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bambini siriani reteLo scorso ottobre il giornalista della Rai Amedeo Ricucci ha realizzato un reportage in presa diretta seguendo un gruppo di profughi siriani dalle isole greche a Vienna. 

VIDEO La lunga Marcia, il racconto di Speciale Tg1

Come è nata l’idea di questo viaggio?
“Da un disagio profondo dovuto a come è stato trattato il fenomeno delle ultime migrazioni. Attraverso la rotta balcanica, dal 1 agosto fino a fine settembre sono arrivati circa 250mila profughi in Europa, di cui 180mila siriani. La migrazione è stata vissuta soprattutto come un problema di ordine pubblico, con le frontiere che si aprivano e si chiudevano, mentre i profughi restavano solo un oggetto della narrazione giornalistica. Davanti ai nostri occhi c’era sempre l’immagine del cronista fermo alla frontiera, con alle sue spalle un flusso ininterrotto di bambini, donne e uomini. L’idea è stata quella di provare a fare il viaggio con loro, per cogliere altre notizie, informazioni ed elementi utili per capire il perché di questa migrazione, che è infinitamente maggiore rispetto a quella dal Mediterraneo, a cui eravamo abituati. Se guardiamo i numeri, infatti, le gente che è passata attraverso la Libia è molto meno rispetto a quella che sta passando attraverso la rotta balcanica, e la stragrande maggioranza, sono siriani. Mi sono organizzato per fare il viaggio assieme a loro. L’ho fatto coinvolgendo gente della comunità italo-siriana, e non solo, e il risultato è stata questa lunga marcia che abbiamo fatto e che secondo me, aggiunge elementi importanti per comprendere le ragioni di questa fuga di massa. Quando ti metti nei panni di chi fa questo viaggio scopri tutta una serie di elementi che da giornalista esterno non cogli, come ad esempio quando ci si perde a una frontiera, o quando le famiglie vengono divise, per cui il padre sta da una parte, il figlio dall’altra. Ti cali nella realtà di un viaggio pieno di insidie, che nessuno sa come potrà finire. Dall’esterno sembra tutto facile: si parte dalle coste turche e si arriva nel nord Europa, ma viverlo dall’interno è un dramma. Il tragitto in mare, tutto sommato breve, da Izmir fino a Lesvos  sembra banale per chi guarda da lontano; in fondo sono solo due ore di traversata, si pensa. Ma il grosso dei profughi che abbiamo incontrato hanno dichiarato, invece, che il momento più drammatico è stato proprio quello. Salire su un gommone insieme ad altri 80 passeggeri, stringendo tra le braccia i propri figli, non è affatto una cosa tranquilla; il gommone, infatti, spesso prende acqua, può affogare, come dimostrano le inarrestabili tragedie del mare”.

Da dove sei partito? Quali sono i Paesi che hai attraversato?
12195950_904807552907573_2732582454773567955_n“Avrei voluto iniziare il viaggio dai confini siriani, ma ho temuto che i tempi si potessero allungare troppo, così siamo partiti dall’isola di Lesvos, in Grecia, dove arrivano circa 3500 profughi al giorno. Mi sono aggregato al primo gruppo che ho incontrato e con loro ho fatto tutto il tragitto, fino al capoluogo dell’isola, con 70 km da percorrere a piedi. I cittadini greci, infatti, non hanno l’autorizzazione a caricare profughi e ci si affida ai pochissimi autobus dell’Unhcr. Si passa attraverso un centro dove  si viene registrati, poi si arriva al porto di Mitilini; da lì si prosegue e se si ha fortuna si prende il giorno stesso il traghetto fino ad Atene (ce ne sono solo due al giorno). Si raggiunge, così, la frontiera macedone e in fretta si cerca di arrivare alla frontiera serba e successivamente a quella croata. Quando ci sono arrivato io c’era ancora la possibilità di attraversare, di andare dritti in Ungheria poi al confine austriaco, quindi a Vienna. Ora la situazione è cambiata: la Croazia ha chiuso la frontiera e vediamo immagini drammatiche di profughi che si ammassano alla frontiera slovena e cercano di passare in Austria attraversando il fiume, combattendo con condizioni meteo avverse”.

