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ilva-quartieredi Grazia Longo - 5 luglio 2014
A Taranto dopo i dati choc: solo i volontari aiutano le famiglie
È un pomeriggio assolato come nel resto del Sud e molti bambini si rincorrono ridendo sul lungomare. Dall’altra parte della città no. Dove il camino «E 132» dell’Ilva - tossico più di 10 mila inceneritori messi insieme - si erge minaccioso in una desolazione di cemento, con pochi e spelacchiati alberi intorno, i bambini sono meno bambini degli altri.
Questa è la drammatica realtà di chi vive tra Tamburri e Statte. I bambini dell’Ilva hanno per compagni di giochi i clown degli ospedali che cercano di farli ridere, mentre le speranze di guarire dalla leucemia precipitano più del mercurio sotto lo zero. I bambini dell’Ilva non hanno neppure un reparto pediatrico ematologico: chi non può permettersi i viaggi al Bambin Gesù di Roma per la chemioterapia, deve affidarsi alla generosità del primario del Moscati, Patrizio Mazza, che insieme all’Arci ha allestito una baby room tra le stanze dei pazienti adulti. I bambini dell’Ilva hanno le braccia talmente bucate per le troppe flebo da dover ricorrere a minuscoli cateteri sul petto.

Le storie di Ambra, Michele e Luca - 4, 10 e 12 anni - raccontano di mascherine indossate nelle poche giornate dell’anno trascorse a scuola invece che in corsia. Di fantasie escogitate per aggirare lo spettro della morte. Di una gita al mare agognata per anni. Di un coraggio disarmante per combattere contro un nemico infido e insidioso. Guardi i loro occhi sgranati, attenti, e ti domandi dove trovino la forza di essere ancora così curiosi nonostante tutto. Sembrano piccoli Don Chisciotte contro i mulini della fabbrica della morte.
«Per almeno altri 50 anni assisteremo a bambini, ma anche adulti, ammalarsi e morire per la diossina - dice il pediatra Roberto Brundisini -. Si doveva aspettare l’allarme dell’Istituto superiore di Sanità per far capire alla nostra classe politica che a Taranto si muore d’Ilva? Nel ’73 il disastro della diossina fuoriuscita a Seveso procurò la giusta allerta. Qui in Puglia, niente. Eppure, seppur diluita nel tempo, la diossina dell’Ilva è doppia rispetto a Seveso».
Lo ripete anche Paolo Mastromarino, 47 anni, insegnante di musica precario, papà di Luca che ha 12 anni e da quando ne aveva 4 lotta contro la leucemia. Ne ha avute due, l’ultima ha richiesto il trapianto del midollo osseo. «Per la prima volta, dopo tantissimi anni, andremo al mare a un’ora di macchina da Taranto - racconta il padre -. Luca da 7 anni entra ed esce dal Bambin Gesù di Roma. A volte è ricoverato per 3-4 mesi, ma siamo stati lì anche un anno di fila. Immaginate cosa significhi per un bambino, eppure lui ha sempre cercato di reagire».
Il sogno nel cassetto di Luca è giocare in una squadra di pallavolo, ma sa che non può e ha ripiegato sul tiro con l’arco. I compiti li riceve tramite Facebook da una compagna dolcissima, Alessia Cappellano (premiata pure come bambina più buona d’Italia), che glieli porta a casa nei rari periodi in cui Luca resta a Taranto.
Ambra Friolo, invece, 4 anni, genitori disoccupati, non si può permettere neanche le trasferte in un ospedale pediatrico. «Per fortuna la cura qui il dottor Mazza - racconta la mamma Chiara, 32 anni -. Ambra sta male da quando aveva pochi mesi, ma solo a febbraio abbiamo scoperto che si tratta di leucemia. Gioca con le bambole e con la borsa del dottore, perché dice che vuole curare i bambini malati come lei».
Anche Ambra quando è a casa viene assistita dai volontari della sezione locale Ail (associazione italiana leucemia e linfomi).
La presidente, Paola D’Andria è una signora di 63 anni infaticabile e premurosa con i piccoli e le loro famiglie. «Abbiamo una squadra di ragazzi che intrattengono i bimbi - spiega -, ma anche medici, infermieri e psicologi che si occupano delle loro patologie ma anche delle difficoltà dei genitori e dei fratelli. Sono anni che sfiliamo e protestiamo per l’inquinamento dell’Ilva, eppure finora nessuno ci ha ascoltato veramente. Ma che cosa dobbiamo fare per attirare l’attenzione sui nostri bambini?».
Michele, 10 anni, è stato colpito da un tumore alla faringe, «come neppure il più incallito fumatore adulto, eppure nessuno di chi conta veramente si è mobilitato per lui». L’Ail fa di tutto per alleggerire il peso dei bambini. L’ultima iniziativa una regata sul mare, alla quale hanno partecipato tutti quelli che potevano scendere dal letto in quell’occasione. «Sognando Itaca» è stata un’opportunità unica, indimenticabile, per molti di loro.
«Anche per Luca - precisa ancora suo padre -, basta osservare il suo sorriso stampato sulla foto. Cosa vuole che le dica? Andare avanti non è semplice, le recidive sono sempre dietro l’angolo».
Ma Luca non molla e scommette su una possibile partita a pallavolo.


