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eternit-ingiustizia-fattadi Maria Novella De Luca - 20 novembre 2014
La Cassazione: amianto, reato prescritto per Schmidheiny Saltano i 90 milioni di indennizzi per le vittime. L’ira dei parenti
Roma. «È una strage infinita. I nostri cari, i nostri amici, i nostri figli continuano a morire di cancro. Ogni settimana c’è un lutto, l’ultima è stata una ragazza di ventotto anni. Ci stiamo ammalando tutti, hanno prescritto il reato ma la morte non si estingue». E poi: «Vergogna», «Assassini». È un urlo forte e terribile quello che risuona nei corridoi della Cassazione, quando il presidente annuncia che l’intero processo “Eternit”, e soprattutto le colpe dell’ultimo dei proprietari della famigerata fabbrica di amianto, l’industriale svizzero Stephan Schmidheiny, sono cadute in prescrizione. Tremila morti di mesotelioma pleurico, tra Casale Monferrato, Cavagnolo, Rubiera, Bagnoli, e nessun colpevole. Come se quella polvere killer che decimava da Nord a Sud gli operai dei quattro stabilimenti italiani dell’azienda elveticobelga, più le vittime svizzere e francesi, non fosse stata causata dalla lavorazione dell’amianto, ma quasi da una calamità naturale.

«Mia cognata è morta a cinquantacinque anni, tra sofferenze atroci, e soltanto perché lavava le tute del marito, che erano coperte di quel veleno», ricorda tra le lacrime Maria Ottone. Il maxiprocesso Eternit, frutto di 30 anni di ricostruzioni, l’enorme lavoro del procuratore di Torino Raffaele Guariniello, che riuscì a dimostrare come i vertici della multinazionale fossero del tutto consapevoli dei pericoli a cui esponevano gli operai, è stato cancellato ieri con un colpo di spugna, e la complicità dell’oblio del tempo. Perché la tesi del procuratore generale Francesco Iacoviello fatta propria dalla Corte - è che da quel “delitto” sono passati troppi anni. Visto che la “Eternit” chiuse nel 1986, le responsabilità dei suoi proprietari si fermano a quella data, e dunque dopo quasi trent’anni il reato cade in prescrizione. Vanificando così la condanna a diciotto anni di reclusione per disastro ambientale doloso al magnate svizzero Stephan Schmidheiny.
Una sentenza accolta con grida di sdegno o occhi pieni di lacrime dalle associazioni delle vittime arrivate ieri in pullman da tutta l’Italia, ma anche dalla Francia e dalla Svizzera, insieme alle delegazioni di altri morti sul lavoro, i parenti degli operai morti nel rogo della Thyssen. Perché insieme all’assoluzione del padrone delle fabbriche, la decisione della Cassazione cancella anche i 90 milioni di risarcimenti alle 5mila parti civili. Una tragedia nella tragedia. «Ci hanno dato un calcio in pancia — dice Bruno Pesce, portavoce delle vittime di Casale Monfer- rato — l’amianto continua ad ucciderci, come si può prescrivere un reato simile?». Perché quello che raccontano le centi- naia di parenti che per ore hanno aspettato il verdetto della Cassazione, è che a Casale, come a Bagnoli, come a Rubiera, «ogni pochi giorni c’è un lutto, tutto è contaminato, la nostra acqua, le nostre case, e adesso hanno iniziato a morire le persone giovani, abbiamo paura che si ammalino pure i bambini».
Dunque l’Eternit è una strage negata. Eppure già negli anni Settanta esistevano capillari dossier sulla pericolosità di quella povere bianca, che laddove c’erano gli stabilimenti sembrava una neve malata. E mentre Schmidheiny plaude alla sentenza, chiede che lo Stato italiano lo protegga «da ulteriori processi ingiustificati» e urla al «complotto dei pm di Torino», lo sdegno profondo dei parenti viene amplificato dalla politica. Durissimo il commento di Sergio Chiamparino, governatore del Piemonte. «Apprendo con sorpresa e disappunto della decisione della Corte di Cassazione di annullare la sentenza di condanna a Stephan Schmidheiny nel processo Eternit. Tutto ciò non può che destare profonda indignazione».
Negli occhi e nelle parole dei parenti delle vittime ci sono lutti che si sommano a lutti. «Ho perso mio padre, mio fratello, mia cognata». «Sono morti mio figlio e altri cinque cugini». Chi lavorava in fabbrica e chi no. A volte i familiari, che entravano a contatto con i residui sugli abiti da lavoro dei loro cari. Ma la cosa più inquietante è che secondo le previsioni la catena dei lutti non è destinata a spezzarsi. «Ci hanno detto che il picco dei tumori ci sarà nel 2025», mormora amaro Nicola Pondrano, ex dipendente della Eternit, «questa non è la prova chiara di un reato che non può essere prescritto?». E dunque quanti saranno i morti che si sommeranno ai morti, tremila quelli accertati, più i tanti altri già ammalati?
Infatti, «è come se le vittime fossero morte due volte» hanno detto gli esponenti di “Green Italia” Roberto Della Seta e Francesco Ferrante. «Nel caso Eternit il disastro ambientale doloso è un reato continuato, le cui conseguenze durano oggi e dureranno ancora a lungo. Inaccettabile considerarlo come un reato soggetto a prescrizione. È giuridicamente e moralmente indecente la scelta di lasciare impunita l’azione di chi, nel nome del profitto, ha violato sistematicamente la legge esponendo a rischi mortali migliaia di lavoratori e cittadini».
Racconta Antonio, padre di una delle vittime dello stabilimento di Bagnoli: «Gli scarti dell’Eternit venivano buttati senza criterio in una discarica a cielo aperto, poco lontano dalle case. E quintali di residui sono ancora lì, accanto alle scuole, ai luoghi dove giocano i bambini. E sono loro adesso che si stanno ammalando di cancro. L’amianto uccide ancora, ogni giorno».