Come hai trovato i bambini, le donne, i giovani e gli anziani che hai incontrato lungo il tuo cammino?
“Tutti mi dicevano che il più grande problema è proprio quello della lunga marcia, soprattutto per i bambini, che sono circa il 20-30% dei profughi; alcuni hanno solo pochi mesi. Va detto che lungo il tragitto è pieno di Ong e di volontari che cercano di dare una mano, offrendo mezzi di sussistenza, ma resta il fatto che marciare di notte, al buio, al freddo, sotto la pioggia, non è una cosa tranquilla, è un’esperienza terribile. Ho visto siriani benedire la terra in cui arrivavano, l’Europa, ma allo stesso tempo dire che non è stato aperto un vero corridoio umanitario, perché il percorso che affrontano è pieno di ostacoli, una vera via crucis. Questi profughi vorrebbero arrivare in Paesi dove le procedure per l’ottenimento dello status di rifugiati sono veloci, come è giusto che sia, e per questo provano ad andare in Germania o nei Paesi nordici”.

Che cosa ti ha colpito maggiormente?
12096447_1078702452154061_5897305332669776742_n“Due cose, in particolare: c’è un intero Paese che si sta svuotano. Avvocati, medici, giudici contadini, operai, le classe agiate e quelle povere; chiunque prova ad andare via, non c‘è più nessuna possibilità di vita in Siria. La gente dice che non poteva non andare via per i propri figli e spesso i ragazzi vengono mandati in Europa dalle loro stesse famiglie, per metterli in salvo. C’è un senso di disperazione totale. L’altra, forte, consapevolezza che ho avuto è che la gente è ormai scoraggiata: sono crollati, dopo quattro anni e mezzo, anche gli ideali civili. I siriani sono stanchi. La gente che prima è scesa in piazza contro la dittatura, poi ha preso il fucile, adesso è esasperata perché non si vede una via d’uscita. Ho sentito molta gente chiedersi dov’erano i combattenti quando il regime bombardava le loro case o venivano uccisi i loro figli. C’è un senso di disperazione tipico di chi non ha più nessuno a cui affidarsi. È una cosa che mi ha fatto male. Sono stato l’ultima volta in Siria nel 2013 e all’epoca c’erano ancora tantissime persone che volevano rimanere, combattere, aiutare; oggi la sensazione è di sfiducia generale. Questa è una realtà con cui tutti devono fare i conti, i siriani in primis, ma anche l’Occidente”.

Dalle testimonianze che hai raccolto, qual è la principale causa di fuga dalla Siria?
11231738_890674440987551_485342782779913638_n“Ho avuto modo, nella lunga marcia, di parlare con migliaia di siriani che scappavano e ho avuto la conferma che i siriani fuggono solo in minima parte dell’Isis. La totalità dei siriani fugge dalla guerra, la maggior parte dalle barrel bombs di Assad, da quei bombardamenti indiscriminati contro i civili nelle zone che il regime non controlla più. C’è una parte della popolazione che fugge da Jabhat Al Nusra e altri gruppi armati, e c’è anche chi fugge dalle zone sotto il controllo del Free Syrian Army e dei ribelli, perché questi ultimi non sono più in grado di proteggere la popolazione civile. Quindi, chi può, fugge. Un sondaggio fatto a Berlino all’inizio di ottobre da un organismo indipendente conferma questa realtà. Sono stati coinvolti mille siriani arrivati in Germania e ne è emerso che il 55% fugge dalle barrel bombs del regime, il resto dalle fazioni combattenti. Molta gente, alla domanda ‘torneresti in Siria e a che condizioni’ risponde che tornerebbe in Siria solo se va via Assad”.