Da Trieste a Milazzo sei milioni di italiani vivono in zone a rischio
L’Istituto superiore di sanità: ora bonifiche e nuovi esami

di Paolo Russo - 5 luglio 2014
Non solo Taranto e Terra dei fuochi, ma dieci, venti, quaranta Ilva, con polveri, esalazioni, laghi e fiumi inquinati. Una minaccia per la salute dei 6 milioni di italiani che vivono nelle aree ad alto rischio ambientale. Quelle passate al setaccio dallo studio “Sentieri”, coordinato dall’Iss, l’Istituto superiore di sanità. Un nome che evoca una vecchia soap televisiva e che invece parla di morti di avvelenamento industriale. Almeno 1.200 decessi l’anno in eccesso rispetto alle normali medie nazionali, con tassi più alti soprattutto a sud e nelle aree contaminate dall’amianto, dove nel periodo 2003-2008 c’è stata un’impennata del 32% dei decessi per tumore della pleura. E sono dati che rappresentano solo la punta di un iceberg, perché come spiega la direttrice del Dipartimento ambiente e prevenzione dell’Iss, Loredana Musmeci, «i controlli sono stati avviati dove c’è stata una precisa indicazione dei decreti del ministero dell’ambiente e solo dove era presente un registro tumori».
Il rapporto sembra comunque dire che le bonifiche realizzate o solo annunciate in questi anni non hanno prodotto effetti perché intorno ai grandi poli chimici e petrolchimici, nelle vicinanze di centrali elettriche e siderurgiche, di miniere, porti, discariche e inceneritori la mortalità è più alta del 15% rispetto al resto del Paese. «A parte l’amianto – spiega la professoressa - per le altre fonti inquinanti non esiste certezza sulla correlazione con l’aumento delle malattie, ma i dati rappresentano un campanello d’allarme, al quale bisogna rispondere con bonifiche ed esami diagnostici, che spesso ancora non si fanno, soprattutto in Campania».
In genere le vie respiratorie sono quelle più colpite. Dove c’è presenza di amianto le morti in eccesso per tumore polmonare sono ben 330 e quelle per carcinoma pleurico sono il triplo della norma (416 morti in eccesso). Ma il tumore al polmone miete vittime anche intorno a poli petrolchimici e raffinerie (643 casi in eccesso). I dati sugli inceneritori dicono invece che nei loro dintorni la percentuale di carcinomi al fegato è doppia rispetto agli standard.
E l’Italia da risanare va ben al di la dei confini di Taranto e della terra dei fuochi. La Ferriera di Servola a Trieste rischia di diventare un’Ilva 2 per le emissioni di benzopirene, che causerebbe l’aumento di mortalità per malattie acute respiratorie e per tumori del colon retto. Nella zona mineraria e di raffinerie del Sulcis poi a rischiare non sono solo gli adulti ma anche i bambini di Sarroch e Portoscuso, dove bronchiti ed asma colpiscono molto più che altrove. Per il tumore alla tiroide i casi sono aumentati del 70% per gli uomini e del 56% per le donne a Brescia, nella zona limitrofa all’industria chimica Caffaro, dove ai bambini è persino vietato giocare sull’erba. A Milazzo il petrolchimico e la centrale termoelettrica non hanno risparmiato i bambini, nei quali si sono riscontrate mutazioni genetiche del Dna. E l’elenco potrebbe continuare a lungo disegnando una mappa dei veleni da risanare. Al più presto.

Tratto da: La Stampa del 5 luglio 2014

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