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shohayet mohammeddi Filippo Femia
Mohammed Shohayet, 16 mesi, perde la vita durante la fuga verso il Bangladesh. La sua minoranza di religione musulmana vittima di un massacro dimenticato

Il corpicino riverso, la faccia affondata nel fango. Il cadavere di un bimbo giace lungo la sponda del fiume Naf. È morto affogato con il fratellino e la madre. Mohammed Shohayet, 16 mesi, stava scappando dal pogrom di cui il suo popolo, i Rohingya, è vittima in Birmania. La barca su cui viaggiava verso il Bangladesh è affondata lo scorso dicembre, mentre i soldati sparavano sui fuggitivi.

L’immagine choc riporta la mente all’estate del 2015. Turchia, spiaggia di Bodrum. Una giornalista fotografa un bimbo senza vita sul bagnasciuga, le braccia stese dalla risacca. La posizione di Aylan Kurdi, tre anni, è la stessa di Mohammed. Anche lui è morto insieme al fratellino e alla madre, scappati dalla Siria inseguendo il sogno europeo. Solo il padre sopravvive. Come nel caso di Mohammed: «La mia vita non ha più senso. Preferirei essere morto», ha detto alla Cnn dal campo profughi del Bangladesh dove si trova.  

Differenti le cause della fuga, identico l’epilogo: Mohammed e Aylan sono legati da un tragico filo. L’immagine del piccolo Rohingya è stata pubblicata dalla Cnn, con il titolo: «Il mondo si indignerà anche ora?». Il riferimento è proprio ad Aylan. In quel caso l’immagine si trasformò in un atto d’accusa contro la politica dei muri. Inchiodò il mondo alle sue responsabilità, rompendo il muro dell’indifferenza. E diventò il simbolo della crisi dei migranti.  

In Birmania la tragedia dimenticata dei Rohingya dura dal secolo scorso. La minoranza di fede musulmana - circa un milione in un Paese dove il 90% della popolazione è buddista - vive principalmente nello stato di Rakhine, nel nordovest. La maggioranza dei birmani li considera immigrati dal Bangladesh che si sono stabiliti illegalmente.  

Il governo nega loro la cittadinanza e il voto e li ha esclusi dalla lista dei 135 gruppi etnici del Paese. Non hanno nessun diritto, nemmeno quello di essere chiamati con il loro nome. Una circolare del ministero dell’informazione ha vietato ai funzionari di utilizzare il termine Rohingya, imponendo la definizione «popolazioni di origine islamica». Quasi 150 mila di loro vivono in squallidi campi-ghetto, da cui possono uscire solo con il permesso, accordato di rado, delle autorità.  

La tragedia dei Rohingya inizia nel 1970, data del primo grande esodo: 250 mila persone fuggono dalla persecuzione dell’esercito. Negli ultimi anni la repressione si è intensificata, obbligando migliaia di disperati a cercare rifugio nei Paesi vicini: Bangladesh, Thailandia, Malaysia. Spesso la traversata si rivela mortale. Secondo l’Oim, l’agenzia Onu per le migrazioni, negli ultimi mesi 34 mila Rohingya sono fuggiti in Bangladesh attraverso il fiume in cui è morto Mohammed. Nell’ottobre scorso è iniziata un’offensiva militare con rastrellamenti arbitrari. Il bilancio è di 86 morti e 27 mila fuggiti.  

L’accesso allo Stato di Rakhine è vietato a giornalisti e attivisti. Ma nei giorni scorsi Human Rights Watch ha diffuso foto satellitari in cui si vedono interi villaggi bruciati e centinaia di case abbandonate. In una di quelle viveva la famiglia di Mohammed. «I soldati sparavano dagli elicotteri sulle case. I miei nonni sono morti bruciati vivi. Noi siamo scappati e ci siamo nascosti nella giungla per giorni. Dovevamo cambiare posto perché i soldati cercavano i Rohingya», ha raccontato il padre, Zafor Alam. Una storia che il governo ha bollato come «montatura».  

Ma il massacro dei Rohingya continua nel silenzio colpevole di Aung San Suu Kyi. La presidente, che ha dedicato la sua vita alla lotta per i diritti umani, ha finora voltato la testa dall’altra parte, ignorando quella che l’Unhcr ha definito «pulizia etnica». Nei giorni scorsi 23 leader mondiali, tra cui diversi Nobel per la Pace, hanno inviato una lettera all’Onu per costringerla a riconoscere gli abusi in atto e garantire i «pieni diritti di cittadinanza» ai Rohingya.

Tratto da: lastampa.it

Info foto: Mohammed Shohayet è morto a 16 mesi insieme alla madre e al fratellino nel tentativo di attraversare il fiume Naf per fuggire in Bangladesh dalla Birmania

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