Nel reportage hai seguito, in particolare, un gruppo di profughi: quali aspetti della loro vicenda umana ti hanno colpito di più?
“Tutto e niente, nel senso che la mia storia professionale negli ultimi anni è legata alla Siria e non ho ascoltato nulla di nuovo,  rispetto a quello che sapevo. Ho toccato però con mano la disperazione, che è qualcosa che non avevo visto prima. In Siria avevo avuto la percezione netta dell’orgoglio di un popolo, della dignità, della fierezza di chi si ribella a un despota. Quattro anni dopo la fierezza c’è ancora, ma gli stati d’animo sono cambiati. Facendo questo viaggio mi ha colpito il fatto che, tutte le volte che provavo a dare un aiuto economico, la gente diceva di no, insistendo per pagarsi da sola i trasporti. Nessuno accettava quella che, ai loro occhi, sembrava un’elemosina. La guerra ha fatto tabula rasa: ha ucciso 300mila persone e la speranza di un intero popolo”.

Tu hai affrontato in prima persona il loro stesso viaggio. Che cosa ti ha lasciato questa esperienza?
“Devo dire che le marce notturne sono impietose perché di notte non è facile camminare per chilometri e chilometri, per ore e ore. Ho visto persone sulle sedie a rotelle, spinti da amici e familiari, persone con handicap che marciavano di notte, che venivano prese in braccio, tra mille difficoltà. Non è affatto semplice assistere impotenti di fronte a questa tragedia. Ma la cosa più terribile che ho visto è il campo di Opatovac in Croazia, che mi ha ricordato le deportazioni naziste degli anni ’40. Non è attrezzato per accogliere un simile flusso e lì le famiglie vengono smembrate; ho assistito a scene terribili di bambini che piangevano e andavano verso la rete che li separava dai padri, tenuti in una zona circoscritta, e questi ultimi che allungavano le dita attraverso la rete per dare loro una carezza di conforto. Non ne faccio una colpa ai croati, perché accogliere un simile flusso di disperati non è una cosa facile, ma se abbiamo scelto politicamente di concedere l’asilo ai siriani, allora i corridori umanitari devono essere tali e la gente non deve essere costretta a marciare in simili condizioni e subire tutto questo”.

refugee-campLa Siria è entrata nella tua vita ormai cinque anni fa. Come è cambiata la situazione dal tuo primo viaggio ad Aleppo all’ultimo a Kobane?
“Non è facile dire come è cambiata perché mentre tre anni fa riuscivamo ad entrare in Siria e avevamo un orizzonte ampio sulla situazione, adesso fatichiamo ad avere notizie di prima mano. Kobane rappresenta un’enclave particolare e per troppi aspetti la vicenda di questa città è stata pompata dai media occidentali; non era lo specchio della Siria. Quando chiedo ai miei contatti  di aiutarmi ad entrare in Siria mi dicono che possono farlo, ma che devo stare lì solo per qualche ora; la situazione non è sicura e tranquilla per nessuno, tanto meno per i giornalisti occidentali, che nelle mani sbagliate potrebbero costituire una fonte di reddito. Io non incolpo i siriani di questo, perché penso che dopo cinque anni di guerra sia normale inaridirsi. Vengono fuori gli istinti peggiori, e si pensa solo alla sopravvivenza propria e dei propri cari. Spero di tornare presto, anzi voglio tornare, e aspetto l’occasione buona per farlo”.

