Questo sito utilizza cookie tecnici e di terze parti per migliorare la navigazione degli utenti e per raccogliere informazioni sull’uso del sito stesso. Per i dettagli o per disattivare i cookie consulta la nostra cookie policy. Chiudendo questo banner, scorrendo questa pagina o cliccando qualunque link del sito acconsenti all’uso dei cookie.

soldatessa-del-califfatoUna disertrice dell'Isis si racconta nel libroSoldatessa del Califfato: così, i terroristi addestrano i bambini
La fuga in Siria per abbracciare la causa dell'Isis. Le torture agli infedeli, le stragi di donne e bambini e l'odio dell'Islam in guerra contro l'Occidente. E poi il pentimento e il ritorno a casa per tentare di riprendere una vita (quasi) normale. È la storia che una giovane tunisina di 26 anni, moglie di uno dei capi combattenti dello Stato Islamico, racconta nel libro Soldatessa del Califfato di Simone Di Meo e Giuseppe Iannini (Imprimatur, 16 euro).
La miliziana ha fatto parte della “polizia morale” del regno di Al Baghdadi ed era una delle più promettenti social media manager dell'Isis: curava i profili Facebook e Twitter dei terroristi per reclutare nuove mogli ai jihaidisti. Nel volume svela i segreti dell'organizzazione terroristica: dalle donne occidentali tenutarie dei “bordelli” islamici fino al traffico di reperti archeologici su Ebay gestito dai militari di Allah.

Nello Stato Islamico, tutti devono essere pronti a combattere per Allah. L’Isis addestra i bambini a diventare combattenti. Vengono armati e istruiti sulle arti marziali. I miliziani insegnano loro a distruggere tutto quello che può offendere il Profeta e Dio, compresi i luoghi di culto cristiani risalenti a secoli e secoli fa. Nelle madrase i maestri ripetono all’infinito ai bambini la regola principale di ogni buon musulmano salafita: «Combatti coloro che non credono in Allah, il loro asilo sarà la Gehenna». La Gehenna è la valle dove, alla fine dei tempi, le anime dei corrotti, degli impuri e degli infedeli saranno radunate per la punizione.
Crescono con un odio assassino nei confronti del mondo. Molti sono strappati alle loro famiglie in tenerissima età, tanti altri provengono invece dai Paesi dell’ex Unione Sovietica. Spesso li incrociavo a Raqqa, bardati in piccole uniformi. Soldati in miniatura che studiavano l’arabo e il Corano e inneggiavano ad Al Baghdadi. Non sono mai riuscita a spiegarmi per quale motivo si trovassero in Siria. Probabilmente, sono figli di mercenari che hanno trovato ingaggio nell’Isis.
Mi è capitato di picchiare qualche bambino, durante i rastrellamenti della polizia morale, ma non sono mai andata oltre. Ho fatto del male a tante persone ma coi più piccoli ho cercato di essere dura ma mai cattiva.
Bechir, invece, in Iraq, a Mosul, dov’era stato in passato a combattere, ha assistito alla decapitazione di ragazzini cristiani che si erano rifiutati di convertirsi insieme ai loro genitori. Li hanno uccisi davanti alle mamme e gettati in una fossa comune, altri li hanno utilizzati come scudi umani contro i raid aerei. Mi svelò questo episodio raccapricciante in uno dei nostri tanti colloqui notturni, e fu in quell’occasione che qualcosa si ruppe. Per la prima volta vidi mio marito indifeso. Fu di poche parole, mi fece promettere che non gli avrei chiesto di ritornare sull’argomento in futuro. Quando mi riferì i particolari, ebbi il desiderio immediato di allontanarmi da lui. Non avevo voglia di abbracciarlo e di addormentarmi sentendo il suo respiro sui miei capelli, come facevamo nel nostro letto, stretti l’uno all’altra. Anche noi, come tutte le coppie, volevamo un figlio che purtroppo non è arrivato.
Pensare ai genitori di quei poveri bambini ammazzati dai jihaidisti ci tolse il sonno e provocò una frattura nel nostro rapporto di coppia. Da quel momento in poi, iniziai a guardare al Califfato con una visione diversa, disincantata.
Quella sera Bechir non riuscì ad addormentarsi, come me. Restò tutta la notte con gli occhi verso il soffitto. Avevamo sbagliato tutto. Non dovevamo partire per la Siria e arruolarci nell’esercito di Da’Sh. Solo in quel momento ce ne rendemmo conto. Ma nessuno ebbe il coraggio di dirlo ad alta voce.
L’indomani, poco prima di uscire per una perlustrazione, Bechir si avvicinò e mi strinse a sé per dirmi che aveva dovuto allontanarsi dai suoi commilitoni, durante la strage dei bambini, per non farsi vedere mentre piangeva. Avrebbe rischiato di morire anche lui perché l’Isis non ammette che si versino lacrime per gli infedeli. Fu una confessione che non mutò il mio stato d’animo. Lui se ne accorse e uscì senza nemmeno salutarmi. Non penso che fingesse, era davvero sconvolto per quell’esecuzione di massa.
Da quella notte, iniziai ad accusare una sensazione di malessere che si protrasse per i giorni successivi. Ero inquieta, come se aspettassi da un momento all’altro una brutta notizia. Dopo circa una settimana, mia sorella mi contattò su Facebook per dirmi che mio fratello era stato ucciso.
Allora capii che il mio tempo in Siria era scaduto.

ANTIMAFIADuemila
Associazione Culturale Falcone e Borsellino
Via Molino I°, 1824 - 63811 Sant'Elpidio a Mare (FM) - P. iva 01734340449
Testata giornalistica iscritta presso il Tribunale di Fermo n.032000 del 15/03/2000
Privacy e Cookie policy

Stock Photos provided by our partner Depositphotos