottomatica”, accanto a messaggi rassicuranti dell’Agenzia dei monopoli. Lottomatica è il colosso economico che da Londra a Wall Street ritorna in Italia sotto il controllo del gruppo De Agostini, il glorioso modello di editoria per bambini e ragazzi.

Tutto questo soltanto quattordici anni fa non era permesso. Fino al 2003, quando furono introdotte le lotterie istantanee e 350 mila slot, le giocate degli italiani oscillavano intorno ai quindici-diciassette miliardi l’anno. Ed era già un primato. Nel 2004 la tradizionale estrazione del lotto dominava ancora con il 47,2 per cento del mercato. Gli apparecchi mangiasoldi si prendevano solo il 18,1 per cento. Ma già quell’anno, in seguito ai nuovi giochi autorizzati, le puntate complessive salirono per la prima volta a ventiquattro miliardi. E da allora la crescita non si è più fermata. Un jackpot alla rovescia, guidato dalla lunga mano dello Stato.

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Si è cominciato con il governo Berlusconi dall’idea di incrementare le entrate fiscali attraverso le concessioni per il gioco, per non aumentare la tassazione generale. E nel 2009 si è superato il punto di non ritorno: sempre grazie a un governo Berlusconi, con il decreto per l’Abruzzo che pretendeva di ricostruire L’Aquila e la provincia distrutta dal terremoto con le imposte sull’azzardo, è stata decisa l’invasione senza precedenti di slot-machine e l’introduzione delle nuove videolotterie. Sappiamo come è finita: invece della ricostruzione, l’Italia è diventata una disperata sala giochi.

Le 397.000 macchine mangiasoldi oggi autorizzate garantiscono ai gestori una densità media nazionale di un apparecchio ogni 151 abitanti. Battuti perfino i medici, fermi a uno ogni 250 residenti. Siamo tra i primi sei nel mondo anche come spesa individuale: accanto ad Australia, Singapore, Finlandia, Nuova Zelanda e Stati Uniti. Con appena l’1 per cento della popolazione mondiale, occupiamo il 22 per cento del mercato globale.

LA MANO SOFFICE
La mano soffice dei governi ha intanto premiato gli apparecchi più pericolosi e onerosi per le pesanti conseguenze sulla salute. Un vero paradosso. Lo ha denunciato otto mesi fa la Corte dei conti nella relazione sul rendiconto generale dello Stato: «Nell’ultimo quinquennio, nonostante un aumento delle giocate dell’ordine di 27 miliardi (+44 per cento), l’utile erariale ha segnato una caduta dell’ordine di 300 milioni (-4 per cento). E nel più ampio arco temporale 2004-2015, per ottenere un aumento di 1,1 miliardi del gettito da giochi (+15 per cento), il valore delle giocate è dovuto crescere di 63,5 miliardi (+256 per cento)».

È nata così la nuova “casta ludens”: una generazione di investitori, manager, lobbisti, parlamentari amici, avvocati, burocrati, matematici, ingegneri, politici nazionali e locali che, dietro i paramenti del gioco pulito, perseguono i naturali interessi economici del settore. La ludocrazia dà lavoro in Italia 146 mila persone. Ha piantato radici in migliaia di famiglie. Perfino nel nome adesso è più gentile.

Fin dal 2003 i ludocrati hanno fatto correggere gli articoli del Testo unico delle leggi di pubblica sicurezza, il Tulps: non si chiama più “gioco d’azzardo” ma “gioco lecito”. Il messaggio cambia. È scritto ovunque nei siti, sulle slot-machine, nelle sale giochi, accanto al logo rassicurante dell’Agenzia delle dogane e dei monopoli: «Gioca senza esagerare». Se finisce male, è perché hai esagerato. Secondo lo Stato, lo sviluppo di patologie dipende insomma dall’individuo. Non dall’offerta di campagne commerciali invasive e potenzialmente pericolose.

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NOVECENTO EURO ALL’ORA
Eppure pubblicità, macchine, luci e suoni alludono alla possibilità di un riscatto dalla disoccupazione o dalla quotidiana disperazione. Se non fosse così, i grandi gruppi non piazzerebbero i loro marchi agli incroci delle periferie più povere. Quando poi mancano i soldi e arrivano le ingiunzioni della banca, è troppo tardi per tornare indietro.

La finanziarizzazione della povertà comincia da qui: i pignoramenti, le minacce di sfratto, le rate da restituire. I debiti ci rendono più docili. Alla peggio, la violenza esplode in famiglia. «Oggi, quando si parla di azzardo», sostiene Marco Dotti, docente all’Università di Pavia, nell’introduzione del libro “Ludocrazia, un lessico dell’azzardo di massa” (O/O Edizioni) curato con Marcello Esposito, «si dovrebbe parlare nello specifico di azzardo di massa mediato dalla tecnologia e orientato al controllo integrale del soggetto, non solo delle sue pulsioni». Gli imprenditori ovviamente si dichiarano tutti testimonial del gioco responsabile. Ma un’impresa competitiva quotata in Borsa o finanziata da fondi di investimento può davvero ridurre il suo RevPAC (Revenue per available customer), cioè il fatturato per singolo cliente?

La slot-machine qui di fronte non può rispondere. Fa soltanto il suo sporco lavoro. È un robot programmato per drenare ricchezza. Il suo cuore è un algoritmo impostato secondo quanto stabilisce il comma 6 dell’articolo 110 del Tulps: una vincita ogni 140 mila partite, durata della partita quattro secondi, costo massimo un euro a partita. Avete capito bene: un euro basta solo per quattro secondi di gioco. Sono quindici euro al minuto, novecento all’ora. È questa velocità frenetica l’anticamera della dipendenza.

Proviamo allora una Vlt, le videolotterie che avrebbero dovuto ricostruire L’Aquila. Le loro vincite sono programmate su un ciclo più lungo: cinque milioni di partite. Infatti va addirittura peggio. Lei sembra conoscere tutto dei suoi giocatori. All’inizio ti fa vincere. Da dieci euro ti porta a tredici, semplicemente battendo a caso sul tasto. Poi si prende tutto. Finalmente i ragazzi delle scuole sono andati via. Restano gli incalliti. Qui accanto è seduta una pensionata oltre la settantina. Non stacca lo sguardo dallo schermo da almeno un’ora. E continua a perdere. All’improvviso il suo badante sudamericano, muscoloso e tatuato, risponde al telefonino: «È tua figlia», le dice. «Adesso non ho tempo», mormora lei, senza nemmeno voltarsi.

Tratto da: espresso.repubblica.it