Da giornalista, quali sono gli aspetti del dramma siriano di cui, secondo te, si è parlato poco?
Migrants fall as they rush to cross into Macedonia after Macedonian police allowed a small group of people to pass through a passageway, as they try to regulate the flow of migrants at the Macedonian-Greek border September 2, 2015. Up to 3,000 migrants are expected to cross into Macedonia every day in the coming months, most of them refugees fleeing war, particularly from Syria, the United Nations said last week. REUTERS/Ognen Teofilovski TPX IMAGES OF THE DAY - RTX1QR2L“La macchina della propaganda di Assad ha vinto la guerra mediatica. Nei primi tempi si riusciva a contrastarla, ma dopo un po’, anche grazie a una regia perfetta, sono riusciti ad affermare la loro verità, che non è affatto la verità di ciò che accade in Siria. Ci sono riusciti grazie a diverse circostanze geopolitiche che hanno favorito Assad, come l’aiuto della Russia, e il fatto che gli Stati Uniti dovevano fare l’accordo con l’Iran.  A tutto questo l’opposizione siriana non è riuscita ad opporre le sue ragioni. All’opposizione siriana va imputata un’incapacità di lavorare insieme, di operare in modo unitario. I siriani, quindi, sono anch’essi responsabili per il fatto che Assad ancora adesso venga considerato una parte della soluzione, mentre lui è una parte del problema, anzi, il problema. Ma l’opposizione siriana è sempre stata divisa e frantumata in mille componenti, delegittima dai combattenti sul terreno, che non hanno mai visto di buon occhio chi sta nei propri salotti e negli alberghi turchi a cinque stelle e pensa di rappresentare la voce del popolo siriano. Questa divisione ha favorito la propaganda di Assad. L’intervento russo è stato la ciliegina sulla torta. I russi hanno praticato un’accelerazione dell’iniziativa militare, ed è in atto un’escalation bellica pesante che fa danni ingenti e che rischia di portare Assad al tavolo delle trattative. Ciò sarebbe improponibile; sarebbe inaccettabile per i siriani, e non solo, che il massacratore, il macellaio che si è macchiato del sangue del suo stesso popolo vada al tavolo del confronto internazionale. La mia paura è che la Siria venga smembrata, che si ricrei una situazione come quella dei Balcani, con un’enclave alawita sulla costa, una sunnita nella parte centrale e una curda al Nord. Sarebbe la fine di un Paese che ha un passato di unità. Non sarebbe più la Siria che conosciamo”.

Anche qui in Italia hai avuto modo di conoscere giovani siriani che hanno preso a cuore la rivolta contro il regime. Credi che il loro sogno sia stato cancellato per sempre?
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“Resto ottimista. Io credo alle primavere arabe. L’anelito di libertà che è stato espresso in Siria, in Tunisia, in Egitto, non si può spegnere e prima o poi avrà uno sbocco. La Tunisia è il Paese in cui la transizione è andata meglio; l’Egitto ha avuto purtroppo un’involuzione autoritaria, mentre la Siria è vittima di una guerra che pesa sul destino stesso del Paese. C’è, tuttavia, un punto di non ritorno: i giovani arabi sono riusciti ad abbattere il muro della paura e questo è l’elemento fondamentale. Non c’è più la soggezione ai rais, ai dittatori che per decenni hanno oppresso i popoli. Chiaramente non è detto che abbattere il muro della paura porti subito alla democrazia, ma è un passo importante. Ciò che mi conforta è che tutt’ora i giovani (la maggior parte della popolazione in Siria ha meno di 18 anni) non fanno marcia indietro. Si sono temporaneamente fermati, ma non si danno per vinti. Mi piace citare l’esempio di Kafranbel, in Siria, dove i ragazzi  continuano a comunicare col mondo attraverso i loro striscioni satirici e ironici che pubblicano in rete. Penso che sia di buon auspicio”.

Dalla tua esperienza in ambito internazionale, cosa vedi per il futuro di questo popolo?
“Credo che, ahimé, il ritorno dei siriani in Patria non sarà immediato. La situazione in Siria non si risolverà nell’arco di pochi mesi, ma serviranno anni. Ho parlato con tanti ragazzi durante questo viaggio, che dicevano che non volevano venire in Europa per lavoro o perché si vive meglio, ma che scappano perché è l’unica chance in questo momento. Quando in Siria si avranno condizioni  di libertà, tutti dicono che torneranno. In questo frattempo bisognerà garantire ai profughi condizioni di vita dignitose. In Italia non è ancora così; non è un caso, infatti, che solo un’esigua minoranza voglia fermarsi qui;  il grosso va verso Paesi che offrono più opportunità di studio e lavoro e procedure per l’ottenimento della status di rifugiati molto più veloci. L’Italia, da questo punto di vista, è indietro e dovrebbe adeguarsi rispetto alla nuova realtà di questi flussi migratori. Il  siriano ha un forte spirito di popolo e non viene qui per rubare il lavoro agli italiani. Questo va ribadito”.

Tratto da: diariodisiria.wordpress.com

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