“Ho perso mio marito una figlia e una sorella Sono stanca di lottare ma non mi arrenderò”
di Ottavia Giustetti e Jacopo Ricca - 20 novembre 2014
Roma. «Sono stanca. Stanca di soffrire e vedere la gente morire attorno a me. E la delusione brucia come non immaginavo. Andremo avanti, però, non per noi ma per i nostri giovani». Ottantacinque anni, cinque parenti morti per l’amianto, Romana Blasotti è il volto simbolo di questa battaglia che è durata dieci anni e che è cresciuta nella speranza di avere giustizia per le vittime dell’Eternit in una città che non conta nemmeno più i suoi morti. Era a Roma con il figlio per assistere alla lettura della sentenza. «È un colpo durissimo, ci sentivamo a un passo dal traguardo». E poi ricorda un momento la sua personale Spoon River: «Mio marito è morto nel 1983, subito dopo essere andato in pensione. Dopo di lui ho perso mia sorella, un nipote e una cugina. L’ultima è stata mia figlia nel 2004».

Come racconterà al rientro a Casale quel che ha sentito in aula?
«È stata un’esperienza orribile. Non solo per la sentenza, ma per le parole dell’avvocato Franco Coppi (il difensore di Stephan Schmidheiny, ndr ). Non ha avuto rispetto né per le vittime né per noi che siamo venuti fin qui. So che gli avvocati della difesa fanno il loro lavoro, ma ancora una volta ho dovuto ascoltare parole orrende per i nostri morti».

La mattinata era iniziata con l’arringa del procuratore generale che avrebbe dovuto sostenere l’accusa e invece ha chiesto di annullare la sentenza.
«Sì, la sua tesi ci ha lasciati di stucco: non si può parlare di una legge che non fa giustizia e non ci possono chiedere di rispettarla. Noi ci battiamo da più di trent’anni perché ci venga riconosciuto tutto quel che abbiamo patito e ce lo vediamo negato proprio all’ultimo».

Con quali attese era partita per Roma?
«Ci sentivamo quasi al traguardo. E non ci faremo comunque scoraggiare. Per noi la battaglia non si chiude qua».

Qual è la situazione oggi nella sua città, Casale Monferrato?
«Loro dicono che la strage è prescritta, ma a Casale si continua a morire: siamo 35mila abitanti e ogni anno quasi sessanta persone muoiono a causa dell’amianto. Come facciano a dire che è prescritto proprio non riesco a capirlo. Oltre tutto chi ha accettato i pochi soldi degli imputati prima del processo ora si terrà i risarcimenti, mentre per noi non ci sarà nulla».

Schmidheiny assolto. Cosa gli direbbe?
«Sono anni che spero di incontrarlo. Se non è responsabile dei morti venga a parlarci. Vorrei guardarlo in faccia mentre lo fa. Io non cerco vendetta e non ho rancore, ma vorrei che dovesse occuparsi di un malato di mesotelioma per un solo giorno. Un malato qualsiasi di quelli che hanno respirato quell’amianto che lo ha reso ricco».


Il padrone, l’amianto e quei tremila morti: “Dalla fabbrica uscivano solo malati”
di Paolo Griseri - 20 novembre 2014
Stanno morendo ancora. Ma ormai è troppo tardi. E dunque, in qualche modo, muoiono invano. A Casale, ancora oggi, c’è un funerale per amianto alla settimana. Da ieri sera ogni bara è un omicidio impunito. Ce ne saranno ancora molti, moltissimi: «Il picco — dicono gli epidemiologi — sarà nel 2020». L’ondata di piena della morte verrà tra sei anni, quando Stephen Schmidheiny, ormai 73enne, potrà vivere da innocente anche per la giustizia italiana. Anzi, da filantropo. Sul suo sito web si è già assolto da anni: «Quando guardo indietro e valuto il nostro attuale livello di conoscenza sulle vittime dell’amianto, mi sento sollevato per la fermezza con cui ho deciso di non usare più questo materiale».
Alla Eternit il dramma è arrivato in silenzio, come la malattia, 35 anni fa. «Abbiamo cominciato ad accorgercene negli anni ‘70, quando nella bacheca di fabbrica i necrologi hanno superato gli avvisi», raccontano i pochi operai sopravvissuti. Una pioggia di morte. Prima nello stabilimento di Casale poi anche nella città. La morte per mesotelioma, una forma incurabile di tumore della pleura, si è portata via la panettiera, la moglie avvelenata dalle tute da lavoro del marito, i bambini che avevano giocato ai giardini sul “polverino”, soffice polvere di amianto che Eternit generosamente donava ai suoi concittadini, benefit per i fortunati abitanti della città-fabbrica in provincia di Alessandria. Il tumore cova per decenni in silenzio. Ma da quando si sveglia, da quando diventano evidenti i primi sintomi, ci vogliono in media 306 giorni per morire. Il tumore è un colpo di pistola che ti colpisce al cuore 30 anni dopo essere stato sparato. Quando ormai l’omicida può sperare nella prescrizione. «La scorsa settimana — racconta Nicola Pondrano, capo dei delegati sindacali Eternit — un ex lavoratore ha scoperto di avere il mesotelioma. Era entrato a lavorare nella fabbrica a 25 anni. Oggi ne ha 87».
Schmidheiny lo chiamavano «lo svizzero» e a Casale si vedeva poco: «Sarà venuto due volte ma lo faceva di nascosto. Io che rappresentavo i delegati della fabbrica in tanti anni non sono mai riuscito a incontrarlo», racconta Pondrano. E rivela: «Solo poco tempo fa un impiegato mi ha confessato che il padrone era arrivato una volta in fabbrica ma entrando da una porta secondaria. Non amava farsi vedere nello stabilimento». L’uomo dell’amianto, rampollo di una famiglia di industriali svizzeri, ha preferito ricostruirsi un’immagine lontano dall’Italia. È diventato addirittura un campione dell’ambientalismo industriale, presidente d’onore del World business council for sustainible development , organismo dell’Onu per lo sviluppo industriale sostenibile. Ma per lui l’Italia continuava, fino a ieri, ad essere un luogo da cui fuggire: «Prometto che non finirò mai in una prigione italiana — aveva detto al Wall Street Journal — ogni tanto mi guardo allo specchio e posso guardarmi dritto negli occhi e sentire tutto il bene che ho fatto».
Non era stato facile far capire ai casalesi che la fabbrica non garantiva il futuro ma lo uccideva. All’inizio degli anni ‘80 era ormai evidente che la morte per mesotelioma era legata alla polvere bianca della Eternit. «Ma quando abbiamo cominciato a discutere di chiusura dello stabilimento, in città qualcuno diceva che eravamo matti e che portavamo via il lavoro», dice Pondrano. Nell’86 però la chiusura venne accolta da molti come una liberazione. La morte aveva cominciato a colpire anche fuori dalla fabbrica. I 400 operai vennero pre-pensionati con una legge scritta apposta per loro. Molti sarebbero morti negli anni immediatamente successivi. Oggi i morti complessivi per l’amianto dell’Eternit sono quasi 3.000.
Si poteva evitare tutto questo? E chi avrebbe potuto fermare prima la produzione? Su questo si è combattuta la battaglia giudiziaria. Nelle due sentenze di condanna, i dirigenti dell’azienda erano stati accusati di aver nascosto il pericolo pur essendo ormai coscienti che la vita dei loro dipendenti era a rischio. Hanno continuato a far funzionare gli impianti, questa era l’accusa, per pura sete di profitto, mettendo in secondo piano la salute. Negli atti del processo c’è un biglietto inserito nel 1978 dall’azienda in ogni busta paga: «Si è appurato — era scritto — che l’amianto può avere effetti cancerogeni. Come il fumo di sigaretta. Invitiamo dunque i nostri dipendenti a smettere di fumare».

Tratto da: La Repubblica del 20 novembre 2